Tutte le foto e i ritratti di queste pagine sono stati scattati da Jonathan Frantini a Casa Fornasetti a Milano, in Via Bazzini, insieme ufficio dell'azienda e abitazione privata di Barnaba

Stili di vita | Dal numero

A casa di Barnaba Fornasetti

Incontro con il direttore artistico del marchio che è diventato il simbolo di un modo molto milanese di intendere l'industria e la bellezza.

di Federico Sarica

Nell’articolo con cui il 21 ottobre del 1988 il New York Times dava la notizia della scomparsa di Piero Fornasetti, un gigante del ‘900 nel design e nelle arti decorative, c’è una frase che aiuta a definire molto bene la storia del celebre marchio: «La sua famosa serie di piatti Adamo ed Eva», scrive Suzanne Slesin, «è considerata contemporaneamente controversa e decorativa». Trent’anni dopo, vale a dire il lasso di tempo trascorso con Barnaba Fornasetti, figlio di Piero, alla guida del marchio, se ci si prova a concentrare un attimo su cos’è stato e cos’è Fornasetti, non si sbaglia a pensare che quel doppio aggettivo racchiuda bene in sé questa creatura unica. La forza di Fornasetti probabilmente sta tutta qui: riuscire a essere contemporaneamente decorativo – vale a dire portatore sano e non rumoroso di bellezza – e controverso – quindi mai banale, mai accomodante, sempre veicolo di un pensiero laterale o di una gioiosa provocazione. Quando abbiamo pensato a un numero su Milano e ci siamo messi in cerca di storie di copertina nel senso più puro del termine, e cioè di storie che ne potessero rappresentare e contenere molte altre, Fornasetti ci è sembrata una buona idea, anche vista la fortunata coincidenza dei trent’anni di Barnaba al timone dell’azienda. Nel suo essere “controversa e decorativa”, la produzione di Fornasetti rappresenta bene un’idea di Milano che ci piace molto e di cui abbiamo discusso, insieme ad altri argomenti, proprio con Barnaba nella splendida e leggendaria cornice di Casa Fornasetti, in via Bazzini, nel cuore nordorientale della città. Qual è quest’idea di Milano? Quella di una città che lavora e si diverte, dove industria e creatività hanno trovato, negli anni, più di un punto in comune, fino a sottoscrivere quel tacito patto su cui si basano le fortune di questa metropoli unica, dove le biografie dei suoi campioni migliori finiscono per diventare parte viva e integrante di sogni, ambizioni e immaginari in perenne evoluzione. Come nel caso di Fornasetti, appunto.

ⓢ Trent’anni a capo di un’azienda che porta il suo nome. È stato come se l’aspettava finora? E cosa si immagina da qui in poi? Quanto sono cambiati il suo lavoro e il suo punto di vista su di esso in questi anni?

È stata un’avventura, inaspettata e imprevedibile sin dall’inizio, da quando mio padre mi ha chiamato a collaborare chiedendomi aiuto in un momento di difficoltà. In quel momento il mio percorso andava in tutt’altra direzione, ero lontano da casa da più di dieci anni; eppure non ho mai messo in discussione quello che poi ho fatto: rientrare a Milano, rimboccarmi le maniche e impegnarmi a rimettere sui binari quella straordinaria eredità artistica e culturale che mio padre aveva deciso di lasciarmi. Da quel momento in avanti sono cambiate tantissime cose, sia per quel che riguarda il mio punto di vista, il mio modo di stare in azienda, sia per quanto riguarda le tecniche, le collaborazioni, il team. Ho dovuto sperimentare molto, prima di individuare la formula magica che oggi è Fornasetti. Ex post, mi rendo conto di averlo fatto sempre in un’ottica di miglioramento qualitativo, mai di crescita economica. Se guardo al futuro, come dico sempre, mi piacerebbe potenziare la ricerca degli ambiti e delle modalità di applicazione della decorazione, al di là del mercato. E poi vorrei incrementare i miei interventi nel sociale. Sono elementi su cui rifletto costantemente.

ⓢ Mi pare di capire, da quel che ho letto in giro, che tiene molto al concetto di decorazione, alla definizione di “non necessario” che diamo a parte della produzione artistica e culturale. Credo sia un punto cruciale, che tiene dentro il rapporto fra il bello, il consumo, la cultura e i nostri stili di vita. A che punto è arrivata la sua riflessione a riguardo?

Continuo a essere fermamente convinto del fatto che non ci sarà evoluzione finché l’economia verrà regolamentata da parametri legati esclusivamente al profitto, e non invece a qualità della vita e sostenibilità economica e sociale. Questo è il mio pensiero di fondo. Tutto ciò che appare non necessario in realtà lo è: dipende dal punto di vista. Se si continua a considerare l’evoluzione sociale esclusivamente da un punto di vista meramente economico, la bellezza continuerà ad apparire, a primo acchito, inutile.

ⓢ Cosa vuol dire fare artigianato oggi in piena era digitale?

Il digitale ha aperto molte strade all’internazionalizzazione del settore manifatturiero italiano e l’internazionalizzazione, a sua volta, assieme alla formazione, è uno dei fattori chiave per il suo sviluppo e per il rilancio della competitività del paese. La rete costituisce senz’altro un’opportunità strategica per la crescita e la proiezione internazionale soprattutto della piccola impresa. È un elemento, questo, attorno al quale, come è accaduto a Fornasetti, può crearsi una sinergia positiva tra generazioni diverse, che finora hanno avuto scarsa attenzione l’una nei confronti delle competenze dell’altra. Per quanto riguarda me, ci tengo a rimanere un uomo dal pensiero analogico: questo perché penso che in questo momento la tecnologia abbia invaso in modo eccessivo le nostre vite e che un completo asservimento non sia in alcun modo favorevole allo sviluppo umano. Constato spesso che molte mie intuizioni non sarebbero mai sorte nella mente di chi quotidianamente lavora con i nuovi strumenti digitali.

ⓢ A proposito di sviluppo e rilancio del settore manifatturiero: c’è stato un tempo in Italia in cui mondo della cultura e mondo industriale dialogavano in maniera più fluida e naturale rispetto a oggi, dove sembrano sopravvivere pregiudizi reciprochi. Il design, in questo, è spesso un’eccezione. Che ne pensa? Quanto e come le interessa il rapporto fra industria e cultura?

Il rapporto tra bellezza, che è il quid della nostra cultura, e industria è un rapporto salutare e che andrebbe valorizzato. Come è possibile anche solo immaginare un rilancio della competitività italiana slegata da una valorizzazione del bello e del settore creativo? Come sottolinea Stefano Micelli (docente di Economia e Gestione delle Imprese all’Università Ca’ Foscari, ndr), bisogna pensare a un’idea di bellezza di tipo “performativo”: se l’Italia è patria della bellezza non è (solo) perché ha saputo accumulare e conservare un patrimonio straordinario di monumenti e opere d’arte, ma perché ha saputo mantenere viva quella cultura del lavoro e della soggettività che rende così vari e così vivi i suoi manufatti.

ⓢ Molta della fortuna di Milano a livello estetico e culturale è figlia di un mix fra il fascino che suscita la sua tradizione e la capacità laboriosa di stare al passo coi tempi. Una città che lavora e che si diverte. Mi sembra, da profano, che Fornasetti stia un po’ al centro di questo ragionamento. È cosi? Che rapporto ha col passato e col presente della città? E fra lavoro e divertimento che nesso esiste?

Milano è una città che non sta mai ferma, in cui tutto ciò che è avveniristico ha un incredibile fascino e prende subito piede. Il lavoro ha un ruolo centrale a tal punto che diventa un elemento attorno al quale si stringe molta della socialità e del divertimento. Lo spirito apollineo e quello dionisiaco sono spesso compresenti nelle feste milanesi, dove la comunità lavorativa si ritrova, così come in molte sue manifestazioni tangibili: non è un caso che questa sia la città del design e del fashion, dell’arte applicata e funzionale. Milano è la città decorativa per eccellenza: un campionario di stili attraverso tutte le epoche che puoi vedere sulle facciate degli edifici girando in città – peccato solo che si cammini e si pedali sempre meno.

ⓢ Il presidente di Gucci Marco Bizzarri, intervistato per la storia di copertina di Studio di qualche mese fa, ci ha raccontato quanto sia importante, anche per un’azienda delle dimensioni di quella che lui guida, difendere la creatività nel lavoro di tutti i giorni. «Difendere la scelta creativa», ci ha detto quando gli abbiamo chiesto quale fosse il cuore della sua strategia. Lei è un creativo ma anche un manager e un imprenditore. Come coniuga i vari ruoli?

È fondamentale preservare la creatività pura, l’intuizione che nasce fuori dagli input di mercato. Credo che non subire la pressione del contesto, oggi più che mai in cambiamento costante, sia sempre stato il segreto attorno al quale è fiorita Fornasetti: una delle principali lezioni che ho imparato da mio padre, in cui ho sempre creduto e che porto avanti con fermezza, riguarda proprio il non essere influenzato dai trend temporanei. Mi ha insegnato a resistere al conformismo e, in fine dei conti, credo che questo abbia determinato la mia capacità di intraprendere sempre scelte indipendenti e preservato un’identità definita per l’Atelier. Per quanto riguarda il binomio creatività-razionalità, credo che l’equilibrio tra i due fattori sia insito nel dna di Fornasetti e anche di Milano: tutti i nostri oggetti sono prioritariamente funzionali e portano con sé un forte contenuto artistico.

Credo che il binomio creatività-razionalità sia insito nel dna di Fornasetti e anche di Milano: i nostri oggetti sono funzionali e dal forte contenuto artistico

Fornasetti ha una matrice artistica: la rilevanza data alla creatività ha sempre fatto parte, in modo inscindibile, dell’identità dell’Atelier. La creatività, la manualità e la sostenibilità sono ingredienti fondamentali: abbiamo sempre difeso questa formula con tutte le difficoltà che questo ha sempre comportato. È in questo solco, in questa dimensione di valori, che si collocano i progetti culturali che abbiamo portato a termine negli ultimi anni. Fornasetti è un’azienda che, proporzionalmente al proprio fatturato, investe molto in cultura e attività no profit. Questo trova la sua ragione nella convinzione che il mondo possa essere salvato dalla bellezza e da una dimensione di senso. Sento come una responsabilità a spingere il potenziamento della cultura perché diventi un trend, qualcosa che tutti desiderano. Quando vedo la gente fare la fila fuori dai musei, credo che sia un segnale interessante e incoraggiante.

ⓢ Gli amici stranieri che vengono a Milano, quelli più raffinati fra loro, citano spesso Fornasetti come un pezzo di città che vorrebbero portarsi a casa. Ci si rivede in questo ruolo di produttore di gadget di alto livello? Perché Fornasetti, secondo lei, colpisce sempre un certo tipo di immaginario?

C’è un aspetto fondamentale che riguarda l’immaginario da cui attinge Fornasetti: è quello in cui tutti ritrovano frammenti di memorie culturali. Le fonti di ispirazioni del linguaggio visivo creato da mio padre sono molteplici e vengono da quel passato che ha sede nel nostro inconscio collettivo. Si tratta di figure che sono da sempre nelle nostre menti e memorie. Fornasetti vi ha preso ispirazione e le ha rielaborate dando vita a un mondo onirico, denso di immagini e colori, attraversato da un’ironica fantasia. È per questo che spesso colpisce persone che hanno un certo tipo di profondità culturale.

ⓢ Fra le tante cose ha fatto anche riviste nella sua vita, se non sbaglio come art director. Le piacciono ancora i giornali? E che ruolo possono avere oggi?

Sì, vero, si trattava di una rivista del panorama underground musicale. I giornali mi piacciono molto – sono un uomo analogico, gliel’ho detto. Sono uno dei pochi che ancora acquista e legge riviste cartacee internazionali – ne leggo molte, anche se cerco sempre di non lasciarmene influenzare. Oggi per le riviste vale lo stesso discorso dei libri cartacei: la loro diffusione è diminuita molto, ma continuano ad avere un ruolo fondamentale. Difendono un approccio lento, un soffermarsi, una comprensione che va a braccetto con l’interiorizzazione di un concetto, la maturazione del pensiero e dell’opinione, secondo un processo molto distante dal consumo rapido a cui porta il dispositivo digitale. Il problema è che le riviste, dovendo sopravvivere, stanno divenendo sempre più dei cataloghi aziendali, pieni zeppi di pubblicità.

ⓢ C’è una cosa che non ha ancora fatto e vorrebbe fare?

Sogno di riunire sotto lo stesso tetto i dipartimenti di Fornasetti, dalla produzione all’area commerciale, dal dipartimento grafico a quello marketing e comunicazione. Immagino di sviluppare una parte dedicata alla didattica, strettamente connessa con il Politecnico e con altre istituzioni di formazione del territorio, e che ci sia spazio per un museo. E sogno che la cosa diventi un esempio anche per le altre realtà produttive nazionali. Un altro sogno? Fare un film su Lina Cavalieri, una figura femminile in linea col ruolo della donna contemporanea.