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Get Back dimostra che sui Beatles c’era ancora molto da raccontare

Con un "documentario su un documentario", Peter Jackson svela la storia assurda del loro ultimo disco smontando molte leggende.

di Matteo Codignola

Prima di tutto la storia, anche se ormai la sanno pure i muri. Nel gennaio del 1969 – l’anno dopo il White Album – i Beatles firmano uno sciagurato contratto per non si sa bene cosa: un film, uno spettacolo, un film su uno spettacolo, un documentario sulla band, o tutte queste cose insieme. All’origine del progetto c’è un genio di cui stiamo per fare la conoscenza, lo stesso che ha deciso di rinchiuderli in un capannone a Twickenham e di filmarli mentre registrano il nuovo disco. Il tempo è pochissimo – causa un impegno improrogabile di Ringo, 22 giorni – i pezzi in gran parte da scrivere, la scaletta tutta da decidere. Ci sarebbe di che innervosirsi, ma i Beatles sostengono di preferire da sempre le spalle al muro. A lasciarli interdetti è piuttosto il setting, e c’è da capirli. Sbattuti otto ore al giorno in un hangarone vuoto, con l’unico arredo di un chromakey, forse anche Francesco e Chiara si sarebbero messi a decapitare passeri: specie se avessero avuto intorno la presenza assillante del genio in sigaro e dolcevita di cui sopra, Michael Lindsay-Hogg.

Lyndsay-Hogg è uno dei grandi personaggi che senza Peter Jackson non avremmo conosciuto. Chissà perché i Beatles gli avevano dato retta. Forse li aveva convinti della stessa cosa di cui sembra convinto lui, cioè di essere la copia conforme del suo augusto genitore, carnale o putativo che fosse. Il che per certi versi risulta anche vero. Proprio come avrebbe fatto Orson Welles, infatti, Lindsay-Hogg arriva sul set, accende le non poche cineprese a disposizione, e batte uno dei due ciak da quattro ore in cui pare consistere, secondo lui, una bella giornata di riprese. Da lì in poi, senza degnare di un’indicazione né gli operatori né il direttore della fotografia, si aggira inciampando nei cavi, e importunando chiunque gli passi accanto con una serie interminabile di fregnacce. Avendo il loro da fare, dopo qualche ora i quattro disgraziati delegano a George i rapporti col molestatore, dando origine a una quantità di siparietti entusiasmanti. «Sapete cosa facciamo?», butta lì a un certo punto Lindsay-Hogg, ciancicando il sigàro. «Vi portiamo in Libia e suonate in un anfiteatro romano». «Che stronzata», gli risponde piatto George da dietro la chitarra. «Ah – fa l’altro – Allora potremmo organizzare un concerto su una nave da crociera che riserviamo per noi e un pubblico scelto, figo no?». «Soprattutto economico», commenta George. Giusto, ammette l’altro. «Vediamo, e se andassimo in un ospedale per bambini, magari però con malattie non gravi?». «Se non ti dispiace staremmo provando», lo ferma George mentre accorda lo strumento. E così via.

Però un merito Lindsay-Hogg ce l’ha, anche se involontario. Non avendo la più pallida idea di cosa stesse facendo, ma dovendo pur sempre consegnare qualcosa ai suoi finanziatori, finì per mettere insieme Let It Be, un presunto documentario di durata standard che uscì insieme al disco con l’intenzione dichiarata di raccontarne il making of, e quella nascosta di mostrare in diretta la straziante agonia del gruppo. Il film, di per sé assai modesto, avrebbe comunque fondato una vulgata, che ora Get Back capovolge. Inaugurando un genere nuovo o giù di lì – quello che ha definito, con una certa scaltrezza comunicativa, un “documentario su un documentario” – Jackson dimostra infatti come, usando lo stesso materiale, si possano allestire un funerale di prima classe o una festa mobile. D’accordo, l’aveva detto anche Ejzenstejn, ma facendola cadere un po’ più dall’alto.

In realtà, non è proprio lo stesso materiale. Stufi dell’hangarone e anche dell’Orson tascabile, dopo qualche giorno i quattro decidono di eliminare almeno uno dei due incubi, trasferendosi armi e bagagli negli studi parecchio più accoglienti della Apple (dove Lindsay-Hogg aveva fatto, nel suo montato, giusto una puntatina). Ed è lì che la festa vera comincia. I ragazzi cominciano a divertirsi come gli succedeva sempre, a rifare la storia del rock con un rosario di cover una più strepitosa dell’altra, e quanto capita a dare un ritocchino a “Let It Be”: il tutto senza accennare a prendersi sul serio, né smettere di guardarsi negli occhi, si confessano a voce alta Paul e John, come due sposi. Quella dell’odio implacabile che avrebbe screpolato a vista l’unità dei quattro molto prima della loro fine certificata è la prima delle leggende che il film di Jackson rade al suolo. Poi vengono le altre, quasi nessuna esclusa.

Cominciamo dalla più tenace e formulaica, il ruolo di Yoko nella dissoluzione della band. Circola da cinquant’anni senza variazioni sostanziali, e in un pezzo sul New York Times di qualche giorno fa, peraltro piuttosto divertente, Amanda Hess ha scritto che il film dimostra una volta per tutte come a rendere l’ecosistema Beatles inabitabile per tre dei suoi quattro occupanti originari siano state la presenza ininterrotta e le altrettanto ininterrotte performance della signora Ono. Sì e no. Come facesse John a suonare con le braccia della suddetta al collo rimane oscuro, eppure a tratti quelle performance – Yoko che caccia da una busta ago e filo e risistema la pelliccia di John, Yoko che scarta una gomma e non si dà pace finché non la caccia in bocca all’amato, rischiando di soffocarlo – si direbbero parte integrante dello spettacolo. Persino i Beatles ne sembrano convinti, e il duetto con Paul alla batteria e Yoko al primal scream è uno dei momenti più irresistibili del film.

Ce ne sono non so quanti, però, dato che per i Beatles la forma esteriore del processo creativo era un magnifico cazzeggio quasi tourettico – che va benissimo, se il risultato è “Don’t Let Me Down”. Per quel che vale, il mio preferito rimane il cameo di Peter Sellers: arriva in studio mentre i quattro stanno discutendo seduti in circolo, saluta Ringo, chiede a John e Paul di cosa stanno parlando. Loro glielo riassumono, lui annuisce, sorride, poi saluta di nuovo ed esce di quinta. Durata complessiva della sequenza, e della visita di cortesia, sotto il minuto. Per il senso di entrambe, vedi alla voce Clouseau.

Dopo sette ore – in realtà, 21 giorni – di jam session al chiuso, i Beatles decidono di uscire: e, come è noto, di suonare una parte del disco dal vivo, sul tetto della Apple. È una scena che conosciamo a memoria, no? No, quella che conoscevamo a memoria era la versione del solito sospetto in Let it Be, dove in virtù del solito montaggio efferato si narrava di una trovata poco più che promozionale interrotta quando gli immancabili rompiscatole in bombetta, che resistevano persino nella Londra ormai espugnata da Mary Quant, avevano chiamato la polizia. Col cavolo. Restaurando il filmato originale, Peter Jackson racconta, anche qui, una storia completamente diversa.

Per la prima volta dal vivo dopo tre anni – e per l’ultima della loro carriera – i Beatles mettono in tutti e sei i pezzi un’energia, una temperatura emotiva, una felicità di cui sembrano i primi a essere sorpresi. E quattro piani più sotto non ci sono affatto campi di fragole, ma, in una specie di distopia rovesciata, la Londra di Orwell, se non di Dickens: con working, middle e upper class ancora in divisa d’ordinanza e ancora rassegnate a una coesistenza più o meno pacifica. Quanto alla polizia – nella realtà si trattava di due Bobby minorili, dediti per imbarazzo a una poco autorevole masticazione del sottogola – arriva sul tetto troppo tardi, quando il concerto è comunque finito. Neppure in crescendo: con un bis di “Get Back” imprevisto e stranamente sgangherato, che a un certo punto si sgretola quasi da solo, rendendosi disponibile agli amanti del simbolismo non troppo sofisticato.

È la fine più o meno di tutto – del decennio, dei Beatles, e anche del film. Di questa versione incomprensibilmente abbreviata, almeno. Siccome ne esiste una più lunga di dieci ore – l’ampiezza minima, secondo Jackson, per rendere giustizia alla ricchezza del materiale – Disney sarebbe pregata di renderla disponibile al più presto. In alternativa ci toccherebbe riversare le stesse diciotto ore in qualche porcheria Netflix, se non Marvel. E francamente, chi ne ha voglia?