Cultura | Dal numero
I Millennial allo specchio: Jia Tolentino e internet oggi
L'intervista alla giornalista del New Yorker che nella sua raccolta di saggi ora disponibile in Italia, Trick Mirror, ha analizzato il ruolo di internet nelle nostre vite. Dal numero Behind The Screen in edicola.
Fino all’uscita di Trick Mirror. Le illusioni in cui crediamo e quelle che ci raccontiamo, il suo primo libro adesso pubblicato in Italia da NR edizioni, il segreto meglio custodito di Jia Tolentino, “la mente migliore dei Millennial”, nonché saggista tra le più venerate d’America – paragonata a Solnit, Didion e Sontag («se solo Susan Sontag avesse avuto un danno cerebrale permanente causato da internet», come da quarta di copertina) – era il seguente: a 16 anni aveva partecipato a un reality show, Girls VS Boys edizione Porto Rico. A quei tempi, era il 2004, i reality conservavano ancora una certa innocente acerbità che di lì a poco sarebbe maturata fino a farne colare il succo – documentare la propria vita affinché venga guardata da altri – su tutto il resto. A dare il contributo definitivo ci avrebbe pensato internet, croce e delizia di Tolentino, punto di partenza e di arrivo di ogni sua riflessione e anche molto di più: l’oceano in cui nuota.
Il mito di Jia Tolentino è nato su internet, e grazie a internet. Figlia di genitori filippini immigrati in Canada, è cresciuta a Houston, Texas, in un ambiente molto cattolico. Come milioni di altre ragazzine ha iniziato da piccola a dare forma alla propria identità su Angelfire, Livejournal, MySpace. Lei stessa ammette che l’unica attività alla quale si è sempre dedicata in modo ossessivo è scrivere di sé online. Quando, dopo alcuni mesi nei Peace Corps in Kirghizistan («un’esperienza fondativa, che mi ha fatta sentire umile e rendere conto di quanto fossi stupida a pensare di rendermi utile»), ha capito che di questa sua grafomania avrebbe potuto fare una professione, ha iniziato a lavorare per The Hairpin e poi Jezebel, per poi approdare, circa tre anni fa, al New Yorker. Una parabola straordinaria per una trentunenne asiatica di seconda generazione (origini filippine), che su Twitter ha come foto un mariachi che guarda un beluga («una band che suonava a un matrimonio in un acquario», spiega), su Instagram si fa chiamare «Jia Tortellini», si tinge i capelli biondissimi, posta le foto del cane Luna o di se stessa mentre fuma da un bong, posa per Vogue, si fa un tatuaggio con il compagno Andrew o mostra il pancione che, anche se è di sei mesi e mezzo, è già enorme.
Anche se ora la gente decide di scendere in strada, il modo in cui internet privilegia la rappresentazione della cosa alla cosa stessa resta preponderante
Guardare Jia è guardare allo specchio questi nostri tempi, pieni di intelligenza e ambivalenze. Nella raccolta di saggi, dove usa se stessa come filo conduttore per esplorare cosa significa vivere adesso, in realtà lo specchio è deformato e quelle che produce sono, perlopiù, illusioni. Per Tolentino, nessun argomento è troppo volgare, complesso, strano, femminile, da non meritare di diventare oggetto di riflessione critica. Social, reality, Ecstasy, religione, athleisure, truffe online, corsi di barre, matrimoni, femminismo, mito della bellezza sono tutti oggetti capitati nel suo radar e che lei ha sottoposto al trattamento matrioska: si prende un’idea, la si spacca a metà e se ne estraggono tutte le alternative. Crudele e spiazzante, ma comunque sintomo dello Zeitgeist corrente.
Il punto è che questo non è più il vecchio mondo: mai come adesso siamo stati bombardati da tentativi di manipolazione, sorveglianza e monetizzazione delle nostre vite. È evidente che serve un tipo di voce che provi a raccontarlo con la tipica lucidità di questi anni Venti: tanti piccoli centri nevralgici messi a fuoco a furia di agguati e dissacrazioni, ma mai il tentativo di confezionare dogmi. E oggi nessuno come lei riesce a farsi ascoltare a livello così pervasivo e transgenerazionale.
Jia ha trascorso il lockdown in una casa nell’upstate New York assieme a Andrew e Luna. «Siamo in un posto isolato, perciò sono potuta uscire anche senza mascherina. Sono stata bene, ho lavorato, letto tanto, soprattutto Hilary Mantel e Mercè Rodoreda, ho ascoltato musica, cucinato. Sono consapevole della grande fortuna che ho, per questo cerco di essere il più leggera possibile. Anche se in questi giorni non ci riesco», mi spiega quando ci sentiamo per questa intervista. Il suo pensiero fisso è alle rivolte seguite all’omicidio di George Floyd che stanno infiammando il Paese: «L’unica cosa che vorrei ora è unirmi alle proteste, ma non sarà facile visto che aspetto un bambino e che ancora c’è pericolo di ammalarsi di Covid-19. È strano essere isolati proprio in un momento come questo».
Nel primo saggio di Trick Mirror, “La i di io in internet”, sostiene che, in generale, «internet minimizza la necessità di un’azione fisica: per vivere una vita da 21esimo secolo accettabile, magari anche di valore, non devi fare molto altro che sederti dietro a uno schermo» e «lasciare la sfera del mondo reale nelle mani delle persone che già la controllano». Eppure non sono pochi i commentatori di post che, in questi giorni, hanno fatto l’upgrade a «manifestanti»: qualcosa sta cambiando? «Non credo: anche se ora la gente decide di scendere in strada, il modo in cui internet privilegia la rappresentazione della cosa alla cosa stessa resta preponderante. Per non parlare di chi, come Amazon, mentre sui social si schiera contro il brutale trattamento delle persone di colore, intanto licenzia dei dipendenti perché hanno protestato contro il trattamento da parte dell’azienda durante la pandemia. E io penso, ma di che cosa state parlando?». In Trick Mirror, Tolentino parla di «solidarietà performativa», legata cioè alla visibilità e, in sostanza, all’auto-promozione. È questo il caso? «Sì. Perché se un’azienda pubblica #BlackLivesMatter ed è interamente guidata da bianchi, allora non serve a nulla».
Uno dei punti forti di Trick Mirror è il fatto che Tolentino riconosca costantemente il proprio personale coinvolgimento – spesso parla di «complicità» – nel panorama che sta cercando di descrivere: è la prima ad ammettere che, senza l’esasperazione che i social hanno posto sull’individualità, lei oggi forse non avrebbe nemmeno un lavoro. Come a dire: siamo in una trappola gigantesca, nella quale entriamo tutti i giorni e dalla quale, ormai, è praticamente impossibile uscire. Quindi, che fare?
Lei è la prima a farsi domande per le quali non ha risposte e, anche se questo le ha procurato più di una critica, ha scelto di non accontentarsi di facili soluzioni. «Escludere le ricette preconfezionate mi ha fatto rendere conto di quanto lavoro serva per cambiare davvero qualcosa. Tutti dicono: andate a votare a novembre! Ma votare non serve a nulla se prima non si pensa a riformare le istituzioni, la polizia, il sistema carcerario. E poi sai cosa penso? Che in realtà le soluzioni le abbiamo già e sono molto chiare, dal mio punto di vista: a questo Paese serve più socialismo, una regolamentazione dei social, il cambiamento del modello economico di internet, tassare i milionari. I problemi sono vecchi e lo sono anche le soluzioni. Che, in ogni caso, possono arrivare solo a livello collettivo, e non individuale».
Sul banco degli imputati ci sono, ovviamente i social, ai quali riserva le critiche più dure per aver reso il mondo un vero incubo. «Nei primi mesi di pandemia, però, c’è stato un miglioramento: le persone erano più vulnerabili quindi più umane e le celebrity venivano biasimate perché mandavano messaggi di solidarietà mentre se ne stavano al sicuro nelle loro mega ville. Però», prosegue Tolentino, «non penso sia cambiato nulla di sostanziale. Finché internet sarà basato sulla sorveglianza, finché le emozioni che vengono rafforzate sono la rabbia e il senso di superiorità, allora non cambierà mai nulla».
Quello che faccio con le mani per me è molto importante, mentre internet non lo è. In tempi normali, l’offline è tutto: uscire, andare al parco e lasciare a casa il cellulare, andare a sentire musica live, a cena fuori
Se pure nel libro, rifacendosi al sociologo dell’interazione simbolica Erving Goffman, la scrittrice accusa il web 2.0 di avere de facto annullato la differenza tra vita online e offline (quella garantita da un backstage dove potere essere se stessi) trasformando tutto in un gigantesco panopticon, Tolentino attribuisce un grande valore alla sfera «off»: «Quello che faccio con le mani per me è molto importante, mentre internet non lo è. In tempi normali, l’offline è tutto: uscire, andare al parco e lasciare a casa il cellulare, andare a sentire musica live, a cena fuori. E sono convinta che internet sarebbe un posto migliore se assomigliasse di più al mondo reale. Se fosse decentralizzato, se ci fosse un limite all’algoritmo, allora io potrei vedere qualcosa di figo, dirlo ai miei amici, e ritrovarci poi tutti nello stesso posto. Come succedeva nel Web 1.0».
L’altro elefante nella stanza è il capitalismo: Tolentino cita la massima fondamentale di Mark Fisher – «sarebbe più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo» – e aggiunge: «Siamo in un momento interessante: ora che la fine del mondo non è più fantascienza, perché non pensare anche a quella del capitalismo? Del resto non è difficile immaginare un sistema che sia migliore di quello attuale. Resto sempre scioccata dal conservatorismo del Partito Democratico: Bernie Sanders, che negli Stati Uniti è considerato troppo radicale e rappresentante del pericolo socialista, è molto più moderato di molti politici in Canada o Europa».
A un certo punto, in Trick Mirror, Tolentino suggerisce che l’unica possibilità di porre fine a questa situazione potrebbe venire da un collasso sociale ed economico. La pandemia è quell’occasione? «Non esattamente: intendevo il collasso delle istituzioni che detengono certi poteri, e questo collasso non avverrà nemmeno con la crisi post Covid-19. I milionari sono diventati ancora più ricchi, il mercato è risalito, il potere si sta solidificando e il Coronavirus sta solo esacerbando l’ineguaglianza. Gli Stati Uniti sono più preparati a sopprimere l’azione politica che non a farci i test per il virus».
Sotto traccia in quasi tutti i saggi scorre uno dei temi che le stanno più a cuore, il femminismo. Nel bellissimo testo sul modello di perenne ottimizzazione imposto alle donne, punta il dito contro il «femminismo commerciale» e, anche in questo caso, la sua identità di giovane donna non può che farle sentire tutta l’ambivalenza: «Io stessa ne ho beneficiato: se il femminismo non fosse stato qualcosa di “commerciabile” non avrei mai potuto lavorare per un sito come Jezebel. È un tipo di femminismo che, avendo alle spalle il capitalismo, punta tutto sul successo individuale: fai più soldi, sii più bella, più importante. Ma tutte noi sappiamo che sono cazzate. Il vero femminismo riguarda il benessere collettivo». Perciò ritiene che la scelta di una donna come vicepresidente da parte del candidato democratico Joe Biden aiuterà la causa? «Pensare a Biden mi fa venire voglia di morire: per me non avrebbe mai dovuto correre alla presidenza, quindi non mi interessa chi sceglierà. L’unica cosa che penso è che quella donna andrà comunque a mettersi in una brutta situazione».
Tra le donne che Jia riconosce come «madri» emerge sorprendentemente anche il collettivo della Libreria delle donne di Milano, conosciuto grazie a Elena Ferrante, scrittrice che adora: «La loro idea secondo cui l’identità femminile sia qualcosa che comprendiamo attraverso le narrazioni che ci vengono fatte da altre donne ha sbloccato qualcosa dentro di me. Il modo in cui le loro idee politiche si manifestano in qualcosa di intimo come lo sguardo di e su un’altra donna mi ha fatto venire voglia di applicare lo stesso metodo con le donne della mia comunità».
Intanto, tra un paio di mesi, diventerà mamma: «Fare un figlio oggi potrebbe sembrare da mostri. Ci ho pensato moltissimo. Io amo molto i bambini, e Andrew li adora, ma sono certa che il loro mondo sarà peggiore del nostro. Eppure credo che la vita valga sempre la pena». Jia dice di non essersi mai aspettata niente, e quindi di non esserne mai stata delusa: «Arrivare fin qui è stata una cosa completamente arbitraria. Non sono migliore di chi, magari, ha perso il lavoro: è solo una questione di fortuna».
Così parlò la voce di una generazione. «Non parlarmi di quella definizione! Da una parte sono onorata che le persone si sentano connesse con il mio lavoro. Dall’altra, penso a quanto il mio lavoro sia in realtà facilmente impacchettabile e commerciabile». Forse allora, più che voce di una generazione bisognerebbe definirla «interprete», che in fondo è quello che deve fare un’intellettuale che si trova a lavorare in tempi così confusi: non spaventarsi davanti alle contraddizioni, provare a capire, usare se stessa, il proprio corpo e la propria mente, come materia di studio e di lavoro. E poi, se è onesta fino in fondo, ammettere magari che non sa: «Ho iniziato a scrivere questi saggi perché ero confusa e perché era l’unico modo, per me, di capire. Alla fine, l’unica cosa che ho davvero capito è che non ho capito niente. Ma ne è valsa comunque la pena».