Cultura | Dal numero

Il racconto dei fratelli D’Innocenzo

Sono i registi della Terra dell'abbastanza e di Favolacce, Orso d'Argento a Berlino per la migliore sceneggiatura presto distribuito in America. Incontro con la coppia creativa che tutti indicano come il futuro del cinema italiano: chi sono, come si sono formati, cosa gli piace fare.

di Clara Mazzoleni

«È tutto molto tremendo quando ci troviamo dall’altra parte della macchina, sia che che sia la macchina fotografica o la macchina da presa», confessa Damiano D’Innocenzo quando gli
chiedo se si è divertito a posare insieme
a suo fratello per le immagini di questo
servizio. Registi, fotografi, scrittori,
sceneggiatori e poeti, i fratelli D’Innocenzo sono abituati a stare dal lato di
chi le immagini le fa, non di chi le subisce. Nati nel 1988 nella frazione romana
 di Tor Bella Monaca sono cresciuti tra 
Anzio, Nettuno e Lavinio seguendo il
padre pescatore. Dopo l’alberghiero hanno lavorato come camerieri, baristi, giardinieri e ghostwriter. Il loro primo film esce nel 2018 e si chiama La terra dell’abbastanza, lo presentano al Festival internazionale del cinema di Berlino. Collaborano alla sceneggiatura di Dogman di Matteo Garrone e nel 2019 pubblicano la loro prima raccolta di poesie,
Mia Madre è un’arma (La
nave di Teseo). Nel 2020 
esce il loro primo libro
fotografico FarmaciaNotturna (Contrasto).
Il loro secondo film da
registi, Favolacce, è stato
selezionato in concorso al Festival di Berlino
2020 e ha ricevuto l’Orso d’argento per la migliore sceneggiatura, più
10 candidature ai Nastri
d’argento 2020. Il film è stato da poco acquisito dalla Strand Releasing, che lo distribuirà negli Stati Uniti. Sono tutti indizi che, messi insieme, danno forma a un disegno abbastanza preciso: molto probabilmente ci troviamo davanti al futuro del cinema italiano

ⓢ Le fotografie più piccole in queste pagine le avete scattate voi. Nel vostro percorso è quasi impossibile distinguere tra l’amore per le immagini e quello per la scrittura. Le vostre poesie sono fatte di tante piccole immagini, le vostre fotografie sono emotive come poesie, e poi ci sono i film, la fusione più perfetta tra immagine e parola.
Fabio — una scoperta di qualcosa che già conosci ma che viene finalmente sintetizzato, a cui vengono fornite delle sembianze più chiare, familiari, decodificabili, e quindi una volta che scopri alcuni grandi miracoli della scrittura, dell’associazione di due parole, o di alcuni pensieri, è come se ci fosse improvvisamente un interlocutore con cui puoi parlare. Noi abbiamo iniziato a scrivere molto presto, avevamo una tendenza all’autocompiacimento, ad esempio sui temi. Era un piccolo sfoggio perché essendo delle capre in tutto il resto, l’italiano era l’unica materia che ci dava delle soddisfazioni, uno dei pochi ambienti in cui la creatività non sembrava un semplice escapismo dalla vita, ma qualcosa di più importante. Questo sentirsi speciali in un contesto che negava questo potere ci ha dato la spinta per proseguire, abbiamo scritto poesie, storie, racconti, poi abbiamo pensato che il cinema potesse in qualche modo darci la possibilità di colmare la nostra fame audiovisiva, perché l’immagine è più misteriosa, rispetto alle parole va più in là perché nasconde di più. Ci affascinano tante cose e per noi la scrittura è un punto di partenza e un punto di arrivo.

La cover dell’ultimo numero di Rivista Studio, con Damiano e Fabio D’Innocenzo

ⓢ Non avete mai frequentato scuole o corsi di regia, siete completamente autodidatti. Qual era il rapporto dei vostri genitori col cinema?
Damiano — Sul cinema mi ricordo soprattutto un aneddoto, che nostro padre tirava fuori quando la Roma perdeva quindi eravamo tutti un po’ incazzati, o nelle serate noiose. Ci raccontava della volta in cui suo padre, nostro nonno, che non abbiamo mai conosciuto, e faceva la comparsa a Cinecittà, picchiò Kirk Douglas. Nelle foto mio nonno era un torello, piccolo ma muscoloso, e la leggenda dice che quando Kirk Douglas era a Roma a girare Due settimane in un’altra città di Vincente Minnelli, ha fatto una battuta con un tono di voce un po’ strafottente, e allora mio nonno gli ha dato un pugno in faccia. Naturalmente è mitizzata e sono certo al mille per mille che sia completamente falsa, ma questo la rende ancora più bella. Per noi il cinema ha sempre avuto a che fare coi pugni, che è un po’ il modo in cui ci siamo fatti strada, metaforicamente parlando, non abbiamo mai dato del lei a questo ambiente, abbiamo scritto le nostre storie e abbiamo avuto la pretesa che i più grandi registi e i più grandi produttori italiani le leggessero.
Fabio — I nostri genitori erano affamati di cinema. In famiglia il momento più bello era il lunedì sera che c’era il Lunedì film di Rai Uno. In quel momento lì, quando tutta la famiglia si riuniva a vedere il film, alcuni argomenti che non sarebbero mai stati affrontati venivano spiattellati in maniera a volte molto cruda. Era un modo per stare tra gli adulti. Io ho una profonda gratitudine per quei film che mi hanno scosso e traumatizzato. Ho scoperto il potere straordinario che ha il cinema di fornire delle esperienze che nessuno potrebbe mai vivere ma che per quella nostra componente pruriginosa di curiosità andiamo a cercare, quindi alcuni traumi poi in realtà sono stati dei trampolini di lancio.
Damiano — Io ricordo con grande piacere le prime vhs, ovverosia le vhs che venivano regalate in supplemento col quotidiano, e chiaramente la prima cassetta di una collana era gratuita, e quindi eravamo pieni di questi primi volumi, perché poi ovviamente la seconda bisognava comprarla e noi non la compravamo, quindi non so Grandi Film Italiani, solo il primo, Capolavori Americani, solo il primo. Poi le vhs avevano la grande magia che potevi registrarci sopra, avevi il potere di distruggere un film che avevi odiato registrandoci sopra, il che era di una meritocrazia che io amavo, mi ricordo che feci lo sfregio a mio padre, che per tanti anni me l’ha fatto pesare, di registrare la finale Francia Brasile del ’98 sopra Natale in casa Cupiello.

«La scrittura è sempre una scoperta di qualcosa che già conosci ma che viene finalmente sintetizzato, a cui vengono fornite delle sembianze più chiare, familiari, decodificabili, e quindi è come se ci fosse improvvisamente un interlocutore con cui tu puoi parlare»

ⓢ Quindi Natale in casa Cupiello vi aveva fatto schifo?
Damiano – Ma no, no, anzi. De Filippo che ha freddo e continua a chiedere com’è il tempo fuori è uno dei primi atti più belli della storia, è una scena di grandi silenzi e grandi sospensioni. È che nel ’98 avevamo dieci anni, per noi Zidane era il più importante cineasta.

ⓢ Come avete fatto a introdurvi nel mondo del cinema?
Fabio — Ci siamo autointrodotti, nel senso che l’abbiamo con una certa prepotenza, che non vuol dire scavalcare gli altri ma cercare di imporre il nostro mondo creativo. Quello che abbiamo sempre fatto è di non aver mai frainteso il nostro desiderio di arrivare come qualcosa di velleitario, non ci interessa per niente la notorietà, siamo rimasti meravigliosamente al di fuori di certe dinamiche. È paradossale perché tu ci chiedi come siamo entrati ma io ti dico che siamo ancora fuori.

ⓢ Il vostro carattere vi ha aiutato o è stato un ostacolo? Se vi immaginate nel futuro, diventerà sempre più facile o sempre più difficile?
Damiano — Il nostro carattere ci ha fortemente aiutato ma nella sua parte più tropicale, noi siamo sempre stati – e sempre lo saremo – strani, io ogni volta che vado a fare la spesa mi sento un disadattato, sento che il macellaio potrebbe dirmi “tu sei sbagliato” e io abbasserei la testa e direi “sì, c’hai ragione”. Però questo modo grezzo di fare, questo modo sghembo di parlare e di chiedere, senza sovrastrutture, ha certamente creato una curiosità nelle persone che si fermavano ad ascoltarci quei 30 secondi in più semplicemente perché magari gli aveva fatto sorridere il modo in cui ci eravamo presentati. D’altra parte la nostra ingenuità ci ha messo un po’ i bastoni tra le ruote, soprattutto nella prima parte del nostro lavoro quando facevamo i ghostwriter. È molto triste vedere che tu scrivi per degli autori già strutturati e poi a fine lavoro ti danno duecento euro a testa e loro si prendono cifre importanti e la tua firma non esisterà mai.

ⓢ Per quanto tempo avete lavorato come ghostwriter
Damiano — 5 anni, era un modo per pagare l’affitto. Non lo rinnego affatto, è stata la nostra palestra.

ⓢ Di solito siete mondani, medio-mondani o solitari?
Fabio — Siamo molto
solitari ma all’aperto,
camminare è sempre un
pretesto per scoprire.
Per strada osserviamo
gli oggetti che sono un
po’ la rivelazione ultima
delle persone, spesso giriamo per le strade, fotografiamo, cerchiamo
di capire alcune cose. L’empatia impone di non prolungare troppo questa osservazione perché poi diventa un po’ una sofferenza, siamo consci di possedere una sensibilità che alcune volte può essere deleteria, ma siamo felici di averla perché grazie a questa sensibilità possiamo fare questo lavoro senza sentirci dei farabutti. Siamo felici anche dei lati che tentiamo di nascondere e che cerchiamo di rivelare grazie alle storie, che è un modo molto generoso ma anche redditizio per mettere alla berlina i nostri difetti.
Damiano — Però Fabio non hai risposto proprio tanto bene perché lei ti aveva chiesto della mondanità. Io ti posso dire, in maniera più secca: sto sempre a casa col mio cane e con la mia compagna. Ho fatto non so, due feste di cinema? Cioè una volta che arrivi e ti bevi una birra, provi il bagno, poi che fai? Io me ne vado. Mi ricordo che una volta a questa festa c’era anche Paolo Sorrentino, regista che noi amiamo molto, nonché una persona straordinariamente acuta e poetica, lui stava fuori col sigaro, e c’è bastato uno scambio di sguardi per capire entrambi che non vedevamo l’ora di tornare a casa, tra l’altro abitiamo pure vicini. Ma anche quando abbiamo vinto l’Orso D’Argento a Berlino, nella cena ufficiale dei vincitori quanto siamo rimasti Fabio, 15 minuti? Sembravamo scocciati d’aver vinto oppure che dovevamo andare urgentemente al bagno. Ci mandavano i messaggi: «Dai adesso siamo in discoteca», i capi del Festival, andavano a ballare, noi stavamo già a letto.

ⓢ E sul set, come vi comportate?
Fabio — Sul set siamo in due quindi sempre un po’ ovunque. Essendo dilettanti, non sapendo nulla, spesso siamo insistenti nel voler capire certi meccanismi… è strano perché noi arriviamo sul set che abbiamo tantissimo da apprendere e spesso ci incantiamo a capire come funziona il giocattolo, scordandoci che stiamo già facendo un film. Però questo ci piace, per noi è importante rimanere vergini, rinneghiamo il manierismo e la noiosissima capacità di acquisire un mestiere che diventa poi routine, anche tra di noi cerchiamo di crearci degli ostacoli, ad esempio diciamo a un attore due cose completamente opposte, così l’attore va in crisi, ma poi se ci pensi uno dei motori dominanti del nostro vivere è la contraddizione e quindi è lì che esce qualcosa di importante. Cechiamo di mettere in pratica quello che abbiamo imparato fino a oggi: che le contraddizioni sono importanti, che dalla paura si può generare qualcosa di molto forte e vivo, che bisogna stare in ascolto.

ⓢ Vi è dispiaciuto che Favolacce sia uscito durante il primo lockdown e quindi in streaming?
Fabio — È stata una mortificazione. C’era la voglia di condividere un film che in quel momento parlava anche di quello che stavamo vivendo in maniera non didascalica, in maniera non esplicativa, ma era comunque una forma per raccontare alcune storture che venivano ingigantite dalla situazione che stavamo vivendo, i rapporti all’interno delle famiglie, il cameratismo, le convenzioni sociali che esistono al di fuori del nucleo familiare. Cose che sono emerse con la pandemia, il virus ha scoperchiato demoni, problemi e fantasmi. In quel momento avere il film e poterlo mostrare era un modo per affrontare tutto questo. Noi non pensiamo che possa esistere il cinema senza la sala, siamo assolutistici, abbiamo un senso di protezione verso la sala molto forte e quindi per noi farlo uscire in piattaforma è stato un paradosso. Poi però è uscito anche in sala, abbiamo inaugurato la piccola parentesi di riapertura.

ⓢ Adesso andrà in America. A proposito di America, se faccio un paragonetra voi e i fratelli Safdie cosa dite? Avete delle cose in comune. Essere fratelli, ma anche una fortissima sensibilità nella scelta degli attori, il gusto per il thriller e i personaggi allo stesso tempo impacciati e cattivi, crudeli in un modo che è impossibile condannare, perché la loro crudeltà deriva dall’ignoranza o dall’ingenuità.
Damiano — Io li ho scoperti recentemente, ho visto sia
Uncut Gems che Good Time e
li trovo due film estremamente compiuti, è un’associazione che mi gratifica molto. Mi 
imbarazza perché credo che loro abbiano raggiunto una grande stabilità, hanno una traiettoria molto ben definita. Quindi ti dico, magari!
Fabio — Rispetto a quello che dici degli attori: noi amiamo gli attori, è forse il motivo centrale per il quale facciamo film. A differenza di molti colleghi frequentiamo tantissimo il teatro che è un generatore immenso di attori con i cosiddetti, perché spesso il teatro non ti fa manco campare col tuo lavoro. Quando dobbiamo preparare un film noi chiediamo tantissime settimane di provini, a volte barattandoli con i giorni di ripresa sul set, che può sembrare una bestemmia, ma noi preferiamo così. Per il nuovo film abbiamo fatto mille provini, per Favolacce abbiamo visto 600 bambini. Il merito è dei nostri casting, che condividono con noi questa passione e la responsabilità che sentiamo, essendo degli outsider, di lanciare degli outsider a nostra volta, facce che non hanno ancora avuto modo di esplodere, ma non nel senso di fama o altro, ma che quello dell’attore o dell’attrice poi diventi il loro lavoro, il modo in cui possono pagarsi le bollette di casa e l’affitto.

«Per noi il cinema ha sempre avuto a che fare coi pugni, che è un po’ il modo in cui ci siamo fatti strada, metaforicamente parlando, non abbiamo mai dato del lei a questo ambiente, abbiamo scritto le nostre storie e abbiamo avuto la pretesa che i più grandi registi e i più grandi produttori italiani le leggessero»

ⓢ Cosa potete dire del nuovo film?
Fabio — In questo momento stiamo realizzando un nuovo film e siamo nella fase bellissima della scrittura e dei provini e della ricerca dei luoghi. Ci concentriamo su un progetto alla volta, stiamo anche realizzando una serie televisiva per Sky, ma al momento siamo proiettati su questo film che per noi è la nostra sconfinata voglia di arrivare in dei luoghi che ancora non abbiamo esplorato. Abbiamo avuto una grande fortuna con Favolacce e quindi l’ipotesi di bissare il film con qualcosa di simile c’è stata, non solo da parte nostra, ma noi per nostra natura amiamo l’incertezza. Possiamo dire che rispetto agli altri due film è un film legato al tema dell’amore in maniera estremamente netta e questo ci entusiasma tanto perché comunque a 32 anni questo sentimento diventa un po’ il principale referente di ogni giornata.
Damiano – Tu hai detto che è una storia d’amore io dico che come tutte le storie d’amore è quindi ovviamente un thriller. Non so se sarà l’ultimo film che ci faranno fare, è la scelta meno comoda che potevamo fare, forse l’abbiamo fatta anche per questo motivo. Veniamo da un pomeriggio passato assieme con le penne in mano a sistemare delle parti della sceneggiatura quindi è il momento più bello, quello in cui le cose non sono ancora iniziate e quindi non è ancora pressante l’ansia da prestazione sul set con la scena che viene o non viene ed è il momento in cui un po’ si sogna cosa potrebbe essere, come in tutte le cose come in una storia d’amore o in una storia d’amicizia, quello che può essere è il motore col quale scatta qualsiasi tentativo di approccio o
di sogno, speriamo che non diventi prestissimo un incubo. Sicuramente  abbiamo fatto tutto quello che viene consigliato di non fare a un
regista per il terzo film.

ⓢ Come fate a scrivere a quattro mani? Intendo proprio a livello pratico.
Damiano — Sulla poesia uno anticipa l’altro, a
volte capita che io scriva una poesia su un paio
di ciabatte e mio fratello
che le ha viste assieme
a me l’avrebbe scritta
magari dopo due giorni
quella poesia su quelle
stesse ciabatte, quindi
si gioca d’anticipo come
con la fotografia. Quando siamo per la strada
vediamo esattamente
la stessa cosa, e molto
spesso mio fratello è
più veloce a estrarre la
macchina fotografica. Per quando riguarda la sceneggiatura è un processo di cui non si vede la resa sullo schermo perché purtroppo non ci sono i libri con le sceneggiature, però noi ci parliamo tanto, banalmente ci raccontiamo l’anatomia di una scena, la struttura ossea di una scena, e poi ci mettiamo ognuno col proprio quaderno e ognuno scrive la propria versione, poi uno passa il quaderno all’altro e viceversa, io leggo la sua e lui legge la mia, e da lì si parte, magari da un punto di convergenza o divergenza, è un modo di scrivere molto liquido, ci diverte molto, poi non so se sia molto professionale. Però è il modo in cui scriviamo le nostre storie da quando abbiamo 16 anni. Quindi da parecchio tempo. Da 16 anni esatti, in effetti.