Cultura | Libri

I libri del mese

Cosa abbiamo letto a ottobre in redazione.

Gerald Murnane, Le pianure (Safarà)
Trad. di Roberto Serrai

Che razza di strano libro è questo Le pianure, che esce agli inizi di novembre per Safarà. L’autore Gerald Murnane, che lo ha scritto nel 1982, era praticamente sconosciuto al di là dell’Australia, fino a quando circa un paio di anni fa è iniziata la riscoperta, fatta partire da Ben Lerner, che firma la prefazione all’edizione italiana, con un articolo sul New Yorker, proseguita poi con un pezzo del New York Times dell’anno passato che lo definiva «il più grande autore in lingua inglese di cui non avete mai sentito parlare», e lo accreditava addirittura come possibile vincitore del Nobel per la Letteratura. Un personaggio singolare oltretutto, più che un recluso: a 80 anni non ha mai lasciato l’Australia, ha lavorato come barista per un bel pezzo di vita, ama il golf e, così ci hanno detto da Safarà, per intervistarlo bisogna imbucare una lettera indirizzata al suo editore australiano.

Da tutte queste romanticherie ci si aspetterebbe uno di quei realisti del territorio che hanno fatto la fortuna del racconto americano e invece, e appunto, ci si trova davanti a un oggetto narrativo stranissimo, ambientato sì nell’entroterra, che lui chiama «l’Australia interna», ma con uno sfoggio di immaginazione e di stile per nulla classico e neanche semplice. La storia dello sceneggiatore che visita i luoghi di quest’Australia isolata e misteriosa perché intenzionato a girare un documentario sulla vita di una sorta di borghesia terriera è avvolta nella nebbia come un sogno del linguaggio, che fa pensare a Bernhard o a Coetzee, ma è ancora qualcosa di diverso: respingente e attraente nella stessa misura, quella di Murnane è di sicuro una voce che non avete ancora ascoltato. (Cristiano de Majo)

Daniel Kehlmann, Tyll. Il re, il cuoco e il buffone (Feltrinelli)
Trad. di Monica Pesetti

C’è da anni un gran rumore intorno a Daniel Kehlmann, scrittore piuttosto giovane e con molto successo già in tasca. I numeri o le statistiche sono notevoli: La misura del mondo, uscito nel 2006, è il libro tedesco più venduto di sempre dai tempi di Profumo, che era del 1985. Secondo il New York Times è stato il secondo libro più venduto, nel mondo, in quell’anno. Quest’anno è uscito Tyll. Il re, il cuoco e il buffone, che in Germania ha superato le 600mila copie, che uscirà negli Usa nel 2020, e che diventerà una serie Netflix. È un libro strano, e proprio perché strano straordinariamente coinvolgente. In un’epoca di memoir e distopie, Kehlmann sceglie di raccontare una storia interamente ambientata durante la Guerra dei Trent’anni. Il Tyll del titolo di cognome fa Ulenspiegel, ed è un grande buffone e personaggio del folklore tedesco, ma il racconto non è quello della sua vita: gli otto capitoli non seguono un ordine cronologico e rappresentano, invece, otto diverse scene impressionistiche di momenti che girano intorno a quella Guerra: gesuiti alchimisti a caccia di streghe e anche di draghi, il povero Federico V del Palatinato, Re per un inverno, l’arrogante Gustavo di Svezia, e poi mugnai, contadini e soldati travolti dalla peste e dalla guerra come nell’azzeccatissimo quadro di Bruegel il Vecchio (“Il trionfo della morte”) scelto da Feltrinelli per l’edizione italiana. È «epos tedesco», come ha scritto Der Spiegel, ma è anche un modo di raccontare l’Europa, quell’Europa massacrata per i trent’anni forse più sanguinosi della sua storia, questa Europa che si guarda troppo poco indietro. (Davide Coppo)

Eimear McBride, Bohémien minori
(La nave di Teseo)
Trad. di Tiziana Lo Porto

Eimear McBride è irlandese e, come tale, Joyce le ha mostrato che non ci sono regole. Per questo nel suo Bhoémien minori, romanzo di formazione ambientato a Londra negli anni ’90 che racconta i gangli e le incognite di una relazione tra una studentessa di recitazione e un attore di 20 anni più grande, ha deciso di scardinare la grammatica. Come in un copione teatrale (non è un caso che McBride abbia solcato le scene), anche il silenzio diviene un’ellissi della parola, uno stratagemma stilistico che rende le pause passaggi affascinanti: dove avviene la vita, i battiti accelerati, i mozziconi di sigaretta buttati sull’asfalto all’angolo di Kwik Save. Nessuna punteggiatura che segni l’inizio di un discorso, poche virgole, ancora meno punti, per un flusso di coscienza che spiazza il lettore e non gli concede di prendere fiato fino al paragrafo successivo. Come Sally Rooney, ma senza che vi siano argini; come Henry Miller nel suo Tropico del Cancro ma più composto e femminista. Con una scrittura che permette di entrare nella testa e nel corpo della protagonista, registrando in presa diretta tutto ciò che accade dentro la nebbia di Londra, tra piaceri e sensazioni (a letto, nei pub e sul palco), McBride sembra attingere alla vita interiore dei personaggi come faceva da ragazza, apprendendo il metodo Stanislavkij: perché la mente corre più veloce della grammatica. Eily e Stephen non sanno niente l’uno dell’altra. Eppure scelgono sempre di baciarsi per ore rimanendo in silenzio, «come quelle acque chete del suo passato che, quando oso chiedere, lui presenta come fossero vetro». Senza nomi, per buona parte della storia, i due protagonisti sono presentati nella luce scabra della notte, quando nello stordimento dell’alcool e sulla voce di Nick Cave, si spogliano e rispogliano senza che nessuno li osservi dall’esterno. Non l’autrice e nemmeno noi; che siamo dentro, a porte chiuse, fino all’ultimo respiro. (Corinne Corci)

David Neiwert, Alt-America (minimum fax)
Trad. di Fabrizio Coppola

Se c’è qualcosa di “rassicurante” nel saggio di David Neiwert, giornalista, scrittore e tra i più autorevoli esperti di estrema destra in America, è che molte delle cose che pensiamo sulle nuove destre sono vere. Sì, questi movimenti hanno trovato nuova linfa grazie ai social media ma le loro idee pescano sempre dal solito, raffazzonato, miscuglio di eugenetica e teorie della cospirazione riciclate dagli anni Venti a oggi, e sì, il fact-checking non funziona con i loro adepti, perché il credo complottista non è razionale ma ricorda piuttosto «un’altra forma di realismo magico», come ha spiegato Eric Oliver, professore di Scienze politiche all’Università di Chicago. Chi sceglie di credere al Nuovo ordine mondiale, alla sostituzione etnica, alla supremazia della razza bianca e a tutte le fantasiose minacce che vogliono insinuarne il primato, con molta probabilità lo fa, come accade a chi abbraccia il realismo magico, per affrontare le proprie difficoltà emotive. Diventa perciò indifferente anche alla più stridente delle contraddizioni che contraddistingue la destra di falange di oggi, e cioè che dice di battersi per un mondo migliore ma in realtà è sistematicamente incapace di provare empatia. Neiwert, che questi sommovimenti dell’identità americana li ha studiati e raccontati per tutta la sua carriera, fa un’analisi approfondita della loro genesi e del loro sviluppo digitale, dimostrando che arrivano da lontano e che modificarne la visione del mondo sarà un’operazione difficile. (Silvia Schirinzi)

Nick Hornby, Lo stato dell’unione – Scene da un matrimonio (Guanda)
Trad. di Elettra Camporello

«La Brexit è una specie di divorzio» sostiene Louise, mentre sta seduta al pub di fronte al palazzo della terapeuta insieme a Tom. L’ambientazione è sempre la stessa: questo pub, dove si avvicendano i dialoghi e le comparse dello spettacolo che finisce poi per essere la vera e propria terapia, il banco(ne) di prova dove una coppia affronta la sfida di dirsi tutto per provare a riuscirci e ricominciare. Al centro c’è un matrimonio in crisi a causa di un tradimento, quello di Louise, per noia, perché ha di fronte un marito ex critico musicale impigrito dalla propria inutilità e dal tempo che passa, che come tanti ha votato “Leave” un po’ per farsi sentire e tanto per fare incazzare Louise e gli amici perfettini che ovviamente stavano tutti dalla parte del giusto, quella del Guardian e del “Remain”. Lo stato dell’unione – Scene da un matrimonio, l’ultimo libro di Nick Hornby, non nasconde ciò che è: la sceneggiatura di una serie di dieci episodi della durata di dieci minuti scritta per Sundance TV e presentata a inizio 2019. Poco importa, è sempre bello immaginare un volto, tifare per l’uno o per l’altro, anche quando è difficile perché il dialogo si fa serrato, perché si perdono i “balloon” di chi dice che cosa perché alla fine tutto sommato conta poco, conta se quello che si vuole è lo stesso. Sarà forse perché la Brexit ci ha dimostrato che lasciarsi non è poi così facile, o la missione di uno stile di vita più sostenibile, ma sono numerose in questo periodo le messe in scena di terapie di coppia, di tentativi di riprovarci. Riparare versus buttare e ricomprare. I risultati, in tutti i sensi, sono altalenanti. A volte per fortuna basta ammettere di «avere un matrimonio difettoso, di vivere sull’orlo del precipizio e che la casa potrebbe crollare da un momento all’altro» e prendersi una sbronza insieme. (Teresa Bellemo)

Anna Ottani Cavina, Una panchina a Manhattan (Adelphi)

Dedicare un po’ di tempo alla lettura di un libro della collana Imago di Adelphi è come prendersi una pausa dalla sostanza di cui è costituito il presente: l’impaginazione un po’ da sussidiario, gli ampi spazi bianchi, la selezione di bellissime immagini da guardare a lungo (in Una panchina a Manhattan c’è un capitolo che si chiama proprio “Dentro l’immagine”). Il libro di Anna Ottani Cavina (di cui era già uscito, per la stessa collana, Terre senz’ombra, che raccontava la rappresentazione del panorama italiano tra il Seicento e l’Ottocento) è una collezione di frammenti in cui la vita personale della storica dell’arte e le sue riflessioni sulle opere e gli artisti si mescolano in un’unica sostanza, riportando a un tempo in cui le mostre avevano il potere di dettare nuovi linguaggi e traiettorie nella storia dell’arte e il lavoro del critico era forse un po’ più emozionante di oggi, come testimonia il capitolo iniziale dal titolo La critica come paradiso, dove Cavina ripercorre gli incontri decisivi della sua vita da studiosa, tra cui il grande storico dell’arte che ha ispirato il titolo (Robert Rosenblum: era lui che teneva lezioni su una panchina, a Manhattan). Oltre alle mostre, Cavina racconta anche una serie di preziosi piccoli eventi, come la pubblicazione del volume Su Correggio di Alberto Arbasino (Electa, 2008) o il restauro della scultura Adamo di Tullio Lombardo al Metropolitan Museum di New York nel 2002 e una serie di mostre trasversali e meno scontate, come quella del 2006 allo Houston Museum of Fine Arts dedicata ai cani nell’arte dal Cinquecento al postmoderno. (Clara Mazzoleni)