Cultura | Letteratura

László Krasznahorkai, maestro dell’Apocalisse

Intervista allo scrittore ungherese sul suo nuovo libro Seiobo è discesa quaggiù: arte e sacro, reale e virtuale, Cina e Giappone, gli igloo di Merz e i randagi di Varanasi.

di Marco De Laurentis

Foto di Stuart C. Wilson/Getty Images

I libri di Krasznahorkai non hanno né un inizio né una fine certi, ma spesso si muovono lungo un labirinto inestricabile, come serpenti che si attorcigliano su se stessi. Con la sua imponente quadrilogia ungherese (Satantango, Melancolia della resistenza, Il ritorno del barone Wenckheim e Guerra e Guerra), ci ha immersi nel suo pessimismo cosmico e fatto esplorare mondi apocalittici senza tempo, popolati da ignavi e falsi profeti: non a caso, Susan Sontag lo ha definito «il maestro ungherese dell’Apocalisse». L’affermazione nel gotha della letteratura mondiale è arrivata con il Man Booker Prize nel 2015, e da allora è stato più volte accreditato dalla stampa internazionale come possibile candidato al Nobel per la letteratura. Ma c’è una parte del percorso da scrittore di Krasznahorkai che non è stata ancora esplorata, e che ci permette di introdurre il suo ultimo libro uscito in Italia, Seiobo è discesa quaggiù (Bompiani, traduzione di Dóra Várnai), ovvero quella relativa al suo periodo “asiatico”. Durante gli anni ’90, infatti, Krasznahorkai ha compiuto viaggi in Mongolia, Cina e Giappone, scrivendo altrettanti libri. La summa di questo percorso è espressa  in questo romanzo-raccolta di 17 storie, delle vere e proprie interrogazioni filosofiche che riguardano l’arte a contatto con il sacro.

Vorrei partire dalla figura dell’artista italiano Mario Merz. In una sua vecchia intervista ha dedicato Seiobo è discesa quaggiù a lui, e il suo nome compare anche in un altro suo libro, Guerra e guerra. E la prima cosa che possiamo notare in Seiobo è discesa quaggiù è che le sezioni sono numerate dalla sequenza di Fibonacci. È un tributo? Qual era il suo rapporto con lui?
Da sempre l’arte di Merz ha avuto una forte influenza su di me. Per molto tempo ho interpretato i suoi igloo sulla base dell’idea che dovevano esser stati concepiti da una persona un po’ squilibrata, una persona alla ricerca di una propria casa e ossessionata dalla sequenza di Fibonacci, nel tentativo di individuare, attraverso calcoli numerici e altri metodi simili, la strada per raggiungere tale casa. Mi ha colpito molto la visione spaziale di Merz, la cui essenza consisteva nel costruire gli igloo solo dove mancavano. La mia considerazione era: ecco finalmente nel mondo dell’arte un uomo semplice, tormentato da una domanda altrettanto semplice, interessato solo a capire come diavolo riuscirà a tornare a casa… Più tardi, quando ebbi l’occasione di leggere alcuni dei suoi scritti, capii che le cose potevano essere un po’ più complicate di come mi erano apparse. Allo stesso tempo, però, pur rispettando questa intrinseca complessità, la mia opinione non cambiò del tutto. Seiobo è discesa quaggiù è a tutti gli effetti un omaggio a Mario, ma il sistema di pre-scrivere la struttura del libro non viene dalla sua ossessione per Fibonacci, bensì dalla mia, perché anch’io ne ho una. E sempre a proposito di Mario: anche se ho avuto occasione di incontrarlo di persona solo una volta, in compenso in quella occasione abbiamo passato insieme diversi giorni di fila. Urs Rausmüller, l’artista e direttore del museo svizzero che compare alla fine di Guerra e guerra, l’Hallen für Neue Kunst, insieme a sua moglie e al mio editore di allora, Egon Ammann, aveva organizzato un viaggio per Mario nella piccola città ungherese dove la storia di quel romanzo ha inizio, e così i personaggi reali dell’ultimo capitolo del libro si sono riuniti e sono venuti in Ungheria, viaggiando fino a questa piccola città in modo che Merz potesse individuare il posto adatto alla costruzione di un igloo per lo sfortunato protagonista del libro. Ma lui, Merz, è morto prima di poter realizzare il lavoro, lasciando ai posteri solo i progetti – dei progetti meravigliosi! In un modo o nell’altro, sembra che tutti muoiano prima di aver portato a termine il proprio compito. Perché in realtà non abbiamo idea di quale sia il nostro compito qui. E non lo sappiamo perché l’abbiamo già portato a termine, sebbene non ne siamo consapevoli.

Seiobo è discesa quaggiù è stato pubblicato per la prima volta nel 2008, dopo Destruction and Sorrow Beneath the Heavens (2004) e From the North a Mountain, from the South a Lake, from the West Some Roads, from the East a River (2003), che sono ambientati in Asia. Negli anni ’90 ha viaggiato molto in Asia orientale, Mongolia, Cina e Giappone in particolare. Che impatto ha avuto su di lei la cultura asiatica? La sua prospettiva come scrittore è cambiata? E se sì, come?
Andare in Asia non faceva parte dei miei desideri, di sicuro non quando sotto il regime comunista guardavo fuori dalla finestra della mia cameretta e mi chiedevo dove sarò quando sarò cresciuto. Solo per puro caso sono finito in quell’angolino della Terra, che forse proprio per questo mi ha lasciato un’impressione così profonda. Perché è esattamente così che è andata. Fino ad allora avevo pensato che esistesse un solo mondo. Lì, in Cina e in Giappone, ho dovuto capire che no, non è così, c’è un mondo, che è quello da cui sono arrivato, e poi ce n’è un altro, questo qui, in Cina e in Giappone. La comprensione che diversi mondi esistano nello stesso tempo è stata assolutamente esaltante. Mi ha cambiato di sicuro, certo! Non sono convinto, però, che abbia cambiato anche la mia visione letteraria o la mia prospettiva come scrittore. Si scrive sempre di: oh-oh, e adesso dove sono, dove sono capitato, mi sono perso, e ora da che parte vado, dove devo andare?! Naturalmente, non è per forza necessario andare in luoghi così lontani per poterlo fare. Oh, l’Asia! Forse non ci sarebbe stato bisogno nemmeno di mettere il piede fuori dalla porta di casa dei miei genitori, forse mi sarebbe bastato essere un po’ più paziente, aspettare con calma, in silenzio, e a un certo punto tutto a un tratto mi sarei reso comunque conto di essermi perso. Del fatto che quella non era più casa mia. E a quel punto mi potevo porre la stessa domanda: ok, ma allora come ci torno, a casa? Visto che sono a casa. E questo è quanto riguarda l’Asia.

Come è nata l’idea del libro? Quando ha scritto Seiobo è discesa quaggiù aveva già in mente questa struttura precisa? E dalla sua prospettiva, lo considera un romanzo o una raccolta di racconti collegati tra loro?
Mi interessa tutto. Anche i minimi dettagli all’apparenza più assurdi. Soprattutto questi cosiddetti minimi dettagli. Vedo una quercia enorme, le altre persone continuano ad andare e venire sotto di essa per anni, forse decenni, magari secoli. Io invece per qualche ragione mi ci devo avvicinare, non so perché, mi attrae, mi affascina, comincio a occuparmene. Cosa c’è sopra, cosa c’è sotto, di cosa è fatta, come funziona, perché è liscia o perché è così ruvida nei punti in cui è ruvida. O un quadro, un Goya, un Palma il Vecchio, un Perugino, un Leonardo o un Michelangelo, o anche solo un dettaglio di un quadro, uno sguardo, il modo in cui Maria guarda il bambino, o la donna dal seno scoperto di Palma il Vecchio guarda qualcosa, dove guardano, che cosa guardano, perché stanno guardando quella cosa in quel modo, e chissà se questo eterno guardare avrà mai una fine, cose del genere. Di questo passo, nel corso di una vita, si possono accumulare nella mente un sacco di conoscenze, e a un certo punto mi sono reso conto che è quello che è successo anche a me, e quando sono stato invitato a Berlino e ho iniziato a insegnare alla Freie Universitaet, ho dovuto capire anche quanto sia interessante tutto questo, tutte queste cose che so, e che queste cose che so forse potrebbero essere importanti anche per gli altri, e quindi non dovrei permettere che svaniscano insieme a me. E siccome non riuscivo a esternare tutto parlando, nemmeno più tardi, quando insegnavo alla Columbia, ho deciso di scriverci un libro, su tutte queste nozioni che possiedo. Quando ho finito il primo racconto su un uccello che caccia immobile, da quel racconto è nato il successivo, e questo, per quanto possa sembrare sorprendente, mi ha sorpreso. Il fatto che dal primo derivi il successivo. Ho iniziato a occuparmi della questione delle relazioni causali nell’ordine del mondo, perché non credo nella causalità. E invece mi ha profondamente scioccato scoprire che, relativamente ad aree ridotte, un rapporto causale esiste eccome. E così al terzo racconto di Seiobo ero ormai molto all’erta e non avevo più alcun dubbio riguardo a ciò che stavo facendo, ossia che avevo inconsciamente usato le relazioni Fibonacci. In definitiva, a proposito di Seiobo è discesa quaggiù, posso dire che questo libro è come quella quercia. Un insieme. Non è una raccolta di racconti. Non è un romanzo. Bensì, di nuovo e molto semplicemente: un insieme.

«O è notte, o non abbiamo bisogno di luce». Nell’epigrafe del libro, menziona questa frase dal libro Thelonious Monk di Thomas Pynchon. Sente un’affinità con quest’ultimo?
Pynchon è per me il più grande scrittore vivente. Mi ha autorizzato a parlare di lui, se proprio devo. Ma non posso dire molto altro, se non che siamo amici. Lo amo molto. Lo rispetto molto. E sono molto in ansia per lui.

ⓢ Tutti i personaggi di Seiobo è discesa quaggiù vivono in un isolamento quasi completo. Nel libro non troviamo dialoghi, ma monologhi. Secondo lei, questo rapporto tra arte e bellezza può essere generato solo a livello personale?
Stando da sola una persona è in grado di osservare con più attenzione. L’isolamento completo poi sarebbe la condizione ideale! La bellezza non si vede da lontano, ma avvicinarsi a essa è possibile soltanto attraverso un’intensa attenzione e osservazione. Condizioni impossibili da ottenere se si ha uno smartphone in mano e ci si trova in mezzo a un folto gruppo di turisti-zombi. D’altra parte, questa vicinanza è necessaria solamente per coloro che hanno libero accesso alla bellezza o per coloro che della bellezza sono fanatici. Gli eroi di alcuni dei capitoli di Seiobo è discesa quaggiù sono dei geni leggiadri o dei geni fanatici. Invece, il nostro tipo di rapporto, di noi lettori di Seiobo è discesa quaggiù, è illustrato meglio dalla figura del restauratore, che pure appare più volte nell’opera: un uomo pratico, il cui scopo è trovare – nel pieno rispetto dell’opera d’arte – la soluzione perfetta affinché la fragilità della bellezza nascosta nell’opera non sia così evidente. Ma torniamo alla sua domanda! Nel caso della bellezza c’è solo il livello personale.

A proposito di questo, nel libro descrive l’importanza del processo della technê greca, legato al tema della tradizione, della ripetizione e della trascendenza. Perché questi rituali sono così importanti? E, nel creare queste opere d’arte, c’è un’opposizione al mondo virtuale di oggi?
C’è una lunga tradizione di tentativi di denominare ancora e ancora ciò che è immortale. E la ripetizione è il metodo più affidabile per farlo. La ripetizione non è solo la madre della conoscenza, è anche la strada per entrare in contatto con l’immortale. Una definizione concettuale dell’immortale è quasi impossibile: se cerchiamo di usare delle parole per farlo, scopriremo che le parole si bloccano, muoiono, in un modo o l’altro non funzionano più. Abbiamo l’impressione che l’immortale esista, e spesso con questo termine intendiamo il perfetto (che non vuol dire senza difetti, non è la stessa cosa!). Potremmo anche dire che esiste qualcosa di inalterabile. Potremmo anche dire che esiste qualcosa di inviolabile. Potremmo anche dire che esiste l’eterno. Solo che non esiste niente del genere. Così, quando si tratta di questi stati ideali, è soltanto la nostra relazione con questa non-esistenza a essere reale. Per quanto riguarda la domanda specifica, mi lasci dire che anch’io lavoro con un mondo virtuale, poiché del mondo non abbiamo mai saputo nulla, il “mondo” è sempre stato virtuale. E lo sarà sempre. Non sapremo mai nulla di più del “mondo” se non il niente. Perché il mondo non esiste.

Sebbene ci siano differenze tra la cultura occidentale e quella orientale, nei suoi racconti sembra esserci una critica al mondo globalizzato e secolarizzato dei giorni nostri. E’ d’accordo con questo?
Questa critica è del tutto giustificata. Solo che i suoi argomenti sono inutili, la sua direzione è sbagliata, il suo contenuto fuorviante. Quando osservo un misero cane randagio, quasi senza pelo, magro, affamato e orfano, che vaga per le strade di Varanasi, in India, il mio sguardo è umano. La commozione che mi assale alla vista di quel povero animale non viene a cogliermi né in un mondo percepito come globale né in un mondo secolare. C’è solo lui e ci sono solo io in un dato momento. Ed entrambi ci accasceremo sotto il peso di quel momento. Che cosa c’entra questo con il fatto che il mondo è globalizzato e in parte secolarizzato?

La sua scrittura in Seiobo è quasi enciclopedica, con un livello di dettaglio incredibile. Ma allo stesso tempo, tra i temi principali del libro troviamo l’incertezza dell’autore, la difficoltà di interpretazione e il problema dell’autenticazione, tutti legati all’arte. Questa ambiguità è voluta?
L’incertezza, le difficoltà, i problemi derivano dal fatto che possiamo parlare solo dei dettagli, nessuna dichiarazione di valore assoluto può essere fatta riguardo alla bellezza evocata dalle opere d’arte in Seiobo è discesa quaggiù nella sua completezza. Solo l’atteggiamento critico con cui ci si pone nei confronti della bellezza può essere definito in modo certo. L’arroganza, il compiacimento della propria superiorità, e soprattutto quel tono intransigente che caratterizza tanto spesso gli specialisti della critica d’arte, ci allontanano dalla posizione per cui solo la modestia, l’umiltà davanti all’opera d’arte, l’umiltà di fronte alla bellezza, sono gli unici atteggiamenti accettabili. Il silenzio. Davanti alla Nike di Samotracia si deve rimanere in silenzio.

Tra il primo e l’ultimo capitolo di Seiobo si crea una sorta di arco di entropia e decadenza. Nel primo capitolo, Il cacciatore del Kamo, si affronta la questione del sacro in un mondo che non ne ha più bisogno. Nel capitolo finale invece, c’è una sorta di meditazione sull’oblio e la scomparsa della cultura. Crede che non ci sia alternativa per uscire da questa spirale? L’arte può avere un ruolo redentore?
Sì, penso che nemmeno questa volta il nostro mondo senta la necessità di qualcosa di superiore. Ed è sempre stato così. Difatti, in ogni epoca c’è stato qualche cronista che, avendo una chiara percezione della cosa, l’ha resa manifesta. Ma naturalmente non c’è alcuna via d’uscita. Se ci fosse, se ci fosse stata, staremmo ancora battendo il ritmo con le pietre nell’umido buio di qualche grotta per niente platonica seguendo la melodia del rumore della pioggia che sta scrosciando all’esterno…

Questa inaccessibilità della trascendenza porta spesso alla rassegnazione. Per quanto riguarda la sua estetica, viene spesso associato a due grandi scrittori europei, Thomas Bernhard e soprattutto W.G. Sebald, con cui ha stretto amicizia. Sul concetto di malinconia, infelicità e rassegnazione, si sente vicino a questi due autori?
Sì, li sento molto vicini, anche se non in senso estetico. Max Sebald era un’anima sensibile, e lo era anche Thomas Bernhard. E più in generale mi sento piuttosto vicino a tutti i perdenti di un mondo impostato per pochi sulla vittoria, per altri basato sul prezzo della mancata vittoria. Giusto qualche altra citazione che mi viene in mente così su due piedi: la musica universale di György Kurtág, costruita attribuendo contemporaneamente un peso enorme e una grande leggerezza a ogni singolo suono, le stupefacenti stanze di Gregor Schneider, la poesia viva di Ko Un, le lunghe estati noiose di Cesare Pavese mi sono così vicine che senza di esse mi sarebbe molto, molto più difficile vivere. E anche se mi rendono triste, questa tristezza è quasi una catartica felicità.

Nei suoi romanzi ungheresi (penso in particolare a Satantango e Melancolia della resistenza) ha descritto quei luoghi come abbandonati da Dio e popolati da falsi profeti. In questi romanzi vediamo anche un rapporto stretto tra fede e potere. Crede che la politica di questi tempi sia una sorta di religione praticata con altri mezzi?
L’uomo ha perso l’attrazione verso il trascendente, questo è indubitabile e si può ricondurre al fatto che in questo presente in cui viviamo niente è spaventoso e terrificante quanto la verità. Perciò non abbiamo bisogno di profeti, ma di falsi profeti. La verità fa paura. E noi quindi chiediamo e supplichiamo che ci venga raccontata piuttosto una qualche rassicurante menzogna. Che vengano coloro che almeno non ci tolgono la speranza. Non vogliamo prendere atto che non c’è più alcun motivo di speranza – la nostra situazione è completamente senza speranza. E questa situazione non si poteva evitare. Per cui tocchiamo con mano quello che diceva Giovenale: “[il popolo] due sole cose ansiosamente desidera: pane e giochi circensi.” Solo che adesso non abbiamo più nemmeno un Giovenale a ricordarcelo.

Si ringrazia Dóra Várnai per la traduzione in italiano delle risposte dell’autore.