Cultura | Letteratura

Vita di Harold Bloom, gigante

Lunedì 14 ottobre è morto, in un ospedale nel Connecticut, il critico letterario più conosciuto del globo, e anche il più controverso.

di Francesco Longo

Harold Bloom fotografato nel suo appartamento nel 1994, anno di uscita del suo libro più famoso, Il caone occidentale (Photo by Ted Thai/The LIFE Picture Collection via Getty Images)

Durante la notte sognava in yiddish, la lingua che aveva parlato prima di imparare l’inglese da solo, all’età di sei anni. Nei sogni a volte lo andava a trovare Sigmund Freud: «Freud appare sempre nei miei sogni come Jahveh il Padre», così raccontava nel libro Rovinare le sacre verità. Poesia e fede dalla Bibbia a oggi (1992). Freud però non si manifestava soltanto nelle visioni oniriche, a lui Harold Bloom ha dedicato addirittura un capitolo del suo libro di maggior peso, Il canone occidentale.

Ora che Bloom è morto, lunedì 14 ottobre in un ospedale di New Haven nel Connecticut, e che è stato sconfitto su molti fronti – sì, oggi conta più l’identità dello scrittore che la qualità delle opere – i suoi libri torneranno forse ad essere letti come testamento di un mondo letterario che non esiste più. Nonostante abbia fatto entrare Freud nel canone, Bloom non riteneva utile servirsi della psicanalisi per interpretare i testi letterari, e proponeva di sostituire alla lettura freudiana di Shakespeare una lettura shakespeariana di Freud. Per Bloom nessun campo del sapere può far luce su Shakespeare, che è al centro del canone letterario di ogni tempo. Per Bloom Shakespeare è un faro, è un evento sismico irripetibile, è una potenza abbagliante che squarcia l’umanità e le cui ombre benefiche arrivano a fecondare gli scrittori dei secoli successivi, fino al Novecento: «Chiunque tu sia e ovunque ti trovi, egli è sempre davanti a te, concettualmente e quanto a immaginario».

Shakespeare contiene già tutti quelli che proveranno a leggerlo: «Non puoi illuminarlo con una nuova dottrina, sia essa il marxismo o freudismo o scetticismo linguistico demaniano. Al contrario, Shakespeare illuminerà la dottrina (…): tutto ciò che interessa a Freud è già in Shakespeare, oltre che una persuasiva critica a Freud». Chi ha disegnato la mappa freudiana della mente? Shakespeare. Con chi devono competere gli scrittori contemporanei? Shakespeare. Chi è al centro della cultura occidentale più di Platone e Aristotele, Kant e Hegel, Heidegger e Wittgenstein? Shakespeare. E in futuro, chi sarà «lo scrittore più originale che mai conosceremo»? Shakespeare.

Bloom non riteneva utile servirsi della psicanalisi per interpretare i testi letterari e proponeva di sostituire alla lettura freudiana di Shakespeare una lettura shakespeariana di Freud

In seguito a un incidente automobilistico, l’unica star della critica letteraria per camminare ha avuto bisogno di sostenersi con un bastone e ha continuato per anni a tenere corsi universitari nel salotto di casa, a New York, dove è nato nel 1930; la sua ultima lezione l’ha tenuta il 10 ottobre scorso. Figlio di genitori ebrei scappati dall’Europa – il padre era nato a Odessa, la madre vicino Brest Litovsk – aveva incontrato da ragazzo la poesia di Hart Crane grazie a un libro preso in prestito in una biblioteca del Bronx. Aveva conseguito un dottorato a Yale nel 1955, università dove è stato professore emerito e che gli aveva assegnato il massimo titolo accademico: Sterling Professor of Humanities. I suoi libri, oltre venti volumi di saggi di critica letteraria, sono tradotti in più di quaranta lingue. Tra i più celebri, a parte il Canone occidentale (1994), vanno ricordati almeno L’angoscia dell’influenza (1973), Il libro di J (1990), Come si legge un libro e perché (2000) e Anatomia dell’influenza (2011).

Bloom non è stato solo il critico più conosciuto del globo, è stato anche il più controverso. I suoi testi sono inseriti nei programmi d’esame di studenti di ogni angolo del mondo e contemporaneamente non si contano i suoi nemici dentro e fuori l’accademia. Chi contesta le sue selezioni letterarie – ovvero chi negli anni ha cercato di allargare il canone composto da Dante, Chaucer, Cervantes, Montaigne, Shakespeare, Goethe, Wordsworth, Dickens, Tolstoj, Joyce, Proust e da altri, per inserire nuovi autori – è entrato immediatamente nella lista nera delle sue conoscenze. I suoi maggiori detrattori ideologici lo hanno accusato, negli anni, di essere razzista, sessista, conservatore e reazionario perché escludeva il recupero di scrittori dimenticati, è stato beffardo nei confronti delle scritture marginali, ha sostenuto per una vita di voler leggere e insegnare solo i classici. «Il ‘68 ha distrutto l’estetica, introducendo una finta controcultura politically correct in base alla quale basta essere un’esquimese lesbica per valere di più come scrittrice. Mentre il resto dei critici li buttava alle ortiche in quanto “elitari e non rappresentativi delle altre culture’, io ho osato riesumare i cosiddetti ‘maschi europei bianchi defunti”. Beccandomi l’accusa di razzismo, elitismo e sessismo. Ho osato sostenere che la grande letteratura non ci rende più altruisti o generosi», ha dichiarato in un’intervista ad Alessandra Farkas, contenuta nell’ebook Cosa resta della letteratura). Tutti i suoi avversari sono stati classificati dallo stesso Bloom sotto la categoria di “Scuola del Risentimento”. In questo insieme compaiono i critici che vogliono abbattere il canone. In realtà nessuno vuole demolire il canone, chi lo contesta cerca solo di dilatarlo, ma per Bloom la dilatazione del numero di testi da trasmettere agli studenti significa distruzione del canone: «Quanto viene insegnato non comprende affatto i migliori scrittori, siano donne, africani, ispanici o asiatici, ma scrittori che ben poco offrono al di fuori del risentimento che hanno alimentato in sé quale parte del loro sentimento di identità». Vivendo nelle università si guardava intorno e vedeva il moltiplicarsi di dipartimenti di “Studi culturali” in cui «fumetti di Batman, parchi tematici mormoni, televisori, pellicole cinematografiche e rock sostituiranno Chaucer, Shakespeare, Milton» e se ne addolorava. Fanno parte della Scuola del Risentimento sei rami di studiosi: marxisti, femministi, neostorici, lacaniani, decostruzionisti, semioticisti.

«Mentre il resto dei critici li buttava alle ortiche in quanto “elitari e non rappresentativi delle altre culture’, io ho osato riesumare i cosiddetti ‘maschi europei bianchi defunti”. Beccandomi l’accusa di razzismo, elitismo e sessismo»

Nella metà dell’Ottocento, Thomas Babington Macaulay, l’architetto dell’educazione inglese in India, espresse il noto giudizio secondo il quale un unico scaffale di letteratura europea valesse tutti i libri dell’India e dell’Arabia insieme. Le idee di Bloom sembrano essere in linea con le tesi di Macaulay. Ma nel ricordare le origini dell’idea della superiorità della letteratura occidentale sulle altre, e le strategie con cui la letteratura è stata usata per sottomettere altre culture, anche Ania Loomba, nel libro Colonialismo/Postcolonialismo, ammette che «storicamente, Shakespeare è stato usato in Sud Africa sia per contrastare che per diffondere il razzismo».

Il giorno in cui Bloom si è accorto che più del valore delle opere contava il passaporto dell’autore – dove è indicata la provenienza geografica e il genere sessuale – è cominciata la sua guerra di civiltà. Per valore delle opere cosa intendeva? In che cosa consisteva la sua battaglia per salvaguardare purezza e pienezza della poesia? Quali erano i “criteri severamente artistici” che difendeva? Una delle caratteristiche fondamentali del suo discorso critico è stata l’originalità: «Il grande scandalo che il risentimento non è in grado di accettare». Come può uno scrittore entrare a far parte delle opere immortali? «Uno dentro il canone irrompe solo per forza estetica, la quale consiste primariamente di un amalgama: padronanza del linguaggio figurativo, originalità, capacità cognitiva, sapere, esuberanza espressiva».

Raccontando se stesso, Bloom sosteneva di aver condotto una vita dissipata, «bevendo, fumando sigari e trascurando l’esercizio fisico» (così si è descritto ad Alessandra Farkas). Mentre alla Paris Review, che gli domandò quale persona avrebbe voluto aver incontrato nella vita, ha dichiarato: «La sola persona che avrei voluto conoscere e che non ho mai conosciuto, ma è stato un bene, è Sophia Loren. Sono stato innamorato di Sophia Loren per almeno un terzo di secolo. Ma senza dubbio è stato meglio sia andata così».

Di fatto ha trascorso la vita a leggere – leggeva in greco, in ebraico moderno e antico, in latino, in yiddish, in inglese, in francese, in spagnolo, in tedesco, in portoghese, in italiano – e l’unico rimpianto che aveva erano gli inutili litigi, che gli sottraevano tempo allo studio. All’inizio della carriera i suoi interessi erano rivolti a Keats, Wordsworth, Emerson, Coleridge, Blake. Interessi molto vicini a quelli di due critici della cosiddetta scuola di Yale: Geoffrey Hartman e J. Hillis Miller. Anche per questo motivo per un lungo periodo è stato confuso e associato ai teorici del decostruzionismo. Ma una volta confrontatosi con lo strutturalismo degli anni Sessanta e con la decostruzione, e aver quindi voltato le spalle sia a Jacques Derrida che e al suo amico Paul de Man, si è trovato solo e da allora ha sempre detto di non avere né una scuola, né colleghi. Il sentimento di solitudine sarà derivato anche dal fatto che gli attacchi arrivavano non solo dai teorici degli studi postcoloniali, o dalle femministe, ma anche dagli spiriti conservatori e dalle autorità religiose. Per Bloom la letteratura non è mai stata una cassaforte di valori, era certo che lo studio non rendeva persone migliori, i veri grandi scrittori erano anzi per lui quelli che avevano sovvertito tutti i valori della società. Leggere non rende cittadini morali, pensava Bloom, e così gli scrittori non devono rispondere a una vocazione politica: è celebre la sua idea secondo la quale pretendere responsabilità politica dallo scrittore è come esigerla da un giocatore di baseball.

Le sue letture dei testi sacri si sono prestate ad altrettante polemiche. Per Bloom «l’adorazione occidentale di Dio – da parte di ebrei, cristiani e musulmani – è l’adorazione di un personaggio letterario». Walter Siti, a proposito della dimensione religiosa e del sacro in Bloom ha scritto un saggio dal titolo An American Gnosis. Appunti su critica e religione in margine all’opera di Harold Bloom. E proprio il primo saggio di Bloom che entrò nella classifica dei libri più venduti fu il volume Il libro di J nel quale sosteneva non solo che un autore della Bibbia ebraica esistesse ma che l’autore fosse una donna. Si ritrovò contro studenti, rabbini, giornalisti. Anche i rapporti con il cristianesimo non erano buoni, visto che considerava cristianità e antisemitismo come sinonimi.

È celebre la sua idea secondo la quale pretendere responsabilità politica dallo scrittore è come esigerla da un giocatore di baseball

Alcune notti non sognava in yiddish, né gli appariva Freud. Certe sere semplicemente non riusciva a dormire. «A volte, nelle lunghe notti insonni mentre mi riprendo lentamente da acciacchi e malanni vari, mi domando perché io sia sempre stato così ossessionato dai problemi dell’influenza. Dall’età di dieci anni in poi, la mia soggettività si formò grazie alla lettura della poesia e, in un momento che ormai ho dimenticato, cominciai a interrogarmi sulle influenze», ha scritto in Anatomia dell’influenza, sorta di autobiografia letteraria. A parte la difesa del canone dai mille anticanoni, infatti, l’altra nozione portante di Bloom è stata la visione della letteratura come di un campo di lotta tra testi e tra autori. L’angoscia dell’influenza nasce nell’anima di ogni scrittore che decide di scrivere ed è costretto a relazionarsi con i giganti del passato. Gli spiriti deboli sono sopraffatti dai maestri irraggiungibili tanto da esserne travolti. I grandi invece si riconoscono tra loro e traggono vantaggio dalla competizione e dall’influenza dei loro predecessori. Da Joseph Conrad, per esempio, sorgono Hemingway, Fitzgerald e Faulkner. Ma ognuno di loro diventa se stesso mescolando Conrad con un altro grande americano: Mark Twain per Hemingway, Henry James per Fitzgerald, Herman Melville per Faulkner. A volte addirittura – è il caso di Joyce nei confronti di Shakespeare – gli autori possono arrivare a esprimere gelosia e invidia per il precursore. A volte, è il caso di Beckett, i grandi fanno cambiare strada: «Beckett si decise a scrivere in francese allo scopo di superare l’influenza di Joyce sulla sua opera iniziale». Influenza per Bloom è ispirazione. Così scriveva in Anatomia dell’influenza: «I miei studenti mi chiedono spesso perché i grandi scrittori non possano iniziare da zero, senza alcun passato alle spalle. Posso soltanto rispondere loro che non funziona così, perché, nella pratica, ispirazione significa influenza».

Fino a quarant’anni non ha posseduto il televisore. Fino alla fine non ha usato il computer, a scrivere le email lo aiutava la moglie, Jeanne Gould, psicologa infantile con cui è stato sposato dal 1958, che ha dato notizia della sua scomparsa. A dire il vero non ha mai imparato neanche a usare la macchina da scrivere, utilizzava solo penna e carta. Impediva che i suoi libri fossero editati da qualcuno, li correggeva da solo e non sempre troppo a lungo. Oltre alle opere critiche ha scritto una sola opera di finzione, The Flight to Lucifer, sorta di sequel del romanzo A Voyage to Arcturus di David Lindsay e in seguito ha disconosciuto questo guizzo.

Enciclopedico, amante delle classifiche, ossessionato dai cataloghi di autori e opere e soprattutto dai fossati che circondano le sue liste, Bloom è stato il critico dai giudizi sprezzanti, sempre tutti tranchant, è stato il critico delle etichette irrevocabili e dai commenti lapidari. Da qui nasce la sua fama di polemista in grado di spaccare l’opinione dei critici e dei lettori e di polarizzare il suo pubblico in eserciti contrapposti. Adoratori da una parte detrattori dall’altra. Uno dei suoi avversari storici è stato il critico inglese neomarxista Terry Eagleton che recensendo Come si legge e perché definì le tesi di Bloom «roba inconsistente e banale».

A patire i suoi colpi di rivoltella sono stati spesso gli scrittori contemporanei. Non ha mai apprezzato Jonathan Franzen e credeva che fosse una profanazione affiancare il suo nome a quello di Charles Dickens. Anche dopo Infinite Jest, non è mai stato convinto da David Foster Wallace: «Paragonarlo a Joyce è ridicolo». Wallace «era uno scrittore dotato ma la sua opera non arriva da nessuna parte». Buttò giù dalla torre senza pensarci J. K. Rowling – trovò Harry Potter e la pietra filosofale «terribile» – insieme a Stephen King – quest’ultimo non darebbe molto altro contributo all’umanità a parte tenere a galla l’editoria. Così come riteneva che Salinger un giorno verrà dimenticato. Il premio Nobel Doris Lessing «ha scritto un solo libro decente quarant’anni fa», il premio Nobel Jean-Marie Gustave Le Clézio è «illeggibile», il premio Nobel Toni Morrison ha scritto alcuni libri tra cui Il dono e Amatissima che considerava «deplorevoli». Salutò la decisione di assegnare il premio Nobel a Dario Fo come «ridicola».

Tra gli scrittori americani contemporanei sembrava apprezzare solo l’amico Philip Roth (i suoi capolavori sarebbero Pastorale americana e Il teatro di Sabbath), Thomas Pynchon (per L’Arcobaleno della gravità, L’incanto del lotto 49 e Mason & Dixon), Don DeLillo (in particolare Underworld, perché dopo non ha meritato più suoi apprezzamenti), e Cormac McCarthy (soprattutto per Meridiano di sangue). Della letteratura italiana, a parte Dante – «il più aggressivo e polemico dei grandi scrittori occidentali» – apprezzava molto Manzoni e Leopardi: «Manzoni, il principale romanziere dell’Italia ottocentesca, è in larga misura uno scrittore shakespeariano, come del resto Leopardi». Dopo di loro passano l’esame Campana, Saba, Ungaretti, Svevo e Primo Levi.

Spesso si è notata la scarsa presenza di scrittrici e poetesse negli studi di Bloom. Un amore speciale era rivolto solo a Emily Dickinson: «Eccezion fatta per Shakespeare, la Dickinson dà prova di maggiore originalità cognitiva di ogni altro poeta occidentale dopo Dante». Tra i poeti è seconda solo a Walt Whitman. Le scrittrici che preferiva erano Emily Brontë, Charlotte Brontë, Jane Austen e George Eliot: «Come notava la Woolf – scriveva nel Canone occidentale – se mai c’è stata una sorella di Shakespeare, era la Austen che scrisse due secoli fa».

Nella conclusione del Canone occidentale suggeriva ad ogni lettore di possedere un elenco di libri da leggere su un’isola deserta per il giorno in cui ci si dovesse ritirare a leggere «fuggendo dai propri nemici», naufragando, o dopo aver terminato la propria guerra. Quali libri portare con sé su un’isola? A questa domanda, una volta Joyce rispose: «Esiterei tra Dante e Shakespeare, ma non a lungo. L’inglese è più ricco e voterei per lui». Bloom si rispose così: «Se potessi avere un solo libro, vorrei che fosse l’opera omnia di Shakespeare. Se potessi averne due, quello e la Bibbia. E se fossero tre? Qui le difficoltà cominciano».

Di notte dunque Harold Bloom dormiva e sognava in yiddish, o sognava Freud, oppure restava insonne. Di giorno leggeva, insegnava e scriveva. Durante un’intervista alla Paris Review, gli fu chiesto se c’erano giorni in cui non lavorava e lui rispose: «Sì, ahimè, ahimè, ahimè. Ma penso sempre alla letteratura. Non so distinguere tra letteratura e vita».

 

[Versione ampliata e aggiornata dopo la morte di Bloom di un articolo apparso su questo sito nel luglio 2015]