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I libri del mese

Cosa abbiamo letto a febbraio in redazione.

di Studio
28 Febbraio 2021

Benjamìn Labatut, Quando abbiamo smesso di capire il mondo (Adelphi)
Trad. di Lisa Topi

Che sia un caso letterario, almeno in Italia, è conclamato, ma la cosa più interessante, oltre alle moltissime che si sono già dette intorno a Quando abbiamo smesso di capire il mondo, sarebbe cercare di capire come possa diventare un caso letterario un libro così singolare, oltre agli ovvi meriti di promozione dell’editore. È un libro che, componendosi di una struttura strana, ovvero quattro storie divise ma unite da un filo fatto di effettivi legami o coincidenze, si presta a essere letto e apprezzato in modi molto diversi. Perché può essere molte facce, molti libri compressi in uno: apparentemente una storia della fisica quantistica tra Ottocento e Novecento in quattro atti, ma anche e forse ancora di più una raccolta di racconti condotti con eccellente capacità narrativa, oppure può essere un libro sul Novecento e l’Europa, o ancora un libro sulla spiritualità, un gioco sui limiti della realtà e dell’invenzione, e può essere infine un trattato sull’orrore e sul male, che per me è stata la parte più preponderante. È un bell’inganno, in fondo, quello di Labatut, un caleidoscopio perfetto, e lui stesso sembra saperlo bene, detta le regole, le muove nel modo migliore possibile, e si merita alla fine tutto il successo che sta avendo. (Davide Coppo)

Emma Cline, Daddy (Einaudi)
Trad. di Giovanna Granato

C’è l’ex giornalista caduto in disgrazia, che si ritrova costretto a editare la biografia di un miliardario; l’agente corpulento che tutte cercano di ingraziarsi, quindi lo farà anche lei; il fondatore di un marchio famoso per vendere vestiti da Lolita, nel cui negozio una commessa aspirante attrice vende le sue mutandine a uomini che cerca di ridurre ad aneddoto; il padre che riunisce i suoi figli a Natale e si stupisce nel ritrovarli così distanti, vorrebbe arrabbiarsi ma è consapevole di come la sua rabbia non li spaventi più come una volta. Nel catalogo umano, soprattutto maschile, che attraversa Daddy, la raccolta di racconti brevi di Emma Cline uscita in Italia per Einaudi, è facile ritrovarci tracce di casi di cronaca di cui si è discusso a lungo e con ferocia, com quelli che hanno coinvolto Matt Lauer, Charney, Louis CK e ovviamente Harvey Weinstein, al quale Cline aveva già dedicato un centinaio di pagine che lo inquadrano meglio di molte delle inchieste scritte su di lui. Come in Harvey, appunto, Cline tratteggia quegli uomini e le vicende che li hanno portati a essere oggetto di discussione pubblica, popolando lo spazio che li circonda di altri personaggi, spesso donne, che li scansano, scherniscono, temono. Ha scritto Holly Williams sul Guardian che Daddy è un libro che parla soprattutto di “entitlement”, ovvero quella presunzione che secondo molti caratterizzerebbe Millennial e Generazione Z ma che è invece piuttosto antica. Nei suoi protagonisti odiosi, l’autrice de Le ragazze rivede vizi e difetti che sono passati da una generazione all’altra, amplificandosi all’infinito, e attraverso le sue storie, evocative ma allo stesso tempo mai troppo definite, ripercorre i grandi dibattiti che abbiamo affrontato negli ultimi anni e le ipocrisie che ci abbiamo costruito intorno. (Silvia Schirinzi)

Gianluca Nativo, Il primo che passa (Mondadori)

Senza accorgermene mi sono ritrovato a leggere questo libro con molta voglia di girare le pagine e andare avanti. Non che sia un libro di trama, si tratta piuttosto della tortuosa educazione sentimentale di un ventenne che scopre di essere attratto dai maschi in una Napoli insolitamente anonima, tra famiglie della periferia inevitabilmente a contatto con il tessuto criminale, e un contesto più centrale e borghese, ma altrettanto slabbrato e opprimente. C’è qualcosa qui dentro che mi ha fatto pensare alla narrativa italiana anni ’90, quando ancora non c’era un sistema intorno, un’industria, per quanto minima, a dare la direzione, con la costruzione di tanti “successi” quasi sempre di sola comunicazione e quasi mai realizzati, che ha finito per rendere i libri così piatti da essere inutili. Il primo che passa è un libro non privo di ingenuità ma con una forza piuttosto rara, si sente che dentro c’è materia pulsante e le sue sporcature suonano come una ricchezza più che un difetto. (Cristiano de Majo)

Elizabeth Wetmore, La notte di San Valentino (Ponte alle Grazie)
Trad. di Tiziana Lo Porto

Come sarebbe un Grande romanzo americano se fosse dedicato unicamente alle donne, alla loro forza e al loro dolore? È quanto ha realizzato Elizabeth Wetmore nel suo libro d’esordio, La notte di San Valentino, che prende il nome dal momento in cui tutto ha inizio: quando Gloria, quindici anni di origini messicane, scappa e raggiunge la casa di Mary Rose e lei, incinta e madre di una bambina, nonostante le minacce si rifiuta di consegnarla al ragazzo che l’ha stuprata per ore. «In questo posto le ragazze sono dure come chiodi», è una frase a cui si pensa dalla prima all’ultima pagina di un romanzo che è scritto di volta in volta dal punto di vista delle quattro donne di cui parla (allacciate tra loro grazie a Gloria). Cosa faresti se una sconosciuta visibilmente in pericolo bussasse alla tua porta? Cosa faresti se abitassi da sola in una cittadina petrolifera dalle parti di Odessa, Texas, e non ti fidassi di nessuno? Sono solo alcune delle domande a cui Wetmore risponde attraverso le parole delle sue protagoniste, dall’aggressione che non è mai descritta nei particolari – ne vengono dati gli estremi ed è questo lasciarci immaginare come siano andate le cose che rende tutto paradossalmente faticoso da vedere – fino al processo. Nell’ultimo anno, ci sono stati esempi virtuosissimi, sopratutto sullo schermo, del modo in cui trattare le conseguenze di una violenza (UnbelievablePromising young woman). Eppure è forse la prima volta che in una trattazione simile non c’è spazio per gli uomini. Perché Wetmore li trascina in disparte, rivendicando quasi con aria di sfida il Texas occidentale per le donne e le ragazze che lo abitano. (Corinne Corci)

Paul Mendez, Latte arcobaleno (Blu Atlantide)
Trad. di Clara Nubile

Paul Mendez (1982) è cresciuto in una famiglia di testimoni di Geova, è stato ripudiato, si è mantenuto lavorando come sex worker, si è fidanzato con uno scrittore molto più grande di lui, ha pubblicato un libro: proprio come il protagonista di Latte arcobaleno. Che però si apre comportandosi come un grande romanzo, più che come un memoir. Inizia negli anni ’50 e si protrae nei primi 2000, esplorando l’evolversi di un senso di sradicamento che passa e si trasforma da una generazione all’altra. Il nonno del protagonista, ex pugile, appassionato di rose da quando ha lavorato come giardiniere per un raffinatissimo bianco, sta perdendo completamente la vista ed è costretto a cercare di curare i figli e di occuparsi del suo splendido giardino (pur non vedendo quasi niente) mentre la moglie lavora. Un incipit dolcissimo e doloroso che si interrompe brutalmente dopo una cinquantina di pagine: ci ritroviamo – e continueremo a stare fino alla fine, 350 pagine dopo – insieme al nipote, bellissimo ragazzo gay ripudiato dalla comunità di testimoni di Geova in cui è cresciuto. Siamo nei primi anni del 2000, Jesse ha 19 anni: va a vivere a Londra e dopo una breve esperienza di cameriere inizia a prostituirsi, lasciandosi travolgere in un vortice di sesso, autolesionismo, acool e cocaina, mostrandoci i clienti bianchi – ma ce n’è di tutti i colori, nel senso di casi umani – dal suo punto di vista, con grande generosità di dettagli (troppa, secondo alcuni critici). Le descrizioni degli incontri sessuali, inizialmente cariche di emozione, si tramutano gradualmente in resoconti meccanici e onesti, interrotti da normalissimi momenti con gli amici, una pioggia incessante di riferimenti musicali (da Anita Baker a Solange e Beyoncé, passando per le Sugababes) e il germogliare di un legame speciale con uno scrittore sposato vincitore del Man Booker Prize. Il libro è un gran casino. Erotico, strano, caotico, volgare, ispirato, maldestro, bellissimo. Potrebbe sembrare che Mendez metta troppa carne al fuoco, invece fa bene: la carne è tutta sua. (Clara Mazzoleni)

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