Cultura | Pop
Kanye West vuole rinascere
Il bipolarismo, gli psicofarmaci, l’isolamento: cosa c’è in ye, l’ultimo disco dell’artista passato dall'essere un genio alle critiche feroci per il sostegno a Trump.
American rapper Kanye West poses before Christian Dior 2015-2016 fall/winter ready-to-wear collection fashion show on March 6, 2015 in Paris. AFP PHOTO / PATRICK KOVARIK (Photo credit should read PATRICK KOVARIK/AFP/Getty Images)
Ci sono sempre stati due Kanye West, o almeno è quello che ci siamo detti per anni per spiegare il fatto che uno dei più grandi geni musicali della nostra epoca fosse anche “un cretino”, come lo definì una volta Barack Obama. Quando venerdì pomeriggio è comparsa per la prima volta la copertina di ye, il suo ultimo disco, è stato allo stesso tempo una liberazione e una bastonata. «Odio essere bipolare è fantastico», dice una scritta sopra le montagne del Grand Teton, il parco del Wyoming che da tempo è il ritiro spirituale di Kanye. Soprattutto nelle ultime settimane, fan e critici avevano cercato di resistere alle tentazioni di superficiali diagnosi psichiatriche a distanza, di fronte alle sconsiderate e sconclusionate tirate su Donald Trump, sulla schiavitù come scelta, sulla libertà di parola. Il suo coming out riguardo alla malattia mentale è stato quindi tutto meno che spiazzante, ma non per questo indolore.
«I pensieri più belli stanno sempre a fianco dei più bui / Oggi ho pensato seriamente di ucciderti / Ho pensato, omicidio premeditato / E ho pensato di uccidermi / E mi amo più di quanto amo te, quindi…». C’è tutta la conflittualità e la dualità di Kanye nelle prime parole del disco, che poi in un senso meno tragico riflettono ciò che da tempo vivono i suoi fan. Aveva già parlato dei suoi pensieri suicidi in “Power”, la hit più famosa del suo capolavoro My Beautiful Dark Twisted Fantasy, che come ye arrivava dopo un periodo di guerra coi media e di isolamento creativo: allora per l’incidente con Taylor Swift ai Vma del 2009 e alle Hawaii, qui per l’innamoramento per Trump e in Wyoming.
Quell’altra volta, mesi e mesi in studio avevano prodotto quello che secondo molti è il più grande disco hip hop del decennio. A questo giro, il risultato è innegabilmente più modesto fin dalle dimensioni: sette canzoni per 23 minuti totali, lui che ci ha abituati ad album che in realtà sono mastodontici trattati sulla contemporaneità musicale. Un Ep più che un vero disco, senza quegli squarci nel velo con i quali Kanye era solito indicare la direzione che avrebbero preso pop e hip hop, che sempre per merito di Kanye, ormai da qualche anno,sono spesso sovrapposti.
C’è una canzone, “Wouldn’t Leave”, che Kanye usa per ringraziare Kim Kardashian per non averlo lasciato nonostante tutti i suoi apparenti sforzi perché ciò succedesse. «Mia moglie mi chiama, urlando, dice “Perderemo tutto” / Ho dovuto calmarla perché non respirava». Il riferimento è alla nota intervista del sito scandalistico TMZ, quella dell’uscita sulla schiavitù come scelta per gli afroamericani, di fronte alla quale perfino un pirata delle controversie come il direttore Adam Levine era sembrato turbato. E quello non era nemmeno un suo “wild day”, spiega Kanye a un certo punto di ye.
Quel momento non è stato difficile soltanto per gli equilibri sentimentali e finanziari di casa Kardashian West, ma ha rappresentato il picco dell’abnegazione che da sempre Kanye richiede ai suoi fan. Per molti gli anni delle giustificazioni e delle acrobazie razionalizzatrici sono finiti lì, probabilmente con la complicità del mutato clima politico statunitense: a differenza di Kim, si sono chiamati fuori. Quelli che si rifiutano di rinnegarlo perlopiù si ritirano in una silenziosa incredulità. «Odio Kanye West è fantastico».
L’isolamento umano, politico e professionale di West non era più autoimposto, ma forzato. E si è rispecchiato alla perfezione nella sua scelta di lavorare a ye a Jackson Hole, una sperduta città in mezzo alle montagne e ai bisonti, in uno degli stati più bianchi d’America, dove gli afroamericani sono meno di cinquemila. In questo scenario surreale, in un ranch di lusso, giovedì sera Kanye ha fatto la festa di lancio di ye, invitando 150 tra rapper, attori, celebrità di vario tipo e giornalisti. Li ha fatti arrivare in aereo da ogni parte del globo, in una involontaria rappresentazione letterale della jet society musicale internazionale, per ascoltare il disco intorno a un falò, in un clima da festa di fine liceo. Una sorridente Candace Owens, il volto afroamericano dell’alt-right, come unico promemoria di quelle settimane in cui sembrava che lo strappo tra Kanye e il coté liberal statunitense fosse irreparabile.
«L’hip hop è stata la prima forma d’arte creata dagli afroamericani liberi. E nessun afroamericano ha sfruttato questa libertà come Kanye West», ha detto Chris Rock introducendo la serata, riassumendo efficacemente quella che è la chiave per interpretare la carriera di Kanye. La sua ricerca spregiudicata di occupare quella libertà ha prodotto alcuni dei dischi più rilevanti della nostra epoca, sostenuta dal suo genio musicale. Ma è quasi sempre deragliata goffamente quando ha provato a uscire dal campo della creatività, perché, semplicemente, sprovvista delle necessarie basi culturali, le stesse invece padroneggiate con eleganza dai suoi colleghi che vincono i Pulitzer.
«La gente dice “non dire questo, non dire quello” / Dillo forte, solo per vedere che effetto fa», dice il rivelatore testo di “I Thought About Killing You”. Ogni volta che Kanye ha provato a muoversi nella politica ha sempre proceduto a tentoni, fin da quando nel 2005 accusò in diretta nazionale George W. Bush di fregarsene dei neri. Quella volta imbroccò la porta che i suoi fan aspettavano da tempo varcasse. Ma era una strategia destinata a schiantarsi, e Kanye lo ha fatto indossando un cappellino con scritto Make America Great Again.
Ci sono dei versi storti, in ye, come quelli dell’ultima canzone “Violent Crimes”, una sgradevole esibizione di preoccupazioni maschiliste su sua figlia North. Ma inadeguatezze del genere Kanye le ha sempre sparpagliate nei suoi testi, con la differenza che oggi vengono scandagliati in cerca di conferme sul suo allineamento alla visione del mondo trumpiana. In un disco molto cantato, però, Kanye ha infilato anche alcune delle sue strofe rap migliori da anni, come quelle della seconda canzone “Yikes”, in cui passa dagli psicofarmaci al #MeToo alla Corea del Nord, prima di arrivare alla rivendicazione della malattia mentale: il bipolarismo «non è una disabilità / Sono un supereroe».
«Ho provato a farmi amare / Ma ogni volta che ci ho provato ti ho allontanato», canta il rapper Kid Kudi in “Ghost Town”, nella quale Kanye presta una delle sue ammissioni di colpa più limpide al suo vecchio pupillo, con il quale venerdì farà uscire un altro disco. È di gran lunga la canzone migliore di ye, e con i suoi chitarroni distorti intrecciati ai sample soul celestiali mette in chiaro che Kanye è ancora quello che aveva fatto alzare a tutti le mani con My Beautiful Dark Twisted Fantasy.
È difficile e prematuro prevedere se dopo tutto quello che è successo dall’esaurimento nervoso del 2016 a oggi, Kanye si sia ora messo in un nuovo posto, uno in cui possa tornare a far pendere l’industria culturale mondiale dalle sue labbra. Ed è altrettanto difficile pensare che ye possa diventare il disco di Kanye preferito di qualcuno. Ma forse un più umile Ep, terapeutico per lui e rassicurante per tutti gli altri, che abbassi l’asticella a un livello alla portata di una persona che negli ultimi tempi ne ha passate tante e difficili, era esattamente quello di cui aveva bisogno per sbrogliare la sua personale matassa e riprendere in mano la sua carriera.