Cultura

Tutti dicono “letteralmente”

Ma quasi nessuno sembra aver capito cosa significhi.

di Andrea Beltrama

E’ stato descritto come un paradosso, un cortocircuito logico, o addirittura un segno di decadimento culturale. La presenza di letteralmente in frasi come “sono letteralmente uno straccio” tende ad attirare la nostra attenzione, e non da oggi. Il motivo? Usare questo avverbio è bizzarro, se non improprio, quando quello che stiamo dicendo non va appunto inteso in senso letterale. Eppure, quello che a prima vista sembra un bersaglio come tanti delle nostre lamentele linguistiche si rivela invece un’espressione sorprendentemente complessa. Sia per la vasta gamma di reazioni che è in grado di suscitare – fastidio ed esasperazione, ma pure stupore e interesse, a seconda dei punti di vista. Sia per la straordinaria diffusione del suo uso. Spingendoci a chiederci come mai un’abitudine linguistica spesso liquidata come un errore continui a essere al centro dei nostri pensieri e delle nostre conversazioni.

Il primo aspetto intrigante della questione è che sia quest’uso dell’avverbio che i suoi effetti destabilizzanti non sono una prerogativa dell’Italiano. Esistono infatti in maniera praticamente parallela, e ancora più prominente, nel mondo anglosassone. Famosissimo, ad esempio, lo sfogo di Jane Fonda nella serie televisiva The Newsroom. Una scena in cui la proprietaria del network ACN Leona Lansing, durante una trattativa piuttosto tesa, prima informa i suoi interlocutori che il dizionario Webster ha ufficialmente aggiunto l’uso incriminato alla definizione di literally, e poi minaccia pacatamente di «mandare letteralmente a fuoco l’edificio», senza che questi possano sapere con certezza se intenda effettivamente carbonizzarli. Altrettanto noto è il poster dedicato all’espressione sul fumetto The Oatmeal, diventato un’icona dell’umorismo nerd nelle università americane. Così come la presenza fissa di literally tra le Colemanballs: una categoria che include le frasi bizzarre dette dai telecronisti sportivi britannici, in onore al giornalista della Bbc David Coleman. Tra cui troviamo uscite come «Quando era giovane Michael Owen era letteralmente un levriero», oltre a innumerevoli altri esempi.

Il secondo aspetto curioso è che, almeno in Italia, non siamo particolarmente d’accordo sul perché letteralmente ci dia così fastidio. In particolare, si è recentemente fatta strada l’idea che questo uso dell’avverbio tradisca un atto di scimmiottamento dell’inglese. Da combattere dunque non tanto per il cortocircuito logico che innesca, ma perché trasmette sciatteria, approssimazione, e una goffa propensione a darsi un tono – i peccati capitali contro cui si battono i detrattori degli anglicismi. Si tratta però una posizione non del tutto convincente. Certo, è possibile che in tempi recenti ci sia stata una crescita nella diffusione dell’avverbio ispirata da una certa esterofilia. Resta però il fatto che questo uso di letteralmente è attestato da (almeno) 150 anni, come testimonia un passaggio di un’edizione de La Civiltà Cattolica del 1876, dove si parla di un «opuscolo letteralmente divorato dal pubblico nonostante l’indignazione della stampa liberale». E non è recente nemmeno in inglese, come mostrano vari esempi pescati dalla letteratura dei secoli precedenti. Che contraddicono prontamente il catastrofismo nostalgico di chi vede questa espressione come un segno di declino della lingua contemporanea rispetto ai (presunti) bei tempi andati.

C’è infine un terzo grattacapo. In genere, le espressioni linguistiche che generano orticaria sono tipicamente associabili a tipologie di persone molto precise: il buongiornissimo Kaffè ci fa venire subito in mente adulti fortemente indignati e non particolarmente sofisticati nell’uso dei social media; e la resilienza, tra molte altre cose, evoca un serioso tatuaggio di auto-motivazione sul corpo di un palestrato. Letteralmente, al contrario, si rivela una parola demograficamente trasversale. Usata in una gamma di situazioni così ampia che rende difficile associarla a un profilo preciso: dai meme di ultima generazione alla cronaca sportiva, dalla letteratura ai contesti più istituzionali. Come quello in cui il Principe Carlo ci invita caldamente a prendere coscienza dell’emergenza climatica, ricordandoci che il «il mondo è letteralmente a un passo dal collasso». Forse anche per questo motivo, lo stigma associato all’avverbio si è sempre mantenuto su livelli astratti, senza incarnarsi negli stereotipi in carne ed ossa – il buongiornissimo kaffè appunto, ma pure i congiuntivi di Fantozzi – che hanno permesso ad altre allergie linguistiche di penetrare più a fondo nel nostro immaginario culturale. E così, mente un congiuntivo fuori posto ci fa sempre, inevitabilmente drizzare le antenne, molti di noi rimangono indifferenti a chi si dichiara “letteralmente uno straccio”. Anzi, alcuni trovano l’espressione addirittura simpatica, o comunque curiosa.

Al netto della percezione sociale della parola, rimane aperta la questione di fondo che appassiona linguisti e filosofi: come si concilia il conflitto logico tra il significato dell’avverbio e il senso non letterale del resto della frase? La possibilità più accreditata, delineata dal Michael Israel in un articolo che è diventato un classico in materia, è che in realtà il paradosso sia tale solo in apparenza. L’opposizione chiave alla base di letteralmente non sarebbe infatti tra un uso figurato e letterale dell’espressione che segue, ma tra un uso approssimativo, pigro, “tanto per dire”, e un uso invece preciso, perfettamente adeguato alle circostanze – per esempio, tra il definirsi “uno straccio” dopo aver camminato pochi chilometri e avvertire un fastidio muscolare, o dopo aver corso una maratona e non riuscire effettivamente ad alzarsi da terra. Secondo questa teoria, usare letteralmente non contribuisce dunque a creare esagerazione, ma serve invece a escluderla, segnalando a chi ci ascolta che le nostre certe parole devono essere interpretate nel pieno della loro forza espressiva.

Questa spiegazione ci permette di capire la sottile, eppure cruciale differenza tra letteralmente e avverbi meno controversi come assolutamente o davvero. Il primo suggerisce rigore, assenza di distinguo o eccezioni; funziona dunque perfettamente per enfatizzare obblighi o consigli, ma non ha la sfumatura da “vero senso della parola” che letteralmente riesce a trasmettere. Il secondo ha invece un effetto di enfasi generica, che ben si sposa con aggettivi con cui letteralmente si accoppia invece male. Basi pensare al contrasto tra dire che una persona è “davvero alta” – descrizione un po’ ingessata ma perfettamente naturale – e “letteralmente alta” – viceversa inascoltabile. In poche parole, quello che spesso viene dipinto come un tic verbale vuoto, senza contenuto, è in realtà una parola altamente specializzata, che si è ritagliata una nicchia precisa nella grammatica, e non accenna dunque a volersene andare. Facile prevedere allora che, almeno nel futuro prossimo, questa espressione continuerà a far contenti tutti. Chi la usa, che potrà comunicare sfumature di significato difficili da esprimere altrimenti; e chi la critica, che continuerà ad avere una battaglia da combattere, e un motivo sempre gradito per lamentarsi.