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L’attore e regista Jesse Eisenberg ha detto che donerà un rene a un estraneo perché gli va e perché è giusto farlo Non c'è neanche da pensarci, ha detto, spiegando che a dicembre si sottoporrà all'intervento.
A Parigi c’è una mensa per aiutare gli studenti che hanno pochi soldi e pochi amici Si chiama La Cop1ne e propone esclusivamente cucina vegetariana, un menù costa 3 euro.
Il Premier australiano è stato accusato di antisemitismo per aver indossato una maglietta dei Joy Division Una deputata conservatrice l’ha attaccato sostenendo che l’iconica t-shirt con la copertina di Unknown Pleasures sia un simbolo antisemita.
Lo scorso ottobre è stato uno dei mesi con più flop al botteghino nella storia recente del cinema In particolare negli Stati Uniti: era dal 1997 che non si registrava un simile disastro.
La neo premio Nobel per la pace Maria Corina Machado ha detto che l’intervento militare è l’unico modo per mandare via Maduro La leader dell’opposizione venezuelana sembra così approvare l'iniziativa militare presa dall'amministrazione Trump.
Dopo il caso degli accoltellamenti sul treno, in Inghilterra vorrebbero installare nelle stazioni i metal detector come negli aeroporti Ma la ministra dei Trasporti Heidi Alexander ha già fatto sapere che la cosa renderà «un inferno» la vita dei passeggeri.
La Sagrada Família è diventata la chiesa più alta del mondo Il posizionamento di una parte della torre centrale sopra la navata ha portato l’altezza della chiesa a 162,91 metri superando i 161,53 della guglia della cattedrale di Ulm, in Germania
A giudicare dai nomi coinvolti, Hollywood punta molto sul film di Call of Duty Un veterano dei film bellici e lo showrunner del momento sono i due nomi chiamati a sdoganare definitivamente i videogiochi al cinema.

La moda low cost è finita da Lidl?

Una decina di anni fa le etichette fast fashion hanno modificato il dna del nostro guardaroba. Oggi qualcosa sta cambiando: i colossi alzano i prezzi e il low cost diventa strumento per rinverdire i conti dei brand di fascia alta.

11 Luglio 2014

C’era una volta la signora Stefania – detta Stefi, alla brianzola – titolare di un negozio “in centro ma non proprio in centro”, bionda, magra e sorridente, anche molto chic. Io e mia madre le facevamo visita due o tre volte l’anno: si compravano un paio di maglioni e il cappotto (o il piumino) d’inverno, le magliette e i vestiti senza maniche d’estate. Si andava in tre – io, mia madre e mio fratello perché il suo negozio vendeva capi da donna e da bambino/a – e si usciva con tre buste grandi e un po’ di sconto, salutandosi in attesa della prossima occasione o, più probabilmente della prossima stagione. Negli anni Duemila i vestiti a casa mia si compravano così: “di marca” ma mai davvero alla moda, di qualità, destinati a durare. E così è andata fino all’avvento del low cost: quello di Zara – H&M – Mango e tanti altri nomi.

Nomi che oggi troneggiano nel “centro-centro” delle più grandi città del mondo, con negozi a svariati piani e dalla posizione invidiabile. Con migliaia di persone che ogni giorno entrano ed escono, e comprano qualcosa che potrebbe non durare a lungo, ma, di fatto, è pensato e creato in fretta per essere consumato in fretta. Siamo nell’era del fast fashion e non è un mistero per nessuno.

Il potere d’acquisto è diminuito – specialmente quando si parla di Italia: secondo il Fashion Consumer Panel di Sita Ricerca nei primi 4 mesi del 2014 la spesa degli italiani in scarpe (escluse le sneaker) è calata del 5,4% rispetto all’anno precedente – e la crisi ha condizionato l’atteggiamento dei consumatori. Che, impauriti dalla prospettiva (che in molti casi è stata o è una realtà) di perdere il lavoro o, comunque, avere meno soldi in cassa, hanno preferito astenersi dallo shopping. In questa trasformazione economica e sociale si è inserito il mondo del fast fashion che un po’ ha cavalcato le conseguenze della crisi (posso spendere poco= compro qualcosa dal prezzo basso), un po’ ha rieducato i consumatori. Non tutti, certo: i top spender – quelli che sborsano decine di migliaia di euro l’anno in abbigliamento e accessori: la maggior parte non sono italiani – sono rimasti tali. Anzi: pensano al fast fashion come a un divertimento complementare. La maglia da 49,99 indossata con la borsa da 5mila: un modo come un altro per far capire che chi comanda (in termini di potere d’acquisto) può fare ciò che vuole.

La middle class, invece, che dalla crisi (che non è finita: l’ha detto anche Matteo Renzi alla conferenza stampa di apertura di Pitti, fiera di moda maschile che si tiene a Firenze due volte l’anno e rappresenta un importante vetrina per la moda italiana) è uscita in ginocchio, ha virato verso il basso e scelto di spendere meno anche se, in molti casi, significa spendere peggio. Un atteggiamento che ha assottigliato i fatturati delle aziende di fascia media: brand che, per sopravvivere, hanno dovuto studiare un nuovo posizionamento, alzando i prezzi e la qualità o abbassandoli. E non sempre con risultati positivi: molti di questi brand, infatti, sono scomparsi.

L’onda d’urto del fast fashion ha mutato in modo definitivo le tempistiche di produzione e commercializzazione delle collezioni: oggi dall’idea al prodotto in negozio passano solo un paio di settimane, al massimo un mese, quando si parla di prodotti low cost, e le case di moda si sono adeguate a questi ritmi nuovi e più contemporanei frammentando le care vecchie collezioni stagionali in pre-collezioni e capsule collection (sono mini collezioni, spesso in edizione limitata che invogliano il cliente ad acquistare qualcosa al di là della necessità in virtù del fatto che sono un evento spot). E, soprattutto, ha colpito i canali tradizionali di distribuzione dei prodotti moda: i multimarca, per esempio, che un tempo erano ben forniti di prodotti a prezzo medio e, per le ragioni già evidenziate, hanno visto scomparire questa fascia di prodotti o hanno cominciato a vederli rimanere sugli scaffali. Perché comprare un paio di pantaloni da 100 euro che sono fatti in Cina, molto probabilmente, se ne posso spendere 39,90 da Zara, del resto? Lo sa bene la signora Stefania di cui sopra che ha chiuso il suo negozio almeno un paio di anni fa.

Dopo aver impresso una svolta decisa al settore moda “come lo intendevamo una volta” il fast fashion ha cominciato a prendere le misure del mercato. Lo hanno fatto i giganti come Inditex e H&M, in primis. Che oggi devono fare i conti con tassi di crescita ben lontani da quelli degli inizi. Inditex, colosso iberico cui fanno capo i marchi Zara, Massimo Dutti, Stradivarius e Pull&Bear tra gli altri, ha chiuso il 2013 con un fatturato è cresciuto del 5% a 16,72 miliardi di euro e gli utili dell’1% toccando i 2,38 miliardi: risultati mediocri se comparati con quelli dei cinque anni precedenti. Nel 2012, tanto per fare un esempio, le vendite del gruppo erano cresciute del 16% mentre l’utile netto aveva segnato un promettente +22%. Il gruppo di Ortega – che è l’uomo più ricco d’Europa – ha risposto alla crescita blanda con un programma serrato di investimenti retail: ad oggi conta oltre 6300 punti vendita, ma l’obiettivo è quello di incanalare nello sviluppo retail altri 1,35 miliardi. Per quanto riguarda Zara, Inditex pare aver stretto il focus su un mix tra qualità e stile dei prodotti, entrambi maggiori rispetto al passato. Anche i prezzi sono cresciuti rispetto al passato: di fatto Zara è ormai un marchio established e la sua clientela di riferimento non acquista più un capo solo perché costa poco.

Anche il gruppo svedese Hennes & Mauritz negli ultimi due anni ha cambiato strategia: da entità focalizzata su un unico brand, H&M appunto, sta diventando un gruppo multimarca con la creazione di Cos e & Other Stories, marchi più sofisticati sul piano del design e della varietà di proposte (&Other Stories, per esempio, deve gran parte delle sue vendite agli accessori e vanta una linea beauty di alta qualità a prezzi medio-bassi). I risultati non sono tardati ad arrivare: se il gruppo ha archiviato il 2013 con un fatturato di 150 milioni di corone svedesi (circa 17 miliardi di euro; +9% sull’anno finanziario precedente) e con un utile netto di 17,2 miliardi di corone (1,9 miliardi di euro), i primi sei mesi del 2014 sono andati bene: il fatturato si è attestato sui 7,7 miliardi di euro (69,97 miliardi di corone svedesi) con un incremento in corone del 17%. La strategia, dunque, si sta rivelando decisiva: oltre agli investimenti retail (uno strumento ad alta redditività) Il gruppo ha annunciato il lancio in autunno di una nuova gamma, più ampia, di calzature. Le scarpe a marchio &Other Stories hanno un prezzo che varia dai 65 ai 120 euro (controllabile comodamente sul sito, già attivo sul mercato italiano: prezzi lontani da quelli di H&M, decisamente più alti.

Cosa rimane del vecchio caro low cost? Qualche collaborazione spot che lo identifica ancora come veicolo di “democratizzazione” di firme che fino ad oggi sono state per pochi. Un modello di business ampiamente sperimentato proprio in casa H&M con le collezioni – andate letteralmente a ruba – disegnate da Karl Lagerfeld, Versace, Marni e molti altri. La prossima sarà quella di Alexander Wang, designer americano di origini cinesi che, direttore della maison Balenciaga da un anno o poco più, non smettere di promuovere il proprio brand. E lo fa anche attraverso una capsule collection low cost, rigorosamente in serie limitata. Da ultimo, Custo Barcelona che ha creato una capsule di abbigliamento per Lidl Spagna: 22 pezzi per dare vita ad una collezione “Growing by Custo” che lo stesso designer, Custo Dalmau, ha definito «moda fácil». Secondo quanto comunicato dall’azienda, gli oltre 300mila prodotti sono andati esauriti in una sola settimana di vendita. La catena di supermercati, fondata in Germania negli anni Trenta e sbarcata in Italia nel 1992, non ha escluso di poter replicare l’esperimento.
Intanto, anche in Italia, Lidl cambia pelle: raffina i propri spot pubblicitari (di cui in passato si sono sprecate le parodie) che promettono uno stile cool a prezzi bassi: top a 4,99, pantaloni a 7,99 e sandali a 9,99. Che sia arrivato il tempo di un nuovo low cost (ancora più low)?

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