Cultura | Libri
I libri del mese
Cosa abbiamo letto a novembre in redazione.
Foto di Junko Kimura via Getty Images
Paolo Giordano, Tasmania (Einaudi)
Un romanzo contemporaneo non è per forza un romanzo scritto nel presente, essere scritto nel presente è solo una pre-condizione, ma perché un romanzo sia davvero contemporaneo deve anche incardinarsi nel presente e avere l’ambizione di rappresentarlo sia sul piano stilistico che per la storia che racconta. In altre parole “il romanzo contemporaneo” è una categoria letteraria, oltre che dello spirito, nel cui perimetro possiamo mettere tante cose anche diverse (Michel Houellebecq ma anche Rachel Cusk, Don DeLillo o Ben Lerner, Mathias Énard e Sally Rooney), quasi tutte in lingua inglese o semmai in francese, per ragioni probabilmente storiche, legate alle origini e allo sviluppo di questa forma letteraria. Gli scrittori italiani, invece, con rare eccezioni, al romanzo contemporaneo si sono applicati molto poco, seguendo direzioni minori, meno onnicomprensive e più locali o storiche. Una di queste eccezioni, e lo è in modo chiarissimo, è il nuovo libro di Paolo Giordano, Tasmania. Tasmania è un’autofiction (ma quanto ci siamo stancati persino di pronunciarla, questa definizione), il cui protagonista è uno scrittore-giornalista con formazione scientifica, impegnato nella scrittura di un libro sulla bomba atomica, e bloccato in una lunga relazione di coppia che sembra al capolinea. Questo in estrema sintesi, ma Tasmania è anche un romanzo che alterna ambiziosissimi sprazzi globali (i destini dell’umanità, l’apocalisse climatica, il senso ultimo dell’essere padri in questo mondo) a scorci molto intimi (interni, cene, vacanze). Ed è soprattutto un romanzo di incontri, di storie altrui che confluiscono nella vita del protagonista, come quella dell’amico Giulio (di cui si racconta la dolorosa separazione) o dello scienziato Novelli. Mi è capitato di sentirlo paragonare a Houellebecq, ma questo non è un romanzo retto dalla visione del mondo della voce narrante, è piuttosto un romanzo di frammenti che si sovrappongono e si incastrano, di ragionamenti e di mistero, e di storie che si attraversano proprio come nella vita, e in questo senso più vicino a Rachel Cusk e alla sua “Trilogia dell’ascolto”. Un esperimento riuscito, che ci dice anche qualcosa sullo stato dell’arte della nostra produzione narrativa. Come Guadagnino, con cui forse non a caso ha lavorato, Giordano dimostra che possiamo fare in Italia cose contemporanee di respiro internazionale e non per forza cose italiane che piacciono all’estero. (Cristiano de Majo)
AA.VV., Quasi di nascosto. 12 nuovi autori sotto i 25 (Accēnto edizioni)
Nel 1986 Pier Vittorio Tondelli, nella prefazione di Under 25. Giovani blues, primo volume dell’antologia-rivista pensata per scoprire cosa e come scrivessero i giovani dell’epoca, precisava che «Noi non stiamo cercando giovani autori… Cerchiamo semplicemente di vedere cosa diavolo combinano i nostri giovani». Una di quelle domande che gli adulti si pongono sempre – Tondelli era speciale, cominciò a farsela a 30 anni, quando ancora c’erano adulti che si chiedevano che diavolo stesse combinando lui – e alla quale raramente riescono a dare una risposta. Quasi quarant’anni dopo, Accēnto edizioni, neonata casa editrice milanese fondata da Alessandro Cattelan, ripete la domanda e riprova a dare una risposta. Nasce così Quasi di nascosto. 12 nuovi autori sotto i 25, antologia di racconti per vedere cosa diavolo combinano i nostri giovani. La prima risposta che questo libro dà è che sì, i nostri giovani scrivono ancora: non era scontato nell’epoca degli stimoli infiniti e ulteriori, di una creatività che può essere impiegata in variegatissimi modi e forme. Nella sua prefazione, l’editor Matteo B. Bianchi racconta che quando spiegò il progetto al redattore di una rivista letteraria romana, quello gli rispose che era un’impresa impossibile perché «sotto i 25 anni non si trova niente». Invece qualcosa si trova, persino di più e di meglio di quello che io, con la presunzione inevitabile di chi ormai deve rassegnarsi alla definizione di over, mi aspettassi da 12 scrittori under. Si trovano crudeltà tra adolescenti, amicizie tra maschi parlate in dialetto casertano, riscritture ingenue e inquietanti di Chiamami con il tuo nome, teen drama ambientati in collegi femminili novecenteschi, la fluidità di genere mostrata attraverso le immagini riflesse in uno specchio che ricorda moltissimo quello che frantumò l’identità di Gengè Mosca, le pose di Bukowski e la prosa di Hubert Selby Jr., preti-avventurieri che potrebbero stare nel Nome della rosa, in Q e nel Signore degli anelli, incontri fortuiti e imbarazzanti e rivelatori con profughi ucraini, visite al carcere di una Truman Capote che scambia la freddezza del sangue con il calore dell’impegno sociale, la rappresentazione sociale e artistica dei nuovi italiani così diversi dagli italiani vecchi. Alla fine della lettura di Quasi di nascosto mi sono convinto che la domanda che si poneva Tondelli nel 1986 resta inevasa e allo stesso tempo superata: in quest’epoca, immaginare un discorso – e una scrittura – giovanile separato da quello adulto è un’illusione coltivata solo dagli over. Gli under parlano – e scrivono – di ciò di cui c’è da parlare (e scrivere). La separazione forse esiste ancora solo per pietà nei confronti di quelli che 25 anni non li hanno più, per non costringerli a vedere che chi 25 anni ancora deve compierli di certe cose parla – e scrive – già. E spesso meglio. (Francesco Gerardi)
Mohamed Mbougar Sarr, La più recondita memoria degli uomini (Edizioni e/o)
Traduzione di Alberto Bracci Testasecca
Si apre con un esergo di Roberto Bolaño questo libro vincitore del Goncourt 2021, e se è vero che ogni esergo è un po’ come le invocazioni dell’epica classica, la musa che si è scelto Sarr è quella giusta. È evidente l’ispirazione bolañesca in questo libro così fortemente meta-letterario, una rischiosissima opera che parla di scrittori e scrittrici che vanno a caccia di un altro misterioso scrittore, proprio come accade nella ormai cult “parte dei critici” di 2666. Però il rischio Sarr se lo gioca bene e alla fine lo vince. Senza scimmiottare Bolaño, e con una trama che va da Parigi a Dakar alla ricerca del misterioso T.C. Elimane, il Rimbaud nero, scrittore capace di una sola opera ma grandiosa, maledetta e magica allo stesso tempo, Sarr costruisce un’architettura che regge sempre, tra Paesi e decenni diversi, voci e stili. Per capire chi era Elimane, Sarr ti porta nel mondo letterario francese degli anni Trenta, e nello sgomento e nel razzismo per quel letterato così fenomenale senegalese; poi proprio in Senegal, prima della “completa” colonizzazione francese, nelle memorie familiari di personaggi che si riveleranno poi fondamentali; poi in giro per la Seconda Guerra Mondiale, a incrociare la strada della Shoah, e nella Dakar di oggi, e di nuovo in Francia. Si scrive, talvolta, che un certo libro è “una dichiarazione d’amore alla letteratura”, una frase di cui è difficile capire il senso. Ma pur i suoi difetti (certi personaggi un po’ fané e una lingua non sempre all’altezza delle ambizioni della trama), questo libro è una di quelle – poche – dichiarazioni ben riuscite. (Davide Coppo)
Clarice Lispector, Il lampadario (Adelphi)
Traduzione di Virginia Caporali e Roberto Francavilla
Fra poco sono 102 anni dalla sua nascita e 45 dalla sua morte: Clarice Lispector è nata in Ucraina il 10 dicembre del 1920 e morta 56 anni dopo a Rio de Janeiro, il 9 dicembre del 1977. Oltre a essere una grande scrittrice era una donna bellissima, e ancora prima di aver mai letto qualcosa di suo mi perdevo a guardare le sue foto su Google Immagini, soprattutto quella in cui è vestita di nero, circondata da una composizione di fiorellini rosa e lilla. Leggendo il suo primo libro, Vicino al cuore selvaggio (pubblicato a 23 anni), si ritrova la voce interiore di Virginia Woolf, quello sguardo sugli oggetti che rinnova il mondo e lo rende misterioso e magico, come se anche noi che leggiamo potessimo vederlo per la prima volta. Come anche per la scrittrice inglese, le case e le stanze sono importantissime nella scrittura di Lispector, popolata di bambine, ragazzine e donne che perdono tempo guardando l’arredamento, il muro, o lo spazio aperto fuori dalla finestra, confondendo realtà e immaginazione. Anche Il lampadario, recentemente pubblicato da Adelphi con la traduzione di Virginia Caporali e Roberto Francavilla, si svolge negli spazi freddi e vuoti di una grande villa. Lispector lo scrisse a Napoli (il primo di tantissimi viaggi tra Europa e Stati Uniti), dove si trasferì per seguire il marito che lavorava nel Consolato brasiliano, e lo pubblicò nel 1946, a 26 anni. Come nel caso di Virginia Woolf, la trama conta poco o niente: c’è una famiglia, ci sono una sorella e un fratello che crescono insieme e poi si separano, ci sono gli oggetti che diventano simboli (il lampadario del titolo), ma c’è soprattutto una scrittura che invece di seguire i pensieri, li crea. E lo fa già a partire dal bellissimo incipit-dichiarazione d’intenti della protagonista Virginia: «Per tutta la vita lei sarebbe stata fluida. Ma quello che aveva dominato i suoi contorni e li aveva attirati verso un centro, quello che l’aveva illuminata contro il mondo e le aveva dato intimo potere era stato il segreto. Non sarebbe mai stata in grado di pensarci con chiarezza, nel timore di invaderne l’immagine e dissolverla. Il segreto aveva comunque formato dentro di lei un nucleo remoto e vivo, senza mai perdere la magia – la sosteneva nella sua indissolubile vaghezza come l’unica realtà che, per lei, avrebbe dovuto essere sempre quella perduta». (Clara Mazzoleni)