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Le aziende di Big Tech stanno investendo nella creazione di neonati “di design”, cioè geneticamente modificati I miliardari della Silicon Valley hanno deciso che quello di cui l'umanità ha bisogno è una formula per creare “neonati potenziati”.
Secondo il presidente della COP30 i Paesi ricchi dovrebbero tutti prendere lezioni di ambientalismo dalla Cina André Corrêa do Lago ha detto che la Cina, uno dei tre maggiori inquinatori al mondo, è l'esempio che il resto del mondo dovrebbe seguire.
Prima di essere scarcerato, Sarkozy si è vantato su Instagram di tutte le lettere che stava ricevendo in carcere Un reel sull'Instagram dell'ex Presidente mostra le tante lettere, regali e cartoline inviategli dai sostenitori. Lui ha promesso che risponderà a tutti.
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Dopo il flop di Megalopolis, Francis Ford Coppola è così indebitato che ha dovuto mettere in vendita la sua isola caraibica privata Dopo un orologio da un milione di dollari, Coppola è stato costretto a rinunciare anche all'isola caraibica di Coral Caye, suo ritiro estivo.
Si è scoperto che il Fedora Man, l’elegantissimo uomo fotografato il giorno della rapina al Louvre, è un 15enne che si veste sempre elegantissimo Non un giornalista né un detective né un cosplayer né un buontempone: Elias Garzon Delvaux è solo un ragazzo a cui piace vestire elegante e visitare musei.
Lo scandalo che ha portato alle dimissioni dei capi della Bbc ricorda molto la trama di The Newsroom 2 di Aaron Sorkin Il video manipolato di un discorso di Donald Trump ha portato alle dimissioni del direttore generale Tim Davie e della Head of News Deborah Turness.

Siamo arrivati alla fine del Grande Romanzo Americano?

La letteratura Usa ha formato generazioni di lettori anche in Italia, ma da qualche anno sembra aver perso energia. Un declino sancito anche dal New York Times che ha eletto L’amica geniale “libro del secolo”.

07 Novembre 2024

Lo scorso luglio il New York Times pubblicava la sua lista dei “100 libri migliori del secolo” generando nel popolo dei lettori italiani una gamma di reazioni che andava dallo sconcerto all’orgoglio patriottico. Questo perché in cima a quella lista, al primo posto, c’era My Brilliant Friend, ovvero L’amica geniale di Elena Ferrante, il libro di E/O e della sua consociata Europa Editions che tutti sapevamo oggetto di culto internazionale (e americano in particolare), ma che nessuno si aspettava di trovare al comando nella classifica di un’arte – la letteratura – in cui gli americani sono stati storicamente autarchici, tanto da essersi guadagnati per molti decenni la fama di quelli che non traducevano, perché poco e per nulla interessati a letterature che non fossero la loro. Ma i tempi sono cambiati e viene da pensare che il New York Times volesse anche lasciare un segno di questo cambiamento.

Oltre a Elena Ferrante, nei primi dieci posti di quella classifica troviamo infatti anche Sebald e Bolaño, due figure mitologiche della letteratura mondiale, che a ben diritto si trovano in quelle posizioni (e magari – opinione strettamente personale – meriterebbero anche di essere più in alto di Elena Ferrante), ma che, probabilmente, solo quindici o vent’anni fa, non sarebbero neanche stati tradotti. C’è un numero che sintetizza in modo eloquente tutto questo discorso ed è il 3: tre per cento è la quota dei libri tradotti negli Usa rispetto all’intera produzione di fiction interna. Per fare un rapido confronto: in Italia la percentuale si aggira intorno al 50. Il 2018, che è anche l’anno di pubblicazione della traduzione in inglese de L’amica geniale, viene considerato un anno di svolta per la traduzioni in America, ma è una svolta legata più alla ricezione che alla produzione. In altre parole, come dimostra la classifica del New York Times, i libri tradotti sono diventati più rilevanti di prima, anche se le traduzioni non sono aumentate consistentemente. 

L’aumento di rilevanza in America della narrativa straniera sembra essere andato di pari passo con la perdita di rilevanza della narrativa americana, almeno in Italia, Paese in cui come lettori, soprattutto come lettori forti, siamo stati appassionatamente filoamericani dal Dopoguerra in poi, anzi dal 1941, anno in cui veniva piantato il seme, cioè la famosa antologia curata da Vittorini, Americana, che raccoglieva testi di Steinbeck, Hemingway, Hawthorne, London. Da quel momento, ogni generazione di lettori (e anche di scrittori) ha avuto i suoi miti e le sue correnti predilette. La Lost Generation di Hemingway Fitzgerald, Dos Passos; i Beat di Kerouac, Burroughs, Ginsberg; i minimalisti di Carver e Paley; i postmoderni di Pynchon, De Lillo, Barth; il Literary Brat Pack di Ellis, Tartt, McInerney; quelli infine che in Italia furono ribattezzati (da minimum fax) Burned Children of America, ma che sono anche stati incasellati nell’avant pop o realismo isterico, ovvero la generazione dei David Foster Wallace, Dave Eggers, George Saunders. Più una quantità incalcolabile di scrittori non riconducibili a correnti generazionali, ma ben presenti in questa walk of fame, come Philip Roth, John Cheever, Joan Didion o Joyce Carol Oates, tanto per citare quattro tra i tanti grandi che si potrebbero citare. 

Da lettore e da scrittore li ho attraversati tutti o quasi. Mi sono innamorato dei libri grazie a Hemingway, sono stato e sono ancora un ellisiano di ferro, ho incontrato per la prima volta la literary non-fiction grazie a Joan Didion, ho letto tutti i libri di Pynchon e di De Lillo e accolto con eccitazione l’ondata di scrittori, David Foster Wallace in primis, che furono lanciati in Italia da quella famosa antologia di minimum fax. E non credo che la mia sia un’esperienza così soggettiva. Pochissimi lettori e ancora meno scrittori, tra quelli che conosco, non hanno avuto un percorso simile con la letteratura americana.

Tra la fine degli anni Zero e l’inizio degli anni Dieci, però, c’è stato un momento in cui tutta questa energia – la capacità di raccontare l’America come emblema del mondo tutto, ma soprattutto il bisogno di sperimentare e di trovare sempre nuove forme di scrittura – è sembrata essersi esaurita. Buoni libri sono continuati a uscire naturalmente, così come scrittori che sono apparsi almeno per un momento la “novità” che bisognava assolutamente leggere (Lerner prima, Moshfegh poi, per esempio), ma è come se la letteratura americana avesse smesso di essere la lingua ufficiale della narrativa ed è come se avesse perso hype.

Il grande critico Harold Bloom aveva profetizzato la fine del romanzo americano, attribuendone la causa alla “scuola del risentimento”, qualcosa che oggi sarebbe rubricato sotto l’abusatissimo termine woke, e quindi a questioni di quote e di identità, una tendenza che sicuramente potrebbe avere qualche responsabilità in questo declino. Ma c’è una causa più profonda che riguarda la fine della vocazione imperiale americana. Come qualsiasi impero nella storia, quello americano è stato responsabile di alcune nefandezze politiche, ma è stato anche la culla del meglio della produzione culturale del suo tempo che a quelle nefandezze ha fatto da controcanto. Il declino di questo “impero culturale” è evidente e anche la letteratura potrebbe essere una delle chiavi per parlare delle elezioni di novembre.

Il nuovo numero si chiama “C’era una volta l’America”: compralo in edicola oppure sul nostro store, cliccando direttamente qui!

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