Cultura | Libri
I libri del mese
Cosa abbiamo letto a maggio in redazione.

Mary MacLane, L’attesa del diavolo (Ago Edizioni)
Traduzione di Sofia Artuso
«Io, nata di genere femminile diciannove anni fa, inizierò ora a tracciare un Ritratto quanto più completo e sincero possibile di me stessa, Mary MacLane, che al mondo non ha simili»: comincia così L’attesa del diavolo, un libro uscito nel 1901 che oltre ad avere un titolo meraviglioso (ai tempi censurato: venne pubblicato con il titolo The Story of Mary MacLane) è scritto come un diario ma non è un diario (e neanche un romanzo, un trattato filosofico, un poema o un manifesto, come spiega Sofia Artuso, che l’ha tradotto, nella sua bella postfazione). «Possiedo una mente aperta. Sono un genio», scrive l’autrice di 19 anni in quello che diventerà un bestseller istantaneo. Un autoritratto in cui parla di narcisismo, egoismo, soldi, donne (è apertamente bisessuale) e del desiderio di diventare famosa («Vorrei ottenere quella cosa così bella, amabile, dolce e appagante che risponde al nome di Fama. La voglio, oh quanto la voglio!»), descrive i suoi oggetti preferiti («In uno dei cassetti del mio scrittoio conservo diciassette piccoli ritratti incisi di Napoleone»), immagina di parlare con il diavolo (s’inventa una preghiera, eccone un verso: «Da un uomo ordinario, dai malanni allo stomaco, da quegli agli occhi e ai piedi: Nobile Diavolo, liberami»), condivide l’entusiasmo per il suo corpo («Ho dei capelli bellissimi»), dice che odia essere chiamata “Signorina”. Se fosse esistita oggi, Mary MacLane sarebbe una tiktoker geniale. Nel libro c’è anche un momento “what I eat in a day” («Ogni mattina, assai affamata alla fine della mia passeggiata, mangio tre uova sode sgusciate per colazione») e diversi “fit check” («Sul davanti della mia camicetta abbottonata ci sono nove fazzoletti di cambrì distribuiti con astuzia»). Nel 1917 scrive e recita in un film di 90 minuti intitolato Men Who Have Made Love to Me in cui interpreta se stessa e si rivolge direttamente al pubblico rompendo la quarta parete (se quel film fosse ancora oggi visibile – purtroppo è andato perduto – potremmo dire che Phoebe Waller-Bridge l’ha copiato per fare Fleabag). «Mi piace essere ammirata. Appaga la mia vanità. Quando leggerete questo Ritratto mi ammirerete. Lo farete di sicuro». Proprio così. (Clara Mazzoleni)

Jacopo Iannuzzi, White People Rape Dogs (Einaudi Stile Libero)
I libri non scandalizzano più nessuno, diciamo la verità. E neanche i cosiddetti libri giovanili, la cui funzione scandalizzatrice dovrebbe essere scontata, o almeno lo è stata per molto tempo. Se White People Rape Dogs fosse uscito ancora dieci o quindici anni fa, probabilmente se ne sarebbe parlato come il ritratto di una generazione allo sbando, con pezzi di taglio sociologico che avrebbero cercato di indagare il disorientamento e la perdita di valori dei più giovani, ma così non è stato, anzi il libro è passato fino a questo momento abbastanza sotto silenzio nonostante qualche lancio roboante abbia cercato di venderlo come una specie di nuovo Ellis o nuovissimo Cannibale. Ma forse non era neanche questa l’ambizione del breve romanzo di Jacopo Iannuzzi, che ho iniziato a leggere con qualche pregiudizio, e che invece mi ha colpito e rapito per una cinquantina di pagine luminose, nel vero senso del termine, perché piene di descrizioni di visioni drogate, allucinate, e quindi di luci fluorescenti e atmosfere fluttuanti. Non che non ci fossero illustri precedenti (Burroughs, Hubert Selby Jr) ma io vi ho trovato dei mondi relativamente nuovi, e dei modi nuovi di mettere le parole una dietro l’altra, con l’occulta regia, credo abbastanza dichiarata, almeno nel ritmo, dei libertini di Tondelli. Il problema (e la relativa delusione) è che un libro che funziona a metà: nell’indecisione tra continuare a scrivere del nulla e quella di far succedere qualcosa, Iannuzzi opta per la seconda strada e il libro diventa meno bello e meno originale di quello che poteva essere e si perde un po’ nell’invenzione di una trama poco attinente al tono generale del libro, che invece aveva la potenzialità di riuscire ai spiegare una generazione senza spiegarla, nella migliore tradizione dei romanzi di questo genere. (Cristiano de Majo)
Dimosthenis Papamarkos, Ghiak (Crocetti)
Traduzione di Valentina Gilardi
Che piacere leggere un libro così disturbante. Ghiak mi ha tenuto attaccato alle sue centodieci pagine fin dalla copertina, questa treccia di capelli lunghi e castani e brillanti su uno sfondo rosso sangue. E poi subito con il primo racconto, in cui compare proprio quella treccia: appartiene a Sirmo, la sorella del protagonista, che viene violentata e uccisa per nessun motivo da un suo compagno di paese. Finirà con una vendetta cruentissima, da parte del fratello offeso, con la soddisfazione del sangue versato per ristabilire la parità e la giustizia. Sono, questi, tutti racconti violenti, truci, pieni di sangue e di dilemmi etici. Sono ambientati negli anni successivi alla Guerra greco-turca del 1919-1922 nella comunità arvanitica (quindi di origine albanese) in Grecia. L’onore e la vendetta sono stati per secoli concetti fondamentali per le società umane, prima che venissero messi – giustamente – alla periferia del nostro spettro etico. Ma sono importanti da affrontare ed esplorare ancora, e questo libro lo fa senza paura. Papamarkos è capace di inventarsi protagonisti teneri e truculenti, con cui empatizzare e poi capaci, dopo una pagina, delle peggiori atrocità. Un bel dilemma, e una letteratura che funziona al suo meglio. Sono pagine in cui non ci si sente mai al sicuro: l’esplorazione di questa violenza non è soltanto una discesa nella parte peggiore del consesso umano, ma un viaggio nella nostra natura più profonda. (Davide Coppo)

Michel Houellebecq, H. P. Lovecraft. Contro il mondo, contro la vita (Wudz Edizioni)
Traduzione di Damiano Scaramella
H.P. Lovecraft. Contro il mondo, contro la vita è stato il primo saggio scritto da Houellebecq: pubblicato per la prima volta in Francia nel 1991, in Italia lo portò Mondadori nel 2001 e adesso, di nuovo, Wudz (che ha giustamente mantenuto intatta la splendida prefazione scritta da Stephen King). Già all’epoca della prima pubblicazione non c’era niente di nuovo da dire sulla vita né sulla letteratura di Lovecraft, e Houellebecq in questo libricino non aveva alcuna pretesa filologica. Cita quello che tutti gli appassionati del solitario di Providence hanno letto più e più volte: i cosiddetti Grandi Testi, le lunghissime lettere – alcune arrivavano a 40 pagine – che inviava agli scrittori che al suo talento di editor si affidavano, le imbarazzate e pudiche confessioni d’amore riservate alla donna, Sonia Greene, che quasi lo salvò dalla sua misantropia. L’unicità di questo saggetto di Houellebecq sta nell’efficacia con la quale restituisce la miseria, lo squallore, la disperazione nelle quali Lovecraft sprofondò nell’ultima parte della sua vita, orrori di cui il mito di Cthulhu è sia allegoria che – incredibilmente – approssimazione al ribasso. Houellebecq racconta come il mito sia iniziato quando Lovecraft fu costretto a vendere i mobili del suo appartamento newyorchese: la città non gli aveva offerto nessun altro modo di guadagnarsi da vivere. A un certo punto il saggio diventa quasi una biografia romanzata, con Houellebecq che abbandona qualsiasi posa critica (posa nella quale invece eccelle nella prima metà del libro, quella in cui da scrittore realista si autodistrugge dimostrando la superiorità del romanzo fantastico, quella in cui spiega che il vero “autore del razzismo” è Lovecraft e non Celine) e inizia a raccontare tutte le umiliazioni che Lovecraft dovette sopportare prima di potersi finalmente liberare del mondo e della vita: la povertà, il divorzio, l’isolamento. Fino alla straziante morte in ospedale, giorni in cui finalmente Lovecraft recuperò la compostezza piccolo borghese che aveva sempre coltivato come valore fondamentale, morendo in perfetta solitudine e silenzio per un cancro allo stomaco che, chissà, forse fu la punizione per le viscere che gli si torcevano di entusiasmo leggendo delle nefandezze del Terzo Reich tedesco. Con una maestria impareggiabile, Houellebecq lega la fine dell’autore con l’inizio del suo mito, mostrificando definitivamente Lovecraft grazie a una brillantissima sovrapposizione con il mostro che lo ha reso immortale, Chthulu: «Non è morto ciò che può attendere in eterno, e col volgere di strani eoni anche la morte può morire», appunto. (Francesco Gerardi)

Neige Sinno, Triste tigre (Neri Pozza)
Traduzione di Luciana Cisbani
Esistono degli abissi, nella vita di ciascuno, che rimangono segreti, in cui molto spesso si preferisce non entrare. In questo abisso, in questo “altro mondo”, invece Neige Sinno decide di affacciarsi, provando a non cadere mai, scrivendo Triste tigre, edito in Italia per Neri Pozza. Caso letterario soprattutto in Francia, vincitore del Premio Strega Europeo di quest’anno, il memoir racconta la sua esperienza di violenza, di stupro, perpetrato per anni dal secondo marito della madre. Il modo con cui sceglie di parlarne è inaspettatamente asettico, con rimandi e citazioni letterarie, con richiami ad esperienze simili, di altri casi di cronaca e di altre autrici vittime di violenze. Ecco: vittime. È questo termine che Sinno decide molto spesso di rifuggire – un po’ come la stessa Susan Sontag – ed è per questo che in moltissimi punti di questo libro si legge quello che potrebbe essere il punto di vista dell’aggressore, del carnefice, della tigre che poi non può che essere, anch’essa, triste. Triste tigre riesce a essere quasi una confessione senza pudori ma, allo stesso tempo, quasi senza emotività. Sinno mette in fila fatti, atti giudiziari, articoli di giornale, vita passata di lei bambina e vita più recente di lei adulta e la mischia all’orrore, alla crudeltà con un punto di vista quasi anatomopatologico. Chi dà dolore vive dolore, chi lo riceve anche, ma Sinno non vuole essere l’elemento passivo di questo racconto e in un esercizio che spesso sembra una autoanalisi (fatta da una che in terapia non ha mai scelto di andare), un soliloquio, ritrova sé stessa, costretta a sopravvivere come chi ha conosciuto “l’altro mondo”, ma comunque viva, forte. Tigre anch’essa. (Teresa Bellemo)

Eugen Fink, Moda, Un gioco seduttivo (Einaudi)
Traduzione di Giovanni Matteucci, traduzione di Vincenzo Santarcangelo
La moda ha diversi complessi di inferiorità, in primis nei confronti dell’arte, della quale non condivide lo statuto di presunta intoccabilità, e quindi della filosofia, che l’ha storicamente snobbata come argomento di analisi e fattore di influenza all’interno della società. Allo stesso tempo potremmo dire che sono l’arte e la filosofia ad avere un complesso nei confronti della moda: quasi spaventate e repulse da essa, per decenni hanno evitato di renderla oggetto delle loro speculazioni, se non per alcune, lodevoli, eccezioni (si pensi a Georg Simmel). Una di queste è Eugen Fink, che nel 1969 pubblicava una serie di riflessioni con il titolo Moda – Un gioco seduttivo, in cui individuava la moda come un fenomeno-chiave dell’esperienza umana, di fatto inquadrandola nella sua più ampia riflessione teorica, di stampo fenomenologico. Come spiega nella sua bella introduzione al volume recentemente riedito da Einaudi Giovanni Matteucci, per lungo tempo l’interesse di Fink per la moda è stato considerato, sia dai colleghi che dalla critica, quasi un glitch nella sua produzione, una sorta di divertissement che la sua stessa figlia definì «una scappatella filosofica». Eppure Fink è serissimo nel suo interesse, che è genuinamente intellettuale: la moda, alla fine degli anni Sessanta, diventa a tutti gli effetti una pratica di massa e come tale viene indagata in quanto manifestazione fondamentale dell’esistenza umana. È un fenomeno chiave, appunto, uno statuto che per un pensatore come Fink è il massimo che si possa attribuire, e pur nel suo essere passeggera è sempre presente e valida come fenomeno sociale, perché ha a che fare con desideri e istinti umani che dovrebbero riguardare ogni filosofo. (Silvia Schirinzi)
