Cultura | Libri

I libri del mese

Cosa abbiamo letto a giugno in redazione.

di Studio

Fiera di Francoforte, 1958 (foto di Heinz-Jürgen Göttert/picture alliance via Getty Images)

Matteo Codignola, Cose da fare a Francoforte quando sei morto (Adelphi)

Come avrà detto sicuramente qualcuno (su Google l’attribuzione ondeggia tra John Niven e Peppino De Filippo), far ridere è molto più difficile che far piangere. E infatti basta scorrere a ritroso la lista delle nostre ultime letture (se non quella delle letture di tutta la vita) per constatare statisticamente la rarità dei libri divertenti rispetto a quelli drammatici e strazianti.

Nel caso di Cose da fare a Francoforte quando sei morto, il merito è ulteriore, perché Matteo Codignola riesce a mettere in commedia uno degli argomenti più ingessati e sacralizzati al mondo, l’editoria, attraverso il resoconto dichiaratamente ispirato alla realtà, seppure con le dovute licenze, di un viaggio (che in realtà sono molti viaggi) da Milano a Francoforte, con successivo ragguaglio di una edizione (che in realtà sono molte edizioni) della Buchmesse. L’effetto è quello di un irresistibile racconto a voce pieno di aneddoti, digressioni e punti morti in cui l’arte di fare i libri e soprattutto di venderli viene smitizzata fino ad abbassarsi al rango della cialtroneria (una cosa adatta a chi a scuola era all’ultimo banco, scrive alla fine Codignola). Un punto di vista cattivo e divertito ma con un certo romanticismo di fondo e una passione che più che manifestarsi verso la materia in sé si dedica ai personaggi ineguagliabili che la frequentano. (Cristiano de Majo)

Reni Eddo-Lodge, Perché non parlo più di razzismo con le persone bianche (Edizioni e/o)
Trad. di Silvia Montis

Quando ha pubblicato un articolo sul suo blog intitolato “Why I’m No Longer Talking to White People About Race”, nel febbraio del 2014, Reni Eddo-Lodge non si aspettava che quell’articolo sarebbe diventato un libro, e che quel libro sarebbe diventato uno dei testi più letti e citati nei tanti dibattiti che oggi si tengono sulle identità razziali, gli individui razzializzati e il razzismo. Eddo-Ldge è britannica e nella serie di saggi che sono scaturiti da quel post virale, ora arrivati in Italia per e/o con la traduzione di Silvia Montis, fa un’operazione tanto semplice quanto drammaticamente assente, ad esempio, in Italia: ricostruisce la storia del razzismo, e dell’antirazzismo, nel Regno Unito. Con una prosa brillante e spietatamente documentata, l’autrice smonta le accuse che spesso vengono fatte ai movimenti e alle iniziative antirazziste e fuga i dubbi intorno a definizioni e controversie, che sembrano tali solo a chi non ha l’onestà intellettuale di approfondirle (dal razzismo strutturale al significato di “tokenism” e alla differenza di quest’ultimo dalle cosiddette “affirmative actions” o “discriminazioni positive”). Come avverte la traduttrice nella nota iniziale, traslare in italiano il testo di Eddo-Lodge è stata una doppia sfida: oltre alle consuete difficoltà che sempre comporta una traduzione, infatti, si è aggiunta la totale mancanza di corrispettivi nella nostra lingua di molti termini specifici. Una mancanza che denota – come dimostra la scelta di usare “razzismo” al posto di “race” nel titolo – quanto il linguaggio con cui affrontiamo questi temi sia ancora confuso e acerbo e spesso importi acriticamente parole ed espressioni che appartengono ad altre realtà. Un problema che individua anche Nadeesha Uyangoda nel suo L’unica persona nera nella stanza, quando ricostruisce le falle tutte italiane nella discussione sulla questione razziale e la necessità di risolverle. (Silvia Schirinzi)

Agnès Poirier, Rive Gauche. Arte passione e rinascita a Parigi, 1940-1950 (Einaudi)
Trad. di Andrea Sirotti

Parigi, nell’immagine che ne dà Agnès Poirier, ha origine prima che inizi la storia. Dei «luoghi del delitto», ne parla già infatti nella prefazione di Rive Gauche: quelli in cui nel periodo tra il 1940 e il 1950, una sinergia di intenzioni, idee, vite straordinarie e un «caleidoscopio di destini», hanno trasformato una certa zona parigina in un polo rivoluzionario al cui centro ci sono stati Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir, e anche molti altri. In che modo un gruppo di intellettuali e artisti che abitavano le stanze dell’Hotel La Louisiane, spingendosi fino al VIII arrondissement, è arrivato a trascendere l’élite culturale influenzando la maniera in cui pensiamo, viviamo e persino ci vestiamo oggi? Questa è la domanda che affascina Poirier e da cui parte nella sua ricostruzione che si muove oltre i fatti e ricerca i dettagli nelle testimonianze e nelle memorie, guidandoci in un viaggio frenetico attraverso la guerra, la pace, la politica, la filosofia, con pari quantità di sesso, amori crudeli, gelosia, tradimento e violenza. Le strade di Parigi sono un palcoscenico e i suoi abitanti i suoi attori, un gruppo di individui diversi dalla generazione perduta del dopoguerra negli anni ’20, rivolta all’evasione, che hanno cercato invece di ricostruire un mondo (e una città) lacerato dalla guerra usando il potere dell’arte, della filosofia e delle parole. Da Jacques Jaujard, cui andò il merito di salvare le opere del Louvre durante l’occupazione, a de Beauvoir e Sartre, che tutte le altre relazioni erano solo contingenti mentre la loro essenziale. Poi Picasso, Samuel Beckett, uomini e donne che corrono in folla tra le pagine offrendo una polifonia di voci più che di ritratti immobili. Tutti diversi, eppure accomunati dalla coraggiosa ricerca di una “terza via”, un modello di emancipazione dai ruoli tradizionali maschili e femminili, e di società tra capitalismo e comunismo. Una battaglia ideologica combattuta in Francia come in nessun’altra parte della terra. (Corinne Corci)

Pietro Minto, Come annoiarsi meglio (Blackie Edizioni)

La copertina lo fa sembrare un oggetto divertente e quasi frivolo, con quelle illustrazioni che sembrano quasi emoji, il font morbido ed enorme, e va detto che divertente lo è, merito anche del modo di scrivere di Pietro Minto. Eppure Come annoiarsi meglio è anche un libro serissimo, addirittura importante: serve, come un percorso di terapia comportamentale di 165 pagine, a conoscere e riconoscere i motivi per cui, prima di andare a letto o come prima cosa la mattina, ci piazziamo uno smartphone a dieci centimetri dalle pupille. Ha il piglio di Michael Pollan se Pollan fosse più cazzone o autoironico, e spiega come si può fare a disattivare questi automatismi, a combatterli, a vivere meglio. È uscito nella primavera 2021, dopo un anno di lockdown a intermittenza, dodici mesi che hanno cambiato di parecchio il nostro modo di rapportarci al lavoro, al tempo libero, al fare qualcosa. I nostri tempi di permanenza sugli schermi si sono allungati enormemente, come ci ricordava ogni lunedì l’applicazione dedicata al conteggio, che ci faceva sentire solo un po’ più scemi. Per bilanciare, si è parlato moltissimo dell’esplosione delle app di meditazione, in questi stessi mesi, di digiuni, corsi di yoga presi d’assalto e altri tentativi simili per purificarsi la mente. Come annoiarsi meglio non si prefigge uno scopo così diverso: solo, lo fa da libro. Ha qualcosa in fondo di spirituale, senza essere luddista. È una rivendicazione dell’utilità dell’inutile, in un mondo che tende a trasformare in marketing ogni passione o hobby, per farlo diventare un lavoro part-time o a tempo pieno. (Davide Coppo)

Chloe Aridjis, I mostri del mare (Playground Libri)
Trad. di Antonio Bravati

Un gioiello che scintilla nel buio, un acquario immerso nella notte, il libro perfetto per l’estate appena cominciata. Non so nemmeno da dove iniziare per glorificare questo libro (vincitore del Pen Faulkner Award), definito dall’Atlantic «uno strano romanzo simbolista che renderebbe orgoglioso Mallarmé». Parto dal suo aspetto, lodando la copertina di Maurizio Ceccato, continuo sottolineando la meravigliosa traduzione di Antonio Bravati e arrivo all’autrice, 49 anni (e tre libri: gli altri sono Book of Clouds e Asunder), figlia di uno dei più famosi poeti messicani, Homero Aridjis, nata a New York e cresciuta in Europa. Amante dell’arte – scrive per Frieze, ha co-curato una mostra di Leonora Carrington alla Tate Liverpool – è anche un membro di Writers Rebel, gruppo di scrittori legato al movimento Extinction Rebellion. Lo sguardo elegante di chi conosce l’arte, l’amore per il mondo animale e vegetale, i frammenti di spagnolo che contaminano l’inglese, l’orecchio per la poesia, l’acuta sensibilità per la cultura pop. Ambientata negli anni ’80, la storia si sviluppa seguendo una colonna sonora ed estetica new wave (Nick Cave, Cure, Joy Division). È un racconto di formazione: calzando Doctor Martens ed estasiando il prof. di letteratura francese con la sua analisi di Un viaggio a Citera di Baudelaire, la protagonista di 17 anni scappa improvvisamente da Città del Messico e dalla scuola prestigiosa che frequenta per seguire un misterioso ragazzo di cui si è invaghita. Ma la formazione, qui, si raggiunge tramite la disgregazione («È difficile procurarsi dei pensieri rilassanti, c’è solo torpore, come se mi trovassi bloccata a metà di un sogno e la coscienza fosse ancora lontana dall’importunarmi», pensa a un certo punto, descrivendo il mood dell’estate 2021). E così Luisa si ritrova a trascorrere un’estate a Zipolite, detta anche “spiaggia della morte”, località di mare popolata da hippie, nudisti e presunte star decadute, per intraprendere con questo Tomás, che resta un magnetico semi-sconosciuto, una bizzarra missione che è solo un pretesto per inanellare scene che sembrano rubate a un video di Mtv e geniali metafore legate al mare e all’oceano che hanno come punto di partenza le lezioni del padre, appassionato di “studio della corrosione”. I mostri del titolo, infatti, non sono creature abnormi e spaventose, ma i minuscoli tarli marini che divorano i relitti sommersi. (Clara Mazzoleni)

Dorothy Allison, Trash (Minimum Fax)
Trad. di Margherita Giacobino

In fin dei conti ci piace così tanto che qualcuno ci racconti una storia a puntate. È anche per questo che non riusciamo ad abbandonare Netflix e facciamo tanta fatica a tornare al cinema. Nel 1988 Dorothy Allison l’aveva già capito, era l’anno del suo esordio, quando ha scritto Trash, una raccolta di racconti praticamente autobiografici che si legge come un romanzo, pubblicato da noi solo a giugno. Procedono avanti e indietro nella vita della narratrice, una ragazza nata tra la “white trash” – è lei stessa ad appropriarsi dell’attributo – e quindi bianca, povera, e proveniente dal Sud degli Stati Uniti, e della sua famiglia. Come una Flannery O’Connor vissuta al giorno d’oggi, Allison si appropria di quella stessa manciata di argomenti raccontando come sopravvive una donna (aggiungiamo che è anche lesbica) del Sud ad abusi, incesti e violenze. Inventando un albero genealogico ideale della sua famiglia, dove immagina le donne rispondere prontamente alla brutalità di patrigni e mariti, Allison cerca in un certo senso di riscrivere la sua di storia: abusata dal compagno della madre da quando aveva sette anni, si è vista morire davanti agli occhi cugini e fratelli. Si sente la necessità tutta di rivendicare un’altra voce oltre alla narrativa faulkneriana, senza mai scrivere con pietà o indulgenza, ma sempre con crudezza. Alla fine ci lascia a chiederci con senso di abbandono se davvero fosse così l’America degli anni Settanta, proprio come aveva fatto col suo primo romanzo pubblicato in Italia, La bastarda del Carolina, sempre per Minimum Fax. Ma va bene anche iniziare con Trash (io ho fatto così), un’introduzione graduale a un mondo assurdamente lontano, selvaggio, racchiuso al sicuro nelle parole precisissime di Dorothy Allison. (Francesca Faccani)