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Gypsy Rose Blanchard, vittima, carnefice e star di TikTok

Prima torturata da una madre affetta da sindrome di Münchausen per procura, poi condannata per il suo omicidio: ora, a 32 anni, è finalmente una donna libera. Ma non dai social.

di Clara Mazzoleni

Negli ultimi giorni di dicembre su TikTok c’era una strana fibrillazione, un senso di attesa che non c’entrava niente con Natale e Capodanno. Nei “per te” spuntavano dei video di ragazze ferme in macchina davanti a un carcere che dicevano di aspettare l’uscita di una certa Gypsy, per trovarsi pronte in caso avesse avuto bisogno di un passaggio, ragazzi che preparavano cartelloni pieni di cuoricini per accoglierla fuori dalla prigione, teenager che si rivolgevano direttamente a lei, «ti prego Gypsy apri un profilo TikTok» o le davano già il benvenuto, persone che nei commenti insultavano altre persone per la loro morbosità: «La ragazza ha sofferto abbastanza, dovete lasciarla libera di vivere la sua nuova vita!». Ma la sua nuova vita, a quanto pare, comprende anche i social. Poco dopo essere uscita dal carcere (il 28 dicembre), infatti, l’attesissima Gipsy è approdata su TikTok. Il video, pubblicato il 31 dicembre, ha ottenuto 11,9 milioni di like. Le unghie con la french manicure, i lunghi capelli castani, le ciglia finte, l’anello di fidanzamento al dito, il maglione rosa: con la sua vocina dolce Gyipsy ci augura buon anno e dice di essere contenta di poter finalmente passare un po’ di tempo con la sua famiglia (padre, matrigna, marito). Su Instagram, al momento, ha accumulato 6 milioni di follower. Basta scorrere gli ultimi post per scoprire che ha un libro in promozione, Released e una serie tv in arrivo, The Prison Confessions of Gypsy Rose Blanchard.

Chi conosce la sua storia, sa che è stato proprio un profilo sui social, Facebook per la precisione, a salvarle la vita. E sono in tanti a conoscerla: il suo caso è stato al centro di una famosissima puntata di Dr. Phil andato in onda nel 2017 e di un documentario, Mommy Dead and Dearest. Nel 2019 è arrivato un altro documentario, Gypsy’s Revenge, e la scioccante serie Hulu The Act, con Patricia Arquette nel ruolo della madre e Joey King in quello di Gypsy (e Chloë Sevigny in quello della vicina sospettosa), in questi giorni diventata virale su TikTok. E poi una miriade di video YouTube e podcast degli appassionati di True crime: il mio preferito si trova su Spotify, dura 171 minuti (divisi in quattro puntate), è stato pubblicato nel 2022 e fa parte della serie Crime-Aut, casi di cronaca nera raccontati da persone autistiche. Per raccontare questa storia incredibile, Erika e Silvia partono proprio dallo status su Facebook che fa esplodere il caso. Ma prima raccontano cosa c’è, su questo profilo Facebook. Siamo nel 2015, ed è ormai da un bel po’  che una donna di nome Dee Dee condivide sul social, e anche su un blog, le gioie e i dolori della vita quotidiana con una figlia gravemente malata, Gypsy. La ragazzina soffre di diverse cose: distrofia muscolare (vive in sedia a rotelle), leucemia (è sempre rasata a zero), apnee notturne (dorme con un respiratore), un ritardo mentale che la fa apparire e ragionare come una persona molto più piccola della sua età, un problema di eccessiva salivazione per cui le hanno asportato le ghiandole salivari (deve essere alimentata con un sondino), una grave allergia agli zuccheri e molti altri disturbi.

Eppure, come si evince dal racconto condiviso dalla coraggiosa madre single (il padre è stato mollato in quanto alcolizzato e abusante), quella di sua figlia non è soltanto una vita di ospedali e dolore: Gypsy è una ragazzina sorridente, adora le principesse Disney e si diverte a interpretare con i cosplay. A regalarle il sorriso sono anche i doni elargiti da un ente benefico che prende a cuore il suo caso, regalandole viaggi a Disneyland e, dopo che, sfiga nelle sfighe, mamma e figlia perdono la casa a causa dell’urgano Katrina, una bellissima casa nuova dotata di tutti i comfort e, soprattutto, per la gioia di Gypsy, tutta rosa. L’impressione, dall’esterno, è che Dee Dee cerchi di facilitare l’esistenza alla sfortunatissima figlia ricamando intorno a lei un mondo fatato, che costruisce anche grazie al profilo Facebook che condividono: nelle foto che pubblica la ragazzina vive come in un sogno, sempre in mezzo ai peluche, vestita di rosa, la testa coperta da parrucche boccolose, un sorriso dolcissimo. Dee Dee e Gypsy sono amatissime dai loro fan e benefattori e i loro messaggi sono pieni di gratitudine. È anche per questo che l’aggiornamento dello status che compare il 14 giugno 2015 sconvolge tutti: «That Bitch is dead!». Qualcuno deve avere hackerato il profilo, commenta qualcuno, non solo per il contenuto del messaggio, ma anche per il linguaggio scurrile, che nessuna delle due avrebbe mai utilizzato. Per sicurezza, i fan allertano la polizia. Gli agenti entrano nella casa rosa e trovano il cadavere di Dee Dee (17 coltellate). Gypsy non c’è, ma le sue sedie a rotelle sì. Qualcuno deve averla rapita dopo aver ucciso sua madre, pensano gli agenti.

L’account da cui è stato postato lo stato su Facebook, però, conduce alla casa di un ragazzo, Nicholas Godejohn, che si scopre essere il fidanzato di Gypsy, che infatti è lì con lui, sana come un pesce, perfettamente in grado di camminare e ragionare come una ragazza ventenne quale realmente è. Si scopre che la madre soffriva di sindrome di Münchausen per procura, un disturbo mentale che deriva dalla sindrome di Münchausen, in cui il soggetto si finge malato per attirare l’attenzione altrui (un esempio recente: il bellissimo film Sick of Myself, ma anche le adolescenti che si auto-diagnosticano disturbi per diventare famose su TikTok). Nella versione “proxy” della sindrome, c’è un caregiver, genitore o altro (più spesso la madre) che invece di simulare la malattia, finge che a essere malata sia la persona di cui si prende cura. Dee Dee, quindi, aveva sempre trattato la figlia sanissima come una bambina affetta da leucemia, distrofia muscolare, asma, ecc., per avere successo sui social, ottenere compassione e, soprattutto, soldi. Abilissima manipolatrice e appassionata di infermieristica, era incredibilmente riuscita a raggirare i medici per anni e anni, ma soprattutto aveva somministrato a Gypsy medicine e cure di cui non aveva assolutamente bisogno, causando danni irreparabili tra cui la caduta dei denti e l’asportazione delle ghiandole salivari. Ogni volta che dovevano apparire in pubblico, la drogava pesantemente per farla sembrare meno intelligente e meno presente. L’aveva cresciuta trattandola come una bambina piccola, impedendo ogni contatto col mondo esterno, permettendole di guardare soltanto cartoni animati, convincendola di avere molti anni in meno di quelli che aveva in realtà. L’aveva anche convinta che suo padre fosse un alcolizzato violento, quando invece era un uomo normalissimo che inviava alla figlia malata soldi e regali (da lei prontamente intercettati).

A un certo punto, assistendo durante le visite alle perplessità di alcuni medici, Gypsy aveva iniziato a sospettare. Si era accorta, ad esempio, di essere perfettamente in grado di camminare da sola. Di notte accedeva a Facebook con un profilo segreto. In un gruppo di incontri per cristiani aveva conosciuto Nicholas, diagnosticato (lui però veramente) con schizofrenia e autismo. Chattano per anni, si innamorano, fanno sexting, lei un giorno prova perfino a presentarlo alla madre (fingendo di incontrarlo al cinema per caso), che però la punisce duramente. E così, nel corso dei mesi, si fa strada nelle loro menti l’unica soluzione possibile. Quando confessano l’omicidio – fisicamente attuato da lui ma orchestrato da lei – e la storia degli abusi della madre emerge del tutto (anche dopo averla uccisa, Gypsy è ancora convinta di avere alcune malattie: sarà con gli esami che le fanno in carcere che scoprirà di essere sana – a parte, ovviamente, per i danni provocati dai farmaci e dalle cure di cui non aveva bisogno – e capirà che quindi la violenza della madre era stata ancora più grave e pervasiva di quanto credesse), i due ricevono due condanne molto diverse: lei, per ovvi motivi, soltanto 10 anni, lui l’ergastolo. C’è chi considera Nicholas Godejohn la vera vittima di questa storia: a sua volta manipolato da Gyspsy, che apprende l’arte da sua madre, dovrà passare tutta la vita in carcere.

Ma i veri protagonisti della storia, alla fine, sono i social. Dee Dee e Gypsy sono diventate famose su Facebook ma avrebbero potuto benissimo diventarlo anche su TikTok: mi capita spesso di vedere nei “per te” profili di mamme che diventano virali condividendo la difficile vita quotidiana coi loro figli disabili o gravemente malati, ricevendo commenti pieni di amore, stima, sostegno, consigli. Ma anche domande e curiosità morbosa. La stessa che ora si riversa sul profilo della bellissima Gipsy, finalmente libera, sempre sorridente (dettaglio angosciante: lo è sempre stata), mentre bacia suo marito (la bio di lui su Instagram: «My name is Ryan Anderson. I’m from Louisiana. I’m married to the most wonderful, most beautiful woman in the world, Gypsy Rose Blanchard…»), sperimenta i filtri snapchat con qualche anno di ritardo, trascorre le feste con il padre, con cui ha riallacciato i rapporti, e la matrigna. Tutti la amano, ancora più di prima. Chi già la adorava nei panni di una ragazzina gravemente malata, si ritrova ad adorarla in quanto tragica vittima di gravissimi abusi, nonché coraggiosa assassina perfettamente giustificata dalle circostanze (il suo è il primo caso in cui a morire è la persona affetta di sindrome di Munchasen per procura e non la vittima delle cure). Ogni cosa che pubblica viene inondata da centinaia di commenti: chi le suggerisce il filtro che crea arcobaleni negli occhi, chi le chiede se le piace Lana Del Rey, chi si commuove pensando che la vita può iniziare anche a 32 anni (Gipsy è nata nel 1991 e non ha mai vissuto come una persona libera: è passata da sua madre al carcere) e chi già si lamenta perché “la queen” risponde soltanto ad alcuni commenti.