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A che serve oggi un intellettuale?

Tra tutte le figure fondamentali del '900, non ce n'è un'altra che abbia perso altrettanta credibilità e rilevanza. Tanto che viene da chiedersi se ne esistano ancora e che senso possano avere.

di Giancarlo Liviano D'arcangelo

Ogni volta che nel mondo accade un avvenimento drammatico che colpisce emotivamente la collettività, o quando appare in definizione qualche processo storico che può potenzialmente peggiorare il mondo, non manca mai chi chiama in causa la scomparsa degli intellettuali nel dibattito pubblico, come sintomo evidente dell’incurabile malattia contemporanea. Di solito tale denuncia si manifesta sottoforma di accusa. Gli “intellettuali”, definiti genericamente, sono descritti come incapaci di rapportarsi alla complessità del mondo grande e terribile del terzo millennio, e tenderebbero dunque a chiudersi nella cosiddetta “torre d’avorio” (ormai più tra pareti di cemento armato in periferia) e a far mancare la propria voce in passato importantissima e ascoltata.

Ma è davvero così in un momento storico in cui, anzi, esprimersi attraverso una categoria anni fa desueta come “l’impegno” è una pratica prepotentemente tornata di moda in seguito all’esplosione mediatica della cultura woke? Serve provare a fare ordine, iniziando a definire meglio cosa s’intende per “intellettuale”. Se a definire l’intellettuale che vorremmo è la sua assenza nell’attuale scenario, allora la tipologia evocata come farmaco fantasmatico non può essere che quella ideale dell’illuminista super partes, donna o uomo che, dall’alto della sua saggezza e autorevolezza entra nell’arena in cui operano gli altri opinion maker tipici di una struttura democratica (istituzioni, politica, magistratura, media), e offre prospettive d’analisi sulla realtà del tutto libere e originali, più consapevoli, più ragionate, e soprattutto, meno legate a interessi particolari di clan.

In Italia – è fin troppo facile chiamarlo in causa – l’ultima figura portatrice di una così vibrante forza morale, e della capacità di incanalare il proprio libero pensiero attraverso i canali ufficiali come la grande editoria, i giornaloni e le televisioni nazionali (pagandone anche le conseguenze), è stata, con pregi e difetti, quella di Pier Paolo Pasolini, già precursore di un modo di comunicare contemporaneo, poiché realmente vittima di discriminazioni per la propria omosessualità.

A testimonianza di ciò, dalla sua morte in poi e Pasolini è stato tirato per il collo della camicia da chiunque, all’occorrenza da destra e sinistra, da progressisti e conservatori. Ancora oggi è oggetto di meme e reel Instagram sotto l’etichetta del profeta, ma un Pasolini contemporaneo, vivo e attivo, quello degli Scritti Corsari, o della critica alla società del consumo come nuovo fascismo troverebbe posto nel nostro presente? E soprattutto, potrebbe avere l’identica cassa di risonanza? La risposta è no. Non è più possibile. Bisogna farsene una ragione. L’intellettuale che s’innalza a portavoce della complessità dobbiamo dimenticarcelo. È destinato all’oltretomba.

Non è possibile nemmeno tenerlo in una riserva naturale come specie in via d’estinzione, perché al sistema produttivo una tipologia d’intellettuale del genere non serve più; e se i Pasolini del mondo, seppure come paria (paria intesi alla maniera di Anna Arendt e cioè col significato di individui intellettualmente sovversivi) erano riusciti a ritagliarsi il loro spazio pubblico nel dopoguerra e nel tardo Novecento, ora tutto è cambiato. Come mai è diventato impossibile sostenere e soprattutto diffondere posizioni scomode e complesse, che riescano a distanziarsi e a mettere in crisi le versioni prefabbricate e polarizzate che s’impongono come punti cardinali dell’agenda setting? Perché non è possibile arginarle a mo’ di diga ma solo navigarle seguendo il flusso di corrente?

Da un lato, è risaputo, conta il fattore tecnologico: l’attuale tecnologia di comunicazione primaria e globale, lo smartphone, sulla spinta delle Big della Silicon Valley è diventata una nuova forma di esistenza. Lo spiega molto bene Byung – Chul Han nel suo La crisi della narrazione (Einaudi, 2024): il villaggio globale ha reso obsolete le grandi narrazioni dotate di senso del tardo Novecento – troppo limitate per spiegare le contraddizioni del mondo divenuto decisamente obeso per poter essere inquadrato in modo coerente e sistematico – e ha imposto un nuovo modello basato su alcune parole chiave: immediatezza, scambio e identità.

L’immediatezza per cominciare. Per osmosi con le tendenze economiche, anche sul piano del consumo di contenuti la filosofia del nuovo modello culturale è l’eliminazione degli intermediari. Gli eventi si commentano direttamente sui social in tempo reale e a un ritmo forsennato. In passato era proprio l’intellettuale ad arrogarsi il ruolo di grande mediatore, elaborando visioni di mondo complessive e punti di vista originali, costruendo collegamenti interdisciplinari e mettendo in crisi ogni approccio stereotipato. Ora il mediatore non serve più. Non è un caso, infatti, come spiega citando il New York Times Anna Kornbluh, studiosa e docente dell’università di Chicago nel suo recente saggio Immediacy, or The Style of Too Late Capitalism, che negli ultimi anni i libri di memorie o i saggi personali abbiano aumentato il loro volume di vendita del 400 per cento nel mercato editoriale. L’istantaneità dei processi comunicativi impedisce l’approfondimento e il ragionamento ad ampio raggio: sono troppo lenti, troppo carichi di informazioni da leggere e codificare. Cambia del tutto l’epistemologia: l’esperienza diretta, il racconto di sé stessi, forme di immediacy alternative, si sostituiscono alla narrazione collettiva come principio ordinatore dello scibile.

Chi resta indietro a bassa velocità è perduto, scompare nell’oblio. All’intellettuale non è impedito esprimersi con la censura come avveniva in passato, semplicemente il suo tipo di approccio genera un perenne ritardo, e quindi l’oblio. Per il grande flusso servono informazioni semplici, nette, accumulabili. Scambiare le informazioni e accumularle è molto più importante che ordinarle e organizzarle: è lo scambio stesso la finalità del sistema, non la comprensione verticale dei fenomeni. Scambiare un numero infinito di brevi monologhi, non confrontarsi in lunghi dialoghi, per arrivare ad atomizzare talmente le informazioni e a relativizzare così all’estremo i punti di vista da creare un incolmabile vuoto per troppo pieno.

Proprio come reazione a questo vuoto, e come risposta alla necessità collettiva di trovare comunque un orientamento identitario, trovano facile adesione e immediati consensi un vasto numero di storytelling perfetti come oggetti di consumo: nazionalismi, populismi di destra e di sinistra, o la tendenza modaiola ad approcciarsi alla realtà sempre più complessa e interconnessa attraverso categorie di segmentazione sempre più parziali come genere, razza, orientamento sessuale e così via. Al supermercato dell’identità ognuno può trovare la propria, granitica, impermeabile, e porsi in dialettica con il mondo esterno attraverso di essa, rifiutando ogni minaccia di contaminazione, che anzi va scacciata con tutta la violenza possibile. In un ambiente impermeabile al dialogo e all’alterità, il vecchio intellettuale novecentesco non serve a molto. Nella nuova situazione servono soprattutto venditori, ovvero testimonial. I testimonials possiedono l’immediatezza del claim pubblicitario, favoriscono il consumo e quindi lo scambio delle merci, e altro non fanno che sponsorizzare e raccontare l’identità di un brand.

Giornalisti/e, scrittori e scrittrici, registi/e, reporter, funzionari/e, cuochi/e, professori/esse universitari/e, opinionisti/e, sportivi/e di successo, attrici e attori, influencer di moda o di make-up, parrucchieri/e, critici e critiche d’arte, comici e comiche, motivatori/e, magistrati/e, politici e politiche, pregiudicati, conduttori televisivi e radiofonici, ex partecipanti al Grande Fratello, vittime di soprusi, discriminati o persone con patologie, cantanti o immunologi e immunologhe: tutti possono diventare testimonial più o meno efficaci nel grande ipermercato dell’impegno, a patto di oliare gli ingranaggi della macchina, mai di ostacolarli.

Un bravo testimonial lascia immaginare cosa dirà prima ancora di parlare: il suo vero talento è quello di aiutare il prodotto a vendere meglio, per aumentare, di conseguenza, il proprio valore sul mercato delle opinioni. E se talvolta si generano paradossali effetti comici, poco male: cuochi che parlano di guerra e geopolitica e scrittori che dissertano sul televoto a Sanremo, o sull’ultima notizia di gossip. In fin dei conti, nel mondo senza intellettuali resta solo lo spettacolo: e non esiste pubblicità negativa, lo diceva anche Andy Warhol.