Attualità | Polemiche

Fedez, Requiem for a tweet

Un litigio su Twitter, uno scambio di persona, i meme, le minacce, la gogna e la denuncia: la guerra del rapper/influencer agli hater ha preso una piega tragicomica che rischia di minare le fondamenta del suo impero.

di Francesco Gerardi

Tutti gli hater sono stupidi nello stesso modo, ogni hated è stupido a modo suo. Il perché potrebbe spiegarlo Fedez: gli hater non hanno nome né volto, e quando ce li hanno scopri troppo tardi che sono quelli sbagliati. Ma come si fa a distinguerli, tutti con gli stessi nickname assurdi, le stesse foto profilo senza senso, gli stessi insulti ripetuti come parole chiave a fini di posizionamento: davvero tutti gli hater sono stupidi nello stesso modo, che immagino sia una linea difensiva possibile per il suo, di Fedez, giorno in pretura che verrà. Gli odiati invece “ci mettono la faccia”, come piace dire a lui: nel suo caso, la faccia dell’unico odiato che è riuscito a farsi denunciare dall’odiatore che poi odiatore non era (almeno, non di Fedez, non che si sappia). Fedez ha provato a distruggere la ruota del cosiddetto “odio online” e sotto quella stessa ruota si è ritrovato per l’ennesima volta schiacciato. Voleva spezzare la gogna che stringe i colli del suo popolo (quello delle celebrity) dall’avvento di internet e invece è diventato quello che la gogna l’ha chiusa attorno al collo di un povero cristo passato per sbaglio sullo schermo del suo telefono.

I fatti, dunque. Da qualche tempo Fedez è sceso in guerra contro il Twitter calcio (definizione imprecisa per certi utenti che sul social network discutono soltanto di pallone) esasperato da post in cui il mirino si è spostato da lui, Fedez, al figlio, Leone. Casus belli: un post da tale cuchismo – etimo del nick è il soprannome Cuchu dell’ex centrocampista dell’Inter Esteban Cambiasso – in cui una foto di Leone assieme a Theo Hernández del Milan è accompagnata dalla domanda: «Avete solo un proiettile, chi colpite?». Il post di cuchismo ha comprensibilmente sconvolto Fedez, portandolo alla dichiarazione di guerra: «Mi assumo le responsabilità di quello che faccio e voi no, ma è giunta l’ora che diventi così anche per voi. Credete non ci riesca? Ma io vi giuro sulle cose che ho più care nella vita che vi spacco il culo, conigli infami che non siete altro». Da quel giorno cuchismo si è dato alla macchia e uno avrebbe potuto dirsi soddisfatto. Uno che non è Fedez, si capisce.

Il rapper-imprenditore, per giorni che sono diventati settimane, ha pubblicato storie per aggiornare i suoi follower sull’andamento delle querele. Una mattina ha rivelato che un sodale di cuchismo gli avrebbe offerto le sue scuse, ovviamente via avvocato. Fedez ha però annunciato di non esserne soddisfatto: per quelli, dice, ci vuole il tribunale. Perché, dice ancora, «devono metterci la faccia». Nel frattempo il “Twitter calcio”, sempre più sindacato di buffoni di corte (nell’accezione più positiva della figura storica) nonché garantisti, proseguiva nella presa in giro quotidiana del loro obiettivo. Nelle settimane successive all’inizio della guerra tra Fedez e il Twitter calcio, Chiara Ferragni inciampa nella famosa storia del Pandoro. L’imprenditrice è alla gogna, non esce di casa per giorni. Il suo video di scuse viene sbeffeggiato nonostante il look studiato per sembrare più triste. Altre sponsorizzazioni e contratti cadono. Il Twitter calcio se la ride: è tutto un effetto domino iniziato dalla guerra di Fedez?

L’episodio potrebbe essere lo spunto per una discussione sull’unica cosa che meriti di essere discussa sempre: cos’è il potere oggi, chi lo detiene davvero, cosa succede quando finisce in mani incapaci di brandirlo. Per associazioni della mente che non sempre si riescono a spiegare, questa storia di Fedez mi ha fatto tornare in mente una frase pronunciata dal Divo Giulio di Paolo Sorrentino: «Non ho mai sporto querela, per un semplice motivo: possiedo il senso dell’umorismo». E senso dell’umorismo in abbondanza è quello che ci vuole per capire una vicenda che non è nemmeno farsa ma commedia degli equivoci, un adattamento social (che è come dire grottesco) di Intrigo internazionale o di Operazione Shylock: la storia dei guai che vengono dallo scambiare e dall’essere scambiati per qualcun altro. Per la precisione: la storia di uno che non odia Fedez che viene scambiato per uno che odia Fedez, unita alla storia di un rapper/influencer che per ragioni note soltanto a lui (e forse nemmeno a lui) ha deciso di «single handedly fix the internet», come urlava Will McAvoy in uno dei numerosi deliri di onnipotenza che Aaron Sorkin gli faceva pronunciare in The Newsroom.

In questi giorni sui social i commentatori avveduti si chiedono tutti la stessa cosa: può un impero multimediale e multimilionario crollare per l’ossessione del suo Cesare Augusto nei confronti dei cuchismo, dei Maldini Pidocchio, dei Teron Musk, dei Davidone (non invento nulla, questi sono gli alias delle persone alle quali Fedez ha giurato di dare la caccia, tutti capi tribù del Twitter calcio)? Si potrebbe rispondere che imperi veri sono crollati per ragioni minori, che le questioni di principio – o le ossessioni, il confine è labile – cominciano dove la razionalità finisce. E arriviamo a Intrigo internazionale e Operazione Shylock. In una recente puntata del suo podcast Muschio selvaggio Fedez decide che è la volta di Davidone e procede a mostrarne «la faccia da cazzo». Solo che la faccia di Davidone che mostra alle telecamere non è la faccia di Davidone: l’astutissimo hater ha ingannato Fedez spacciando per sua la foto di Wazza (@wazzainter), altra microcelebrity socialcalcistica, che lesto ha proceduto a notificare a Fedez che «mi sa che abbiamo un problema» e che la suddetta faccia di cazzo è la sua, non quella del famigerato Davidone. Siccome la situazione è sempre grave e mai seria, nei giorni successivi il momento in cui Fedez mostra il volto di Wazza sullo schermo del telefono diventa l’ultima aggiunta alla gallery di “Photos taken a moment before tragedy”, i telegiornali nazionali dedicano servizi alla «paura di uscire di casa» dell’odiatore che odiatore non era, La Stampa segna lo scoop – e aggiunge involontario umorismo – rivelando che Wazza si chiama Andrea Pollina ed è pure di Casale Monferrato. I meme che provano a immaginare cosa farà Wazza con il risarcimento che Fedez dovrà dargli non si contano. Quelli sulla crisi (di nervi) dei crisis manager che in questo momento stanno cercando di salvare il salvabile dei Ferragnez nemmeno.

Come detto, si potrebbe fare una discussione vera, seria, rilevante sull’accaduto. Si potrebbe discutere di frasi come «Vuoi chiedere scusa? Mi fai un bel video, se ti metti in ginocchio anche meglio… Se tocchi i miei figli, ti devasto. È illegale? Non me ne frega un cazzo. […] È vero, sto facendo leva sul potere che ho», delle conseguenze potenzialmente tragiche – questa è la settimana in cui tutti discutiamo del suicidio di Giovanna Pedretti, d’altronde – queste sì, di un potere (economico soprattutto, ma non solo) così ignorante da non apprezzare i contrappesi, così stupido da non riconoscere i rischi. Potremmo approfittarne per giudicare finalmente la convinzione che everything is content, giunta ormai alle sue estreme conseguenze, l’unico momento giusto per giudicare qualsiasi convinzione. Fedez dice che lui mette online i suoi figli perché vuole che «il mondo virtuale sia uguale al mondo reale». Il mondo reale però è quello in cui esistono istituzioni come la Carta di Treviso e i Garanti che precisano che il diritto di cronaca (un diritto al content ancora non è stato codificato), di ogni colore, si restringe davanti al dovere di proteggere i minori dai cuchismo di questo mondo, che poi sono gli stessi di quello virtuale. Ci starebbe anche sospirare davanti alla contraddittorietà di un’epoca in cui giornalisti che non conosce nessuno che scrivono per giornali che non legge nessuno sono tenuti al rispetto di questi limiti, mentre personaggi la cui influenza è tale da essere diventata qualifica professionale possono agire in vuoti legislativi che le piattaforme non hanno alcun interesse a riempire. E certo, dovremmo rattristarci per l’esistenza dei cuchismo, dei Maldini Pidocchio, dei Teron Musk, dei Davidone, di persone che pensano sia black humor far cadere sui figli l’antipatia che si prova per i padri. Ma tant’è, l’enshittification di internet va avanti da un pezzo, da fare non c’è più niente se non sperare che da questa terra concimata con così abbondante letame nascano fiori, che i giovani e i piccolissimi – come Leone – esposti da sempre a questo veleno sviluppino immunità.

La situazione però non è tanto grave da giustificare questi discorsi. È però abbastanza seria da richiedere una precisazione. Questa storia di Fedez è stata definita shitstorm, impropriamente. Parola travisata e abusata, shitstorm è erroneamente considerata un anglicismo quando in realtà è un germanismo che della lingua tedesca conserva tutta la precisione (la usava anche l’ex Cancelliera Merkel, con un’adorabile pronuncia “shitschturm”, soprattutto per descrivere le conseguenze reputazionali del suo approccio alla crisi economica nell’Europa del Sud). Definisce quei momenti della vita su internet in cui improvvisamente comincia a piovere merda dal cielo. La pioggia di merda cade su tutti, alla stessa maniera, nello stesso momento, e nessuno può far nulla per prevenire o impedire che cada. La situazione in cui si è ritrovato Fedez è in realtà definita dall’anglicismo, questo sì, “shit hits the fan”: la merda finisce tra le pale di un ventilatore e viene schizzata ovunque, colpendo chiunque. La differenza con la shitstorm è che qualcuno la merda nel ventilatore ce la lancia, ed è quel qualcuno il primo a essere travolto dalla stessa. Per evitare di sporcarsi c’è un solo modo: non giocare con la merda.