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Perché l’Iran si è innamorato di House of Cards

21 Ottobre 2016

«All’Iran stanno piacendo le nostre elezioni presidenziali», titola il pezzo di Robin Wright sul New Yorker che analizza come il Paese degli ayatollah sta apprezzando – si direbbe sorprendentemente – House of Cards, la serie Netflix in cui Kevin Spacey interpreta il machiavellico politico Frank Underwood. Lo show, il cui titolo tradotto in farsi è Khaneh Poushaly (“Castello di paglia”), ha di recente debuttato sulla tv di Stato iraniana, andando in onda ogni sera per due settimane e conquistando lodi imprevedibili da parte dei più fedeli a Khamenei.

hsMashreg, un sito strettamente legato alle Guardie della rivoluzione islamica, il corpo dei pasdaran istituito dopo la rivoluzione del ’79, ha esaltato la serie prodotta da Beau Willimon: «House of Cards ha sapientemente mostrato l’inganno della complessa sfera politica della progredita società americana, così come il tradimento, la sete di potere, le promiscuità e i crimini che si celano dietro coloro che guidano il Paese». Naturalmente la stessa messa in onda della serie è eloquente: l’ente che controlla i palinsesti televisivi dell’Iran è presieduto da una persona nominata direttamente dalla Guida suprema Ali Khamenei.

L’attenzione dei media iraniani ad House of Cards è lo specchio di quella accordata alle presidenziali: per la prima volta la tv iraniana ha mandato in onda in diretta un dibattito tra candidati alla Casa Bianca, quello del 9 ottobre in cui Trump ha dovuto misurarsi con la diffusione della registrazione in cui si vantava di molestare le donne. Per l’establishment iraniano queste elezioni sono un’occasione per sottolineare l’immoralità che, secondo la loro propaganda, contraddistingue il “Grande Satana” americano: il mattino dopo la pubblicazione della conversazione di Trump con l’allora presentatore di Access Hollywood Billy Bush, 19 quotidiani iraniani aprivano con questa storia in prima pagina.

Inoltre, le accuse trumpiane di trovarsi di fronte a una tornata elettorale manipolata a favore della Clinton ha avuto particolare copertura in Iran, probabilmente – spiega il New Yorker – perché all’ayatollah non è andato giù un discorso che Hillary aveva fatto nel 2009, quand’era Segretario di Stato, esprimendosi in toni positivi sul Movimento verde iraniano, l’ondata di proteste nazionali che aveva colpito il Paese mediorientale dopo le elezioni del 2009 (quelle sì, probabilmente segnate da brogli veri).

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