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Al Burning Man, il festival più amato dai miliardari più odiati del mondo, sta succedendo un disastro, di nuovo Tempeste di sabbia, code di otto ore per entrare, l'Orgy Dome distrutto: dopo la tremenda edizione 2023, anche quest'anno le cose sembrano mettersi male.
Se ci fosse un Leone d’oro per la miglior locandina, l’avrebbe già vinto Bugonia di Yorgos Lanthimos Il regista aveva dimostrato già un impeccabile gusto in fatto di locandine con quelle di Kinds of Kindness. Con quella del film che presenterà a Venezia è riuscito addirittura a superarsi.
I (pochi) turisti stranieri in vacanza in Corea del Nord sono rimasti molto impressionati dalla falsa Ikea e dal falso Starbucks di Pyongyang In tutto e per tutto simili ai loro corrispettivi occidentali e capitalisti, e anche un tantino più cari.
Werner Herzog ha aperto un profilo Instagram e nel suo primo post c’è lui che fa una grigliata Nella caption del post si legge: «I am Werner Herzog. This shall be my Instagram».
Dobbiamo iniziare a prepararci al nuovo album degli Arctic Monkeys? Secondo diversi indizi e indiscrezioni raccolte dai fan, la band è già al lavoro. Anzi, sarebbe già a buon punto.
La Nasa smetterà di studiare la crisi climatica perché secondo il suo capo non è una questione che la riguarda Sean Duffy ha detto che la Nasa deve dedicarsi solo all'esplorazione spaziale, non «a tutte queste scienze terrestri».
In autunno uscirà il memoir postumo di Virginia Giuffre, una delle principali accusatrici di Jeffrey Epstein Si intitola Nobody’s Girl, Giuffre lo avrebbe completato pochi giorni prima di suicidarsi, il 25 aprile scorso.
L’equivalente irlandese di Trenitalia ha introdotto una pesante multa per chi ascolta musica o guarda video senza cuffie sul treno Ireland’s Iarnród Éireann (Irish Rail) ha avvertito i suoi passeggeri: da adesso in poi, chi non tiene le cuffie e il volume basso, pagherà 100 euro di multa.

Generazione Fleabag

La seconda stagione della dark comedy di Phoebe-Waller Bridge la riconferma come una delle migliori autrici contemporanee.

21 Marzo 2019

Quando Phoebe Waller-Bridge guarda in camera mentre interpreta Fleabag, la protagonista senza nome (solo un insulto, “sacco di pulci”) della serie Bbc che l’ha consacrata come una delle migliori autrici della sua generazione, fa sempre una smorfia particolare, un mezzo sorriso che sconfina negli occhi lunghi e leggermente abbassati, capaci di stabilire una connessione immediata con chi la guarda. In quello sguardo un po’ storto c’è una consapevolezza strana, quella di condividere un breve momento di ilarità fine a se stesso, paragonabile a quando si ride per via di un meme intercettato su internet. È un momento di comicità ma anche di solitudine, una connessione fasulla creato da uno sguardo che è diretto allo spettatore ma in realtà è introspettivo, racconta di personalità multiple, maschere sociali, autoironia filtrata dallo schermo. È un lascito teatrale, certo, ma che si trasforma nel senso attraversando il mezzo digitale.

Sarebbe facile intruppare Fleabag nella pletora di antieroine televisive cui ci siamo abituati negli ultimi anni (e qui bisogna ricordare Abbi e Ilana di Broad City), inserire il suo racconto, esplorato oggi da molte autrici, nel ventaglio delle possibilità che la vita di qualcuno possa incepparsi, che un personaggio possa essere immobile, risultare disobbediente alla progressività forzata di certo storytelling e che anzi si crogioli, perfettamente a suo agio, in quella sua immobilità. Sarebbe giusto fino a un certo punto, però, perché questa attesa seconda stagione, che ricomincia 371 giorni, 19 ore e 26 minuti dopo la prima, ci riconsegna una “fleabag” che si pulisce il naso insanguinato nel bagno di un ristorante sofisticato, insolitamente calma e padrona della situazione. Si trova suo malgrado nel bel mezzo di una complicata cena famigliare, imbottigliata in un’atmosfera da Carnage e circondata di personaggi che anche quando sono appena accennati (come la cameriera “bisognosa d’attenzioni”), contribuiscono lo stesso a costruire quella tensione specifica che solo l’estrema vicinanza ai parenti più prossimi può provocare. Fleabag sembra davvero essere giunta a una nuova consapevolezza, come spiega a suo padre in una scena bellissima del primo episodio. Lui tra mezze frasi cerca di dirle che la trova bene, «sembri… forte. Lo sei?» le dice, prima di riconoscere, stupito, «che non sta facendo la problematica» e di chiederle come mai, cos’è successo, dov’è finita quella figlia della quale non ha mai compreso il funzionamento: «il perché, credo, non importa», risponde lei, freddandolo forse senza neanche provarci. Il suo sguardo in quel momento è fisso in quello del padre (interpretato da Bill Paterson), che non trova migliore soluzione che ritornare al tavolo, accanto alla sua nuova compagna (Olivia Colman nel suo ruolo più odioso, ovviamente riuscitissimo) e alle strambe creature che lo popolano.

Fleabag è davvero cambiata? Non del tutto: nella sua continua ricerca di se stessa e degli altri, al momento è impegnata a cercare di scoparsi un prete (Andrew Scott) o forse di «scoparsi Dio», come le suggerisce la terapeuta interpretata da Fiona Shaw, che Waller-Bridge aveva già scritturato per Killing Eve, la serie del 2018 con protagoniste Sandra Oh e Jodie Comer. A tre anni dalla prima stagione, e a sei dallo spettacolo omonimo da cui è tratta e che Waller-Bridge ha recentemente riportato a teatro, Fleabag continua a fare quello che viene meglio alla sua autrice: raccontare un certo modo di vivere l’età adulta, una certa contraddizione tra mondo femminile interiore e mondo là fuori, un certo modo, anche, di portare il vecchio trench blu, sicuro, sempre uguale, buttato sulla tuta da sera con la scollatura profonda, il rossetto carnoso e il bob come quello delle pazze sorelle Mitford. Ha scritto Jess Cartner-Morley sul Guardian che tutte le donne della serie, soprattutto la sorella (personaggio meraviglioso, interpretato da Sian Clifford), ma anche la matrigna artista, la donna in carriera che ha il volto inconfondibile di Kristin Scott-Thomas, cameo d’eccezione, persino la terapeuta che compare in una sola scena, hanno uno stile personale, ricercato, che spesso va a riempire tutti quei vuoti, o tutti quei dettagli, che loro sembrano non voler rivelare. Come fa la stessa Fleabag, che nasconde e mostra il fisico da modella in tute aderenti che però si mantengono nel territorio della provocazione a metà, e come fa Villanelle in Killing Eve, per la quale i vestiti sono ulteriore occasione di depistaggio. Sono due personaggi che hanno una bella parlantina, scrive Cartner-Morley, eppure sappiamo così poco di loro: di Fleabag, appunto, neanche il suo vero nome.

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