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Come ho scoperto che i kit per il test del Dna sono un pessimo regalo
Un viaggio negli aspetti inquietanti (e anche comici) che stanno dietro alla recente popolarità della genealogia amatoriale e alla fissazione con la propria ascendenza.

Ho desiderato fare un test delle origini da quando, otto anni fa, avevo visto su Facebook un commovente spot di Momondo. Nel video, persone diversissime tra loro scoprono di avere origini e parentele inaspettate dopo aver fatto il test, superando così i propri pregiudizi e supposizioni razziali. L’emozionante finale ci invita ad avere una “mentalità aperta”, ricordandoci che la diversità è un valore e che i confini non significano niente – chiaramente erano tempi molto diversi. Così tra compleanni e festività, ho pensato che questo fosse uno splendido, originale regalo. Ci sono molte ragioni per cui i kit per il test del Dna sono, in realtà, un pessimo regalo. Lo scorso natale ne ho regalati ben due, prima di scoprire alcuni aspetti inquietanti (e altri comici) che stanno dietro alla recente popolarità della genealogia amatoriale, e alla fissazione con la propria ascendenza.
I kit MyHeritage che ho comprato su Amazon alle mie amiche si presentano come una versione fancy dei tamponi molecolari che ben conosciamo: due lunghi cotton fioc da strofinarsi in bocca per raccogliere il profilo genetico, due fialette dal tappo arancione dove richiudere i campioni di saliva, la busta in cui rispedire il nostro DNA all’azienda che abbiamo pagato per analizzarlo. Nel sito, MyHeritage sostiene di aiutare milioni di persone a scoprire le proprie “origini etniche”, ma soprattutto a trovare “nuovi parenti”, nuovi “componenti della loro famiglia”. Un uso un po’ bizzarro del concetto di famiglia, che più che come insieme di legami relazionali sembra essere intesa solo da un punto di vista genetico. Come se considerare parente uno sconosciuto con qualche nucleotide in comune fosse una cosa normale o desiderabile. In effetti, pensandoci, è anche strana l’idea di pagare un’azienda privata for profit per indicizzare il nostro genoma – il più sensibile tra i nostri dati personali, il codice che identifica solo e soltanto noi nel mondo.
Non mi ero minimamente soffermata su questi aspetti, finché non ho scoperto dei legami tra le aziende di test genetici e i Santi degli Ultimi Giorni. La chiesa mormone, infatti, crede nelle famiglie eterne (le forever families): una famiglia è condannata – ops, destinata – a stare insieme per sempre, anche dopo la morte, non importa quanto lontano il grado di parentela. Pensavo fosse uno scherzo quando ne ho letto per la prima volta, ma una delle risorse fondamentali per il culto mormone sono i registri degli atti di morte e i database cimiteriali. Oltre che per le sue trad wives, la castità e la poligamia, la chiesa è infatti nota anche per eseguire un gran numero di battesimi post-mortem. Convertire ignari, sconosciuti defunti (magari da decenni, o da secoli) è una pratica che ha sempre suscitato indignazione, tanto da portare a porre qualche limite, come il veto (non rispettato) di battezzare le vittime dell’Olocausto, gli unici su cui non sarebbe consentito praticare il rito.
Le cerimonie sono tanto rapide che è possibile celebrarne molte in un giorno. Un adolescente imparentato col defunto – dove la parentela è intesa nello stesso modo weird con cui lo intende MyHeritage: basta un frammento di genoma – si immerge nell’acqua con abiti bianchi, e ne riemerge nelle vesti simboliche dell’antenato convertito. Partecipare è un passaggio importante per molti giovani mormoni, un’usanza che però richiede sempre nomi nuovi da battezzare. Per questo i database sono molto utili per la Chiesa, che tiene registri accurati e li alimenta minuziosamente, nello sforzo di mappare il mondo e ottenere i nomi di più persone possibili – magari accompagnati da un profilo genetico per facilitare l’individuazione di lontani, sconosciuti parenti da salvare. La piattaforma gestita dalla comunità mormone si chiama FamilySearch, ed è il più grande sito per la “ricerca genealogica” del mondo. Nel 2020 comprendeva 8 miliardi di nomi, 3.2 miliardi di immagini digitali e 500 mila documenti: l’ambizione sarebbe quella di realizzare un unico, grande albero genealogico di tutta l’umanità.
Di aziende come MyHeritage ce ne sono tante, e più o meno funzionano tutte allo stesso modo. La più grande, Ancestry, che è stata fondata da un imprenditore mormone negli anni ‘80 e ha sede nello Utah, vanta una collezione di 30 miliardi di documenti. Nel 2013 ha stretto un accordo con FamilySearch con lo scopo di “indicizzare oltre 1 miliardo di documenti provenienti da tutto il mondo”, una partnership che ha permesso alla Chiesa di espandere sensibilmente la propria capacità di conversioni.
Nello stesso anno, Ancestry ha incorporato Find a Grave, un sito dall’aria spooky nato per aiutare le gli appassionati di cimiteri a trovare le tombe di persone celebri (sì, anche questo è un hobby) che, nel tempo e grazie al contributo degli utenti, si era trasformato in un vero e proprio tesoretto di nomi e informazioni di sepolture, troppo succoso per lasciarselo scappare. Dalla prospettiva di una persona italiana – il cui unico contatto col mondo mormone sono i giovani incravattati che orbitano attorno al Tempio alla periferia di Roma (che incontro alla fermata del bus), e le Real Housewives di Salt Lake City – l’idea che il mio Dna possa finire in una banca dati che mi porterà ad essere potenzialmente convertita una volta defunta suona, francamente, comica. E anche alle amiche a cui avevo regalato i kit mi è sembrato importasse poco quando le ho messe in guardia dal mio stesso regalo. “Potresti subire un battesimo mormone a tua insaputa” non suona davvero spaventoso.
I battesimi mormoni sono la parte più divertente di una storia che, per altri aspetti, è invece piuttosto ansiogena. Perché in un’economia in cui i dati personali sono così preziosi, le informazioni genetiche sono il livello successivo, interessanti e appetibili non solo per i santi degli ultimi giorni. Nel 2018 23andMe – azienda di test genetici americana che possiede 15 milioni di profili – ha venduto le informazioni genetiche dei suoi utenti a una grande società farmaceutica senza che questi ne fossero limpidamente informati, in una mossa legale ma controversa che ha sollevato molte preoccupazioni sulla gestione della privacy da parte di questi servizi. Recentemente 23andMe ha subito un attacco hacker che ha esposto i dati di quasi 7 milioni di persone, tra cui nomi, date di nascita, relazioni di parentela, percentuale di Dna condivisa con altri utenti e rapporti di ascendenza.
Sembrerebbe che i database genetici abbiano anche fatto cose buone, e in parte è così. Ad esempio l’arresto del Golden State Killer – omicida seriale che terrorizzò la California negli anni ‘70 e ‘80 – identificato attraverso un sito di genealogia gratuito. La polizia aveva caricato su GEDmatch il Dna ricavato dalle scene del crimine, rintracciando così un parente del killer, uno vero stavolta. Quello che questo arresto mostra, però, è anche che i database genetici possono diventare potenti strumenti di sorveglianza e controllo, se resi facilmente accessibili ai governi e alle forze di polizia, ad esempio. In più non abbiamo idea di come (e da chi) potrebbero essere usati in futuro. Quindi se non siete certi di che fine faranno i vostri dati genetici, meglio non pagare per fornirli ad una mega azienda privata.