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Il campione riluttante

Open, l'autobiografia di Agassi di cui tanto si parla, è uscita in Italia nella primavera del 2011. Ci piacque molto: ecco come la raccontammo.

01 Ottobre 2012

Se esistesse una formula algebrica per spiegare il successo, nello sport come in qualsiasi campo dello scibile, la costante dell’equazione a cui sommare le altre variabili, il 3,14 del destino, si potrebbe individuare nella presenza di un genitore particolarmente dispotico, probabilmente frustrato, terribilmente deciso a investire tutte le sue energie – psichiche, fisiche, monetarie – nell’educazione, ma meglio usare la parola condizionamento, della vittima predestinata: il suo povero figlio. Tuttavia la presenza di questo p greco edipico, per quanto si direbbe necessaria, non è da sola condizione sufficiente. Ci sono altre variabili che entrano in gioco, fattori sfuggenti e di più difficile definizione, x e y di misteriosa collocazione che ci fanno saltare da Freud a Jung, per finire tra i genetic studies e la volontà di Dio. Incognite che iscrivono la domanda cosa fa di noi quello che siamo? nel novero delle grandi questioni destinate a rimanere senza risposta. Per non parlare dell’insidioso corollario: e quello che abbiamo voluto essere è effettivamente ciò che siamo?

Domande che galleggiano come boe inaffondabili fin dalle prime pagine di Open, l’autobiografia di Andre Agassi tradotta e pubblicata da Einaudi Stile Libero nella primavera del 2011, dove già dal prologo, che racconta il penultimo incontro della carriera del tennista, l’ultima vittoria (Us Open 2006, contro Baghdatis), scopriamo che Agassi, personaggio globale tra i più grandi sportivi professionisti di sempre, è stato un uomo dilaniato dal dubbio e dal dolore (fisico e mentale). La sua voce, che da subito racconta di vertebre a pezzi, articolazioni bloccate, infiltrazioni di cortisone, e allo stesso tempo di un rifiuto viscerale per il gioco del tennis che si scontra con l’impossibilità di smettere, coglie il lettore di sorpresa.

Da un punto di vista narrativo, è una scelta molto azzeccata: iniziare con un colpo di scena, considerando che per la quasi totalità dei lettori il romanzo Agassi è cominciato da anni, guardando le finali slam che ha vinto o perso e spiando la sua vita fuori dal campo (Barbra Streisand, Brooke Shields, Steffi Graf), serve a rovesciare l’idea di superficie che il pubblico ha assorbito dopo l’esposizione prolungata, e a stabilire da subito che l’autobiografia di un campione dello sport può anche non essere una cavalcata delle valchirie. Ma, soprattutto, attribuisce alla confessione una dimensione di inattesa profondità che accompagnerà il lettore fino all’ultima pagina, la dimensione delle grandi questioni senza risposta che il nostro tormentato campione, filosofo primordiale, dissemina nella ricostruzione dei suoi primi quarant’anni – Ho avuto successo, ma ne è valsa la pena? Ho avuto successo perché sono un predestinato? Avrei avuto lo stesso successo se non avessi avuto questa mostruosa capacità di sopportare il dolore, questa capacità di risorgere dopo ogni crollo? – altre domande che, pur rimanendo senza risposta, ha senso formulare se si attribuisce un valore vitale alla ricerca della consapevolezza, un’attitudine verso cui Agassi si dimostra particolarmente interessato.

Poche pagine dopo l’ultima vittoria, il campione sul viale del tramonto si trasforma in un bambino di sette anni. Confinato nel cortile di casa, è costretto da suo padre a combattere colpo su colpo con una macchina sputapalle dall’alto valore pedagogico che il ragazzino chiama «il drago» – la voce esausta racconta di lotte solitarie nel caldo incandescente del deserto del Nevada, interi pomeriggi, settimane, mesi a rispondere, palla dopo palla – macchina che è dichiaratamente un surrogato metallizzato di questo padre aguzzino. Ma il quadro si arricchisce presto di un altro tassello: Andre è l’ultimo di tre figli. Prima di lui, un fratello e una sorella più grandi hanno subito lo stesso trattamento con risultati assai mediocri. Il padre, un ex pugile iraniano diventato direttore di sala di uno dei più noti casinò di Las Vegas (l’mgm) – un tipico profilo da self made immigrant – ha usato lo stesso metodo con tutti i suoi discendenti, lo stesso concentrato di angherie, ordini, disciplina militare.

Eppure solo Andre, sin dalla più tenera età – la voce esausta racconta di quando a tre anni una racchetta di ping pong gli fu legata al braccio col nastro adesivo – avrebbe dimostrato di possedere la giusta combinazione di variabili; lui e non i suoi fratelli aveva in sé le misteriose x e y, che combinate alla costante edipica, lo avrebbero trasformato in Agassi, uno dei più grandi tennisti di sempre, vincitore di slam e di incontri scolpiti nella storia, ma anche iniziatore di mode, fenomeno della cultura pop. Chi ha avuto ragione dunque? – è l’ennesima domanda che esce fuori – il padre con il suo molto discutibile metodo? Tutta la sofferenza di Agassi (per le sconfitte, per gli infortuni, per una vita che non gli piace) consiglierebbe di rispondere negativamente. Tutta la gioia di Agassi (per un dritto perfetto, per una finale vinta della Slam, per il pubblico che lo ama, per la montagna di soldi che ha guadagnato) farebbe dire invece di sì. In altre parole, il neo-genitore ambizioso in cerca di indicazioni per indirizzare la propria prole verso un futuro di successi assicurati, eviti di finire da queste parti. E se inavvertitamente dovesse capitarci, probabile che ci penserà su parecchio prima di educare la propria prole con il mantra di Agassi padre: Tu sarai il numero uno. Oppure – domanda – è saggio accettare la sofferenza come componente inestirpabile della parabola umana, e quindi è meglio abituare i nostri pargoli a soffrire sin dal momento in cui imparano a camminare?

Ora è arrivato il momento, ma forse è già troppo tardi, che io confessi la mia parzialità. Andre Agassi, prima dei cantanti suicidi e dei compositori da cameretta, molto prima degli scrittori psichedelici, è stato uno dei miei miti giovanili. Alla fine degli anni Ottanta, poco più che decenne, sono stato testimone di quel momento di grande esplosione democratica del tennis, gli anni dei piatti allargati e dei rovesci a due mani, gli anni di Lendl e Wilander, di Becker e Chang, e delle scuole fit che spuntavano come funghi, e degli integratori di sali minerali gusto arancia o limone. Gli anni di Agassi, che sarebbero stati per noi, preadolescenti programmati per testare i nuovi sviluppi del capitalismo, soprattutto gli anni dei pantaloncini jeans di Agassi, o come li definisce lui stesso i «pantaloncini di denim» col baffo della Nike, che il nostro scelse dopo che McEnroe rifiutò sdegnato l’offerta della casa produttrice. Agassi con i suoi orecchini, le sue bandane e i capelli con i colpi di sole, corti avanti e lunghissimi dietro, Agassi che, anche se poteva sembrare un punk, era un ragazzetto di Las Vegas che ascoltava il pop melenso di Richard Marx.

Giocavo a tennis indossando anch’io quei pantaloni jeans, ma non potevo sapere che mentre cercavo di imitare il mio idolo, ed era molto più facile accontentarsi di raggiungere l’obiettivo dal punto di vista estetico, visto che quello sportivo non era alla mia portata, l’idolo, che pure aveva fatto della sua immagine un segno distintivo, che sulla sua immagine di rottura rispetto al conservatorismo tennistico aveva costruito parte della sua fortuna mediatica, cercava con tutte le forze di liberarsi da quell’immagine. Una tipica avventatezza di gioventù gli avrebbe fatto accettare a cuor leggero la proposta della Canon di fare il testimonial per una campagna pubblicitaria, il cui slogan – l’immagine è tutto – si sarebbe impresso come un marchio d’infamia, o almeno così lo avrebbe vissuto il nostro, sulla sua, fino a quel momento altalenante, carriera sportiva.

In questo punto del libro si entra nel campo minato dei rapporti tra personaggio non più persona e società dello spettacolo che tenta di cannibalizzarlo. Con il giovane Agassi che, dopo avere attraversato le forche caudine dell’educazione paterna e una non meno marziale adolescenza curata dall’orco Nick Bollettieri, si ritrova da solo con la sua immagine, solo con il suo abbigliamento eccessivo e i suoi capelli parzialmente veri, solo di fronte a un’impressionante sequenza di sconfitte cocenti, completamente solo di fronte a un’altra domanda ancora: Cosa ci faccio qui?, con la voce esausta che racconta: «Quando le folle fischiano, quando gridano: L’immagine è tutto, rispondo gridando: Non voglio essere qui più di quanto mi ci volete voi!».

Se non fosse per le amicizie e gli amori, che comunque sono fonte assicurata di altre fregature, sembrerebbe una vita impossibile. E lo è. E non c’è via d’uscita perché le domande non hanno risposta e quindi non si può smettere di giocare. Si può soltanto cambiare e continuare, «sentire e non pensare». E in tutto questo è veramente difficile capire se Agassi ci è o ci fa perché la automatismo con cui nella pratica accetta il suo destino fa continuamente a pugni con il dubbio profondo che ispira tutte le sue riflessioni.

Poi l’ennesima risurrezione, una delle più decisive. Ha qualcosa di letterario e di imbarazzante insieme. Se non avessimo già conosciuto Agassi, penseremmo che solo un uomo molto frivolo può attribuire un così alto valore simbolico alla decisione di abbandonare i suoi parrucchini, dopo aver corso il rischio di perderne uno durante un incontro, e di rasarsi a zero.

È per cose come queste, svolte umane e allegoriche, salite e discese ordinate in un precisissimo meccanismo drammaturgico, che leggendo Open ho perso spesso il contatto con la sua natura di autobiografia. Per molta parte del tempo, l’ho letto, invece, come fosse stato un romanzo. E l’ho interpretato come un esperimento letterario, una forma di autofiction alla rovescia. (Laddove il romanziere si autoproclama personaggio del racconto, qui il racconto di una vita viene strutturato come un romanzo).

L’effetto è senz’altro legato al lavoro di montaggio del premio Pulitzer J. R. Moehringer del cui aiuto Agassi si è avvalso nella lavorazione. Collaborazione che ha fatto storcere il naso ai puristi, che hanno opposto argomentazioni banali del tutto fuori bersaglio. Perché il punto, l’etica di una narrazione autobiografica, non risiede tanto nella fedeltà alla successione dei fatti o nella autenticità della costruzione formale, ma nel grado di profondità concesso al lettore. L’autobiografia come immersione negli abissi dell’esperienza umana, la memoria individuale che genera immedesimazione, non può che avvalersi del romanzesco in quanto tecnica. Solo così le domande senza risposta di Agassi diventano anche le nostre domande.

(Foto Getty Images)

Dal numero 3 di Studio

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