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Il primo libro di architettura

Nascere imparati: "Il primo libro di architettura" e altri libri che non ti fanno venire i complessi

24 Febbraio 2012

Ho iniziato ad appassionarmi di architettura e urbanistica diversi anni fa per il fastidio provocatomi dalla bandella di un thriller letterario. Il redattore scriveva più o meno: “Ambientato in quella che potrebbe essere una qualunque metropoli contemporanea”. Ricordo il mio moto di rabbia e allo stesso tempo il senso di colpa: quel redattore stava costringendo noi lettori all’appiattimento convincendoci dell’esistenza di due o più metropoli uguali fra loro soltanto perché magari l’autore non era stato bravo a descrivere la sua personale idiosincratica metropoli; perché sì, le metropoli avranno tante cose in comune, ma uno scrittore forse dovrebbe partire dalle differenze; e il senso di colpa era terribile perché sapevo che quell’autore sciatto in fondo ero io, che non sapevo assolutamente come distinguere una metropoli dall’altra e non sapevo se Roma, la mia città, lo fosse o meno, e come andasse davvero raccontata.

Comprai  Roma moderna di Italo Insolera, che racconta le ondate per lo più abusive ma irresistibili della modernizzazione di Roma dopo l’unità d’Italia e l’elezione a capitale.

Di seguito, esaltato dai frutti immediati che conoscere l’adolescenza disordinata della mia Roma capitale mi aveva portato, cominciai a spendere soldi in libri di architettura e urbanistica sempre più voluminosi e cari. Ma la passione per l’architettura è stata come quella per il calcio: in realtà non ci capisco niente. Ci perdo molto tempo, imparo i nomi, però non ci capisco niente.

Ora però ho trovato un libro che finalmente tiene conto della mia ignoranza e ottusità: si chiama opportunamente Il primo libro di architettura e il suo autore è Colin Davies, professore di Teoria architettonica alla London Metropolitan University. Il libro funziona un po’ come un grande classico per ignoranti che qualche anno fa mi cambiò la vita: La storia dell’arte di Ernst Gombrich. Ti permette per una volta di rilassarti in un contesto culturale di cui non capisci niente, e ti dà la sensazione di esser diventato amico della persona giusta che ti farà passare i complessi e la paranoia e ti farà finalmente intuire qualcosa di come le persone addentro godono di una disciplina che non vogliono assolutamente farti scoprire, e per questo te ne hanno sempre parlato in quel certo modo incomprensibile.

Il livello di pazienza di Davies per la mia ignoranza si spinge fino a qui: “Che cos’è l’architettura? … Il dizionario ci dice che il termine significa ‘progettazione di edifici’. Ma questa definizione comprende tutti gli edifici, o solo alcuni? Lo storico dell’architettura del XX secolo Nikolaus Pevsner pronunciò una celebre frase quando disse che la cattedrale di Lincoln era un’opera architettonica, ma una rimessa per le biciclette solo un edificio. Per lui un edificio doveva essere concepito ‘in vista di un effetto estetico’ prima di poter essere chiamato architettura. Quelli di noi dotati di una mentalità progressista forse vorrebbero abolire questa distinzione di classe e allargare il concetto… Certamente anche una rimessa per le biciclette può essere bella. D’altro canto, se tutti gli edifici sono architettura, la parola cessa di avere significato. Tanto varrebbe parlare di edifici”.

Evidentemente Davies è uno a cui posso confessare tutta la mia ignoranza e lasciarmi finalmente amare.

Nel capitolo “Rappresentazione” si parla del rapporto fra architettura e pittura. La pittura sembra votata alla rappresentazione molto più dell’architettura, se non altro perché non pare avere alcuna utilità pratica. “Per la stessa ragione, l’architettura, poiché ha un’ovvia funzione pratica, dev’essere sollevata da quella della rappresentazione”. Ma “quando diciamo che una colonna classica – o qualsiasi colonna – rappresenta una figura umana [che sostiene il cielo-soffitto] stiamo sottolineando un elemento fondamentale nella natura dell’architettura”.

Sull’architettura come linguaggio: “I gradini di una scala non somigliano affatto a piedi umani, ma alzata e pedata hanno le dimensioni di piedi umani e si adattano alle capacità fisiche umane. Dunque assomigliano all’attività del camminare o la raffigurano. In altre parole, la indicano in modo iconico”. Prende così in considerazione la rampa di scale michelangiolesca della Biblioteca Laurenziana di Firenze. “Cosa significa questa gerarchia di maggiore e minore, curvo e dritto? Forse corrisponde a una gerarchia sociale. Immaginate un membro della famiglia de’ Medici che incede sulla rampa principale mentre i suoi assistenti prendono quelle secondarie, attendendo pazienti su entrambi i lati del pianerottoli prima di entrare in biblioteca dopo di lui”. D’altra parte, la scala “indica con sufficiente chiarezza la sua funzione ma ha una miriade di altre connotazioni. Sembra che ruzzoli dalla porta della biblioteca come una cascata in una caverna”.

Essendo cresciuto nel regno di terrore culturale che è l’Italia, dove o nasci imparato o sei un ignorante, e a ogni domanda semplice che ti chiarirebbe una questione chiunque ti guarderà sempre come fossi un idiota, il pragmatismo culturale degli anglosassoni, vissuto certo sempre come roba di contrabbando da compulsare di nascosto e non dire a nessuno, mi fa sempre svoltare.

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