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Versace Embodied non è una campagna ma una conversazione sulla cultura Capitolo primo (di una nuova serie): Versace si racconta attraverso fotografia, poesia, musica e oggetti d'archivio, sotto la direzione creativa di Dario Vitale.

Grazie, Jane Austen

A duecento anni dalla morte, perché nell'epoca dei dibattiti infuocati sul girl power è importante rileggere l'autrice di Orgoglio e pregiudizio.

18 Luglio 2017

Detesto le cose che mi ricordano di essere una donna. Le antologie che raccolgono i racconti di scrittrici donne. Il sito con i racconti-verità sulle esperienze delle donne. Una mostra di arte contemporanea «tutta al femminile» – un dettaglio che non verrebbe mai evidenziato in un’esposizione di soli artisti maschi. Ho partecipato a raggruppamenti di questo tipo e l’ho fatto interrogandomi sul perché mi irritavano tanto. «Pensavo fosse stato scritto da un uomo» è un commento di un lettore a un articolo che scrissi su una porno attrice: istintivamente, mi riempì di piacere. Le mie prime letture serie – immediatamente successive ai libri della collana “Esperienze”, racconti di vita vera su storie di droga, prostituzione e anoressia che in terza media rubavo in biblioteca (scritti tutti da donne) – sono stati autori maschi: Goethe, Dostoevskij, Gogol, Bulgakov, Nabokov, Flaubert, Balzac, Rimbaud, Nietzsche. Gli uomini, pensavo da adolescente, parlano di tutto: passione, ambizione, senso di colpa, omicidi, affinità elettive, patti col diavolo, opere d’arte, desiderio, sesso, corrispondenze, ragionato sregolamento di tutti i sensi, magia, perversione, classi sociali, noia, invidia, morte. E le donne di cosa parlano, invece? Del ruolo delle donne nella società.

Anche un bambino dell’asilo sarebbe in grado di apprezzare un’opera come Delitto e castigo, ma è necessario essere adulti e donne per capire davvero Jane Austen. Bisogna che il velo di Maya sia caduto dagli occhi, che la nave del romanticismo sia andata a sbattere fragorosamente contro gli scogli e l’iceberg dei sogni di gloria abbia cominciato a sciogliersi e galleggiare a caso in un oceano di bollente delusione. Bisogna che si sia capito davvero quanto contano i soldi, le classi sociali, il decoro, il potere, il successo nelle relazioni amorose. Bisogna aver capito quanto, a un certo punto, in qualsiasi era e per qualsiasi donna, l’obiettivo diventi – per imposizione della società, della famiglia, dei social, della pubblicità, del lavoro, della moda, di tutto – quello di riuscire ad accaparrarsi una sedia quando finisce la musica e tutti smettono di ballare e corrono ai loro posti. Non rimanere in piedi. Non restare sola.

Jane Austen non dovrebbe rientrare nelle letture scolastiche. I suoi libri sono molto più difficili, noiosi e sofisticati di Gita al faro, Jane Eyre e Cime tempestose. Cosa può assimilare una bambina di quell’umorismo tagliente, dell’uso massiccio e specifico del discorso diretto (le parole usate come armi, i dialoghi scene di battaglia), del rimorso, dell’importanza del controllo e del decoro? Sono duecento anni, oggi, dalla morte di Jane Austen. Nessuno è attuale come lei, stiamo dicendo tutti, nessuno ha capito così bene la natura umana, i suoi personaggi sono universali, e infatti da decenni si sfornano film che li riprendono e reinterpretano, dall’indimenticabile Clueless, il cult del 1995 con Alicia Silverstone, rivisitazione di Emma, agli adattamenti con Gwyneth Paltrow e Ewan Mc Gregor (sempre Emma), Keira Knightley (Orgoglio e pregiudizio), Kate Winslet e Emma Thompson (Ragione e sentimento), fino alle serie tv e ai documentari. Sorgono spontanee alcune domande. Quanti di noi hanno letto Jane Austen da adulti? Quanti di noi conoscono la sua vita e i suoi scritti al di fuori della pappardella imparata a scuola? E quanti, tra questi, sono uomini?

Il personaggio più commovente che il cinema ha ricavato dalla scrittura di Jane, a mio parere, è Jane stessa, e cioè Anne Hathaway in Becoming Jane. Non è soltanto la presenza sexy e sublime di James McAvoy a rendere questo film il modo più pop per celebrare Jane Austen oggi. È la tenerezza con cui il personaggio della scrittrice viene ritratto. Jane Austen voleva sposare Thomas Langlois Lefroy – erano innamorati – ma i genitori di lui non hanno ritenuto l’unione adeguata a livello sociale, e l’hanno allontanato. Data la dipendenza economica di Lefroy dal prozio – gli pagava gli studi per farlo diventare giudice – il matrimonio fu impossibile. Il film del 2007 riprende questa faccenda e la romanza, con loro due che cercano di fuggire insieme e Jane che capisce che se rimane con lui tutto sarà troppo complicato e lei non potrà continuare a scrivere, e allora rinuncia all’amore e a una vita a due: torna a casa.

Jane Austen scriverà tutta la vita infilando pezzi di Lefroy in Mr. Darcy, in tutti i suoi eroi maschili, mettendo parti di parenti e amici negli altri personaggi, ritagliando e incollando paesaggi visti e frasi sentite in giardino, china sulla scrivania della sua stanza, sul collage della sua vita vissuta soltanto con la mente e non con il corpo. Il matrimonio sarà il Godot dei suoi libri, quello da aspettare in eterno (a differenza di Godot, a un certo punto arriva per tutte, o quasi): unica realizzazione della vita, salvezza economica, psicologica, emotiva, sociale. Anche quando manca, quando non ti sceglie (soprattutto in quel caso), è l’uomo la figura centrale, è lui che comanda. Quale concetto più attuale e intramontabile di questo? Ce lo insegnano, per contrasto, i personaggi femminili delle narrazioni che oggi hanno un po’ preso il posto dei romanzi rosa (le serie), che si impegnano a far finire le storie senza uomo, per far capire che oggi va bene, è possibile, stare con uno non è più il lieto fine obbligatorio. Lena Dunham fa finire Girls con Hannah che allatta la sua bambina (il goal è avere finalmente una responsabilità, una persona di cui prendersi cura), Phoebe Waller-Bridge in Fleabag riesce a farsi prestare i soldi per tenere aperto il bar grazie all’aiuto dell’unico uomo con cui non ha scopato (il goal è la realizzazione professionale), Chris Kraus in I love Dick, con in testa il cappello di Dick e dopo non aver fatto sesso con lui perché le è venuto il ciclo, cammina fiera nel deserto, con un rivolo di sangue che le cola sulla coscia (il goal è rientrare in contatto con il desiderio sessuale e tutte le sue contraddizioni).

C’è un gioco che faccio sempre con le autrici: vado a cercare con chi stanno. Lena Dunham sta con Jack Antonoff, il tizio che ha aiutato Lorde a fare il suo ultimo disco. Phoebe Waller-Bridge sta con il presentatore tv Conor Woodman. Chris sta ancora con Sylvère Lotringer, fondatore di Semiotext(e), la casa editrice che pubblica i suoi libri. Simone De Beauvoir stava con Sartre, Virginia Woolf con Leonard (con cui fondò Hogarth Press, casa editrice che pubblicava i suoi libri), ecc. So che è sbagliato rimanerci male. Dopotutto le cose più belle si fanno insieme. E poi è normale, è giusto, tutti speriamo e meritiamo di trovare un complice, un compagno, un amante. Perfino io. Ma Jane Austen, no. Lei è rimasta da sola per tutta la vita e fino alla morte ha continuato a scrivere libri in una condizione di semi-anonimato, come una specie di Elena Ferrante.

In un periodo in cui da HM si vendono magliette con scritto «GIRL POWER» e «FEMINIST», in cui stiamo tutte a contorcerci per fotografarci il culo e a ballare in mutande avere più like e a pensare che è bello e giusto, perché il corpo è nostro e ne siamo fiere (le ragazze brutte piangono in camera loro fissando lo schermo), in cui su Facebook si accendono dibattiti infuocati su quanto questo o quello è offensivo per le donne, in cui non esco più con le femmine perché parliamo solo di uomini e di scopate e trascorriamo ore a fare l’analisi logica e grammaticale di conversazioni WhatsApp – dopo un po’ io mi annoio – in cui Emily Witt scrive Future Sex e Olivia Laing scrive The Lonely City e Emma Cline scrive The Girls, insomma, in cui come al solito, le donne riflettono il ruolo delle donne nella società e le donne riflettono sul ruolo delle donne nella società, diventa più importante che mai rileggere Jane Austen, leggerla davvero, nel tentativo disperato di trovare una voce amica, e provare a capire come posizionarsi in questo delirio.

L’amarezza che traspare dalle pagine di Austen lascia in bocca un sapore diverso da quello dolciastro del girl power esteticamente corretto che i film come Becoming Jane e le serie tv e le magliette del cazzo e i magazine pseudo-femministi con gli articoli sulle mestruazioni e le interviste alle donne con capelli blu ci propongono, contentino o consolazione in una società che non guarderà mai alla solitudine femminile come a quella maschile. L’amarezza di Austen è reale e pungente, giace irrisolta nella sua vita e nei suoi libri, dove alla fine dei conti sono sempre gli uomini a decidere, e molte volte sono ridicoli, e l’amore è bello anche se è un’imitazione dell’amore, il lieto fine parodia del lieto fine e l’unica vera arma delle donne resta sempre e soltanto la parola.

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