Internet ci sta trasformando in feticisti della guerra?

Centinaia di video su YouTube, migliaia di immagini sui social, un'infinità di commenti: dopo un anno di conflitto in Ucraina ci siamo ormai abituati a pensare alla guerra come a un qualsiasi altro contenuto.

06 Aprile 2023

C’è ancora la guerra in Europa, ma è diventata un rumore di fondo. È trascorso più di un anno da quando Putin ha invaso l’Ucraina: doveva conquistare Kiev in tre giorni, si è impantanato in una guerra novecentesca. Nel frattempo, ci siamo un po’ stufati dei dispacci dal fronte. Niente più cronache dai birrifici artigianali convertiti in fabbriche di molotov, poco risalto alle notizie sui rapimenti dei bambini, prelevati dagli ospedali e deportati in Russia, ai campioni olimpici morti in battaglia viene dedicato, quando c’è spazio, un trafiletto a pagina quindici, non parliamo neanche dei social, dove la guerra in Ucraina è già preistoria. È il ciclo delle informazioni, che spreme qualsiasi argomento, senza una scala gerarchica. Noi lettori siamo sopraffatti dalle notizie, ci spaventiamo, diventiamo emotivi, abbiamo paura di una guerra nucleare. Ma poi c’è sempre una data di scadenza, i giorni passano, l’attualità incalza, le banche falliscono, Berlusconi viene ricoverato in terapia intensiva. Come si fa a star dietro a tutto?

Un modo ci sarebbe, anche gratuito, o quasi: YouTube. Fra i miliardi di video che compongono questo jukebox onnisciente, si trovano innumerevoli testimonianze che rendono la guerra in Ucraina la più documentata della storia. Non era mai successo che tutti i soldati coinvolti in un conflitto potessero filmare minuto per minuto ciò che accade. Oggi, in Ucraina, non c’è una battaglia senza una videocamera che riprenda. Resistono i reportage istituzionali, dove giornalisti anglosassoni dall’aria di mondo ci spiegano che cosa succede a poche centinaia di metri dal fronte, protetti da un giubbino antiproiettile, sovrastando con voce ferma il rumore delle artiglierie. Ci sono però soprattutto i filmati amatoriali. Sono una valanga, quasi sempre ripresi da una GoPro fissata sull’elmetto di un soldato, senza montaggio, in piano sequenza, con la stessa inquadratura – il fucile al centro dell’immagine – dei videogiochi di guerra sparatutto. Fango, nevischio, betulle, respiri affannosi e urlacci ai compagni di reparto, spesso resi anonimi dalle facce pixellate. Incontri casuali e concitati con i civili, che offrono pane o vodka. Sono video tragici, si capisce benissimo che la morte è dietro l’angolo. Ma trasmettono pure un certo fascino magnetico: è come se i vecchi racconti dei nostri nonni, gli ultimi italiani a vivere qualcosa di simile, si fondessero con Call of Duty.

Su YouTube è conservato un giacimento di canali che raccolgono video del genere, spesso spediti dagli autori. Per esempio WarLeaks, oltre due milioni di iscritti, mostra il punto di vista di un soldato ucraino della sessantasettesima brigata durante uno scontro a fuoco con la famigerata brigata Wagner nei dintorni di Bakhmut, e la liberazione a smitragliate di un villaggio occupato dai russi ripresa da un carro armato che procede a tutta birra sulla strada principale. Su Kanal13, un milione e mezzo di iscritti, si trovano combattimenti in ambientazione urbana, che riprendono militari dell’esercito ucraino, arroccati a Kherson, mentre marciano in uno scenario alla Cormac McCarthy e si rifugiano in palazzi semidistrutti, salendo su scale pericolanti. Civ Div è il canale di un ex marine americano, ex volontario nella guerra in Siria con lo Ypg e oggi arruolato nella legione internazionale in Ucraina, dove condivide con più di mezzo milione di seguaci le sue missioni dal fronte.

Si potrebbe andare avanti un bel po’, oltre questa minuscola selezione, spulciando fra le migliaia di video che l’algoritmo propone a chi digita sulla barra di ricerca qualcosa tipo gopro footage ukraine war. Per non parlare di Twitter, Instagram e TikTok. Questi video, girati dai soldati, rappresentano una piccolissima percentuale delle cronache al servizio di chi volesse informarsi su quello che succede a meno di duemila chilometri a est di Trieste, in un mare di documentari e testimonianze più analitiche. Quante cose sono cambiate, dai tempi delle corrispondenze da Baghdad di Lilli Gruber e del Giornale di guerra e di prigionia di Gadda. Siamo diventati feticisti della guerra? Sì, ma nello stesso modo in cui siamo diventati feticisti di tutto: dalla ricetta perfetta della carbonara ai cartoni animati dell’infanzia. La responsabilità, lo sappiamo, è di questi telefoni enciclopedici con schermo e videocamera che teniamo sempre in tasca e che hanno il potere di smarmellare tutto, mettendo sullo stesso piano Tango di Tananai e le polemiche sul discorso di Zelensky a Sanremo, i reportage del New York Times sui giorni dell’orrore a Bucha e i vaniloqui di Orsini, in un flusso continuo che alterna informazione e intrattenimento, dove i confini sono sempre più sfumati, e che ci lascia sempre più confusi.

Sorge spontanea una riflessione: ma come è possibile che nella società dell’informazione, in cui anche i cittadini più pigri hanno comodamente a disposizione fonti e analisi, spesso gratuite e di ottima qualità, per approfondire i temi che ritengono più interessanti, ci siano così tanti storditi che si bevono qualsiasi notizia falsa, anche le più assurde? La risposta è già contenuta nella domanda. Tutte queste notizie si diffondono orizzontalmente, senza una scala gerarchica, con una rapidità folle. Non è facile fermarsi un attimo per elaborare un’opinione. Più che ragionare, ci emozioniamo. Così vincono le narrazioni, e perde la complessità. Chi è convinto che i crimini di guerra di Putin siano una reazione, forse un tantino esagerata ma pur sempre una reazione, alle azioni degli amerikani cattivi continuerà a crederci contro ogni evidenza, in barba a tutti i video che documentano le illogiche crudeltà dell’esercito russo, al grido di “eh ma la Nato si è espansa illecitamente a est, Zelensky è un guerrafondaio”, trovando online informazioni false a conforto delle sue tesi, e gente che la pensa come lui. Intanto l’Ucraina continua a combattere per valori che noi diamo per scontati, mentre una parte sempre più consistente dell’opinione pubblica italiana si è scocciata e inizia a pensare che, tutto sommato, se la sono anche un po’ cercata, e in fondo farebbero meglio a consegnarsi a Putin. Che caos, che mancanza di punti di riferimento unanimemente riconosciuti. Finché le istituzioni non si decideranno a regolamentare questo polpettone informativo, continueremo a vivere in questa sconfinata babele digitale.

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