Cultura | Libri

I libri del mese

Cosa abbiamo letto ad aprile in redazione.

di Studio

Cristina Rivera Garza, L’invincibile estate di Liliana (Sur)
Traduzione di Giulia Zavagna

«Questo luglio sono in crisi. Questo luglio sono triste, è così brutto scoprire che tutte le cose finiscono, che nemmeno le cose più nostre possono essere eterne, e con questo non voglio dire che la tristezza sia una condizione sgradevole, no, credo che la mia tristezza mi stia perfino piacendo, e anche la mia solitudine… Non so cos’altro dire, ma ho tanta voglia di scrivere: scrivere quello che penso, scrivere quello che sogno, scrivere del cielo grigio e della miseria della gente… Scrivere». È difficile decidere quali siano le pagine più belle di questo bellissimo libro: se quelle tratte dai diari segreti di Liliana (la vera scrittrice della famiglia, sottolinea l’autrice: le parole di prima sono sue), riportate con un font che imita la scrittura di una ragazzina, quelle in cui Cristina Rivera Garza parla del rapporto che aveva sua sorella con la scrittura dei diari ([scritto a mano], si chiama il capitolo) o quelle in cui, dopo 30 anni di silenzio, Cristina decide di raccontare la storia di sua sorella minore, assassinata dal suo ex il 16 luglio del 1990, a Città del Messico. Liliana aveva vent’anni, studiava architettura e ormai da tempo (come testimoniano i suoi diari, che Cristina analizza insieme al lettore cercando tracce e indizi), cercava di concludere la relazione con Ángel. Quando prende finalmente una posizione definitiva, sugellata dalla decisione di trasferirsi a Londra per studiare, lui la uccide. Per tanti anni la sorella maggiore e la famiglia vivono il senso di colpa e la vergogna che spesso prova chi è vicino alla vittima di un femminicidio: avrebbero potuto fare qualcosa per evitarlo? E dopo, perché non hanno insistito per tenere aperto il caso? «La vergogna è una porta chiusa e sbarrata. Poche attività richiedono più energia, più attenzione al minimo dettaglio, che odiare sé stessi. È un compito millimetrico. Logorante. A tempo pieno», scrive Cristina. Ma forse le pagine più belle, più dolorose, sono quelle in cui Cristina e Liliana (una nel libro che leggiamo, l’altra nei suoi diari) parlano d’amore: ne ho fotografata una e l’ho pubblicata nelle storie di Instagram, mi ha sorpreso la quantità di persone che mi ha chiesto che libro fosse. Avevo anche sottolineato una frase: «L’amore è questo, inventare delle bugie e crederci fino in fondo». (Clara Mazzoleni)

Brigitte Giraud, Vivi veloce (Guanda)
Traduzione di Marcella Uberti-Bona

Quando, qualche anno fa, ho iniziato a studiare buddhismo (diversi buddhismi, a dire la verità, in modo disordinato), mi ero appassionato a tutta l’attenzione che c’è intorno al concetto di causa-effetto. È il principio alla base del – molto frainteso – karma, e da quello che mi ricordo (ho purtroppo smesso, dopo troppo poco, di studiare) si dice più o meno che tutte le miriadi di cause del nostro passato continuano a riverberare in ogni momento della nostra vita. Ci ho ripensato molto mentre leggevo Vivi veloce di Brigitte Giraud, il libro vincitore del Goncourt 2022, che è un libro, se così si può dire, che gira tutto intorno ai “se”. È un testo breve e agile, una confessione molto intima, a volte uno sfogo disperato ma non urlato, su tutti i “se”, tutti i bivi che avrebbero potuto, se mutati di un dettaglio appena, spostati di un minuto o un centimetro, evitare che il marito Claude morisse in un incidente in moto il 22 maggio 1999. Forse. Forse no. L’evento tragico ci viene presentato subito, e poi Giraud è brava a ricordare la sua – la loro – vita di allora, il rogito per una nuova casa, un mazzo di chiavi consegnato in anticipo, un viaggio a Parigi, un giorno di pioggia, una canzone troppo ascoltata, e così via. Se fosse cambiato un dettaglio, Claude sarebbe ancora vivo? È un crescendo di domande assurde a cui l’autrice non crede davvero, ma è costretta da sé a compiere lo stesso il percorso. Per darsi pace, come in un percorso magico. Per esserne davvero sicura. Per escludere il fantasma della colpa e per potersi infine dire: «Ci sono solo domande sbagliate». A differenza di quello che si dice a sproposito di molti libri, questo non è affatto un libro “necessario”. Non per noi, almeno. Sicuramente lo è stato per Giraud, è evidente. Noi, a leggerlo, ci troveremo l’ossessione del ricordo, l’impotenza di fronte alla morte, la precisione del dolore. Sembra paradossale, ma il libro emana una tristezza confortante. In questo senso sì, che riesce a essere universale. (Davide Coppo)

Ariane Chemin, Nome in codice: Elitar 1 (NR Edizioni)
Traduzione di Francesco Maselli

Abituati e anche un po’ sfiniti negli ultimi anni dal leggere libri in cui gli scrittori raccontano la propria vita, è quasi spaesante leggere invece un libro in cui la vita di uno scrittore è raccontata, ricostruita, commentata da qualcuno che non sia se stesso. L’oggetto della materia di questo piccolo volume, pubblicato da NR Edizioni e scritto dalla giornalista di Le Monde Ariane Chemin, è infatti Milan Kundera, uno dei più famosi “reclusi” della letteratura contemporanea. Non esattamente un fantasma come Thomas Pynchon, ma uno che a un certo punto (metà anni Ottanta) sceglie di eclissarsi, di non concedere più interviste, e di intervenire col contagocce sulla stampa, facendo parlare solo i suoi libri. Kundera è stato un vero fenomeno sia critico che commerciale della letteratura tra gli anni ’70 e ’90. Anche in Italia, la prima edizione originale Adelphi tonalità azzurrina dell’Insostenibile leggerezza dell’essere è uno di quegli accessori che non poteva mancare nelle case della borghesia di sinistra pre e post-Bolognina. Il successo dello scrittore ceco ha avuto molto a che fare con la crisi delle ideologie nel cosiddetto ceto medio riflessivo, forse perché affonda le sue radici, come racconta Ariane Chemin, nel rapporto conflittuale dell’autore con il comunismo, di cui è in un primo momento convinto sostenitore, poi invece vittima delusa, spiato, osservato, spinto all’esilio in Francia con sua moglie Vera, co-protagonista dell’indagine di Chemin, e fonte diretta, seppure con laconici sms, del lavoro della giornalista. Il libro porta avanti due tracce che solo a volte si sovrappongono: quella storico-politica, che similmente ad altre storie già raccontate è la triste e violenta vicenda dei regimi comunisti dell’Europa orientale, fatta di delusione, paranoia, dissidenza silenziosa, speranze di fuga. E l’altra, più intima e misteriosa, che ha a che fare con la letteratura vissuta come scelta esistenziale fino all’estrema conseguenza di sparire dal mondo. Un lavoro limpido e dotato di una “leggerezza” ammirevole, per quanto si vorrebbe saperne ancora di più. (Cristiano de Majo)

Filippo Tuena, In cerca di Pan (Nottetempo)

Non so bene perché, ma i viaggi mi hanno sempre messo ansia e tristezza. Dopo aver letto In cerca di Pan di Filippo Tuena, una spiegazione per quell’ansia e quella tristezza forse ce l’ho: perché tutti i viaggi sono in realtà tentativi di riavvolgere il nastro del tempo e tornare a epoche precedenti «all’abbassamento generalizzato del senso estetico». Tutti i viaggi sono tentativi destinati al fallimento, dunque: prima o poi a casa, al presente, a quell’abbassamento, bisogna tornare per forza. «Mi sembra che il destino dei viaggiatori sia d’essere sempre insoddisfatti e lontani dalla stanza del desiderio», spiega il protagonista di In cerca di Pan, passeggero di una crociera extralusso che inizia a Brindisi, Occidente, e finisce a Costanza, Oriente. Una crociera che, come tutti i viaggi, diventa sogno: i passeggeri a un certo punto si ritrovano a bordo un misterioso poeta-esule, una reincarnazione di Ovidio – esiliato proprio a Costanza dopo aver perso il favore di Augusto – che si offre di allietare le loro serate raccontando storie dimenticate e divinità seppellite. Mentre la nave gira attorno alla penisola ellenica e alle isole greche – Tuena si diverte a fare da guida turistica nel Parnaso, a Delfi, a Mykonos, a Delos, a Vavrona, nel Peloponneso, nel Lacedemone, nei templi di Apollo, Poseidone e Artemide – il viaggio diventa un ritorno alla memoria ancestrale. I passeggeri ascoltano il poeta, che decanta leggendo o una antichissima tavoletta di cera o un iPad ultramoderno, e attorno a loro le storie e le divinità (ri)prendono vita: un uomo viene posseduto da Pan e comincia a camminare come avesse gli zoccoli; una donna si ritira permanentemente nella jacuzzi della sua stanza, come una ninfa nello stagno; altri ricordano vite precedenti da marinai o sacerdotesse. Tuena racconta la crociera proprio come i miti: per frammenti, e tra questi ci sono sì i capitoli di un romanzo ma anche inserti poetici, fotografie di musei, incisioni di Dürer, citazioni della Tempesta, rimandi alle vite di Chatwin e Pound. Tutto contribuisce alla sensazione che presto i miti torneranno realtà e il viaggio, da momentanea, diventerà esperienza definitiva. E, proprio come nei viaggi veri, tutto finisce all’improvviso, quando la nave arriva a destinazione, a Costanza, e la realtà-presente torna nella forma di un orrendo casinò costruito «in spregio a qualunque decoro». Nonostante questo, ai passeggeri della crociera non resta che buttare soldi al casinò, tra l’ansia e la tristezza della fine del viaggio, consapevoli che tutto quello che resta alla fine dello stesso è la Terra, «un corpo celeste che ha perduto il mito che lo rendeva meraviglioso». (Francesco Gerardi)