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L’operazione anti narcos a Rio de Janeiro è stata la più sanguinosa nella storia della città 2.500 agenti delle forze speciali brasiliane hanno attaccato il noto gruppo di narcotrafficanti Commando rosso, provocando 138 morti.
Al Mak di Vienna si terrà la prima mostra mai realizzata sul lavoro da designer di Helmut Lang "Helmut Lang. Séance De Travail 1986-2005" inaugura il 10 dicembre e durerà fino al 3 maggio 2026.
La quarta stagione di The White Lotus sarà ambientata tra Parigi e la Costa Azzurra Saltato l’accordo commerciale con la catena di hotel Four Seasons, HBO sta cercando hotel di lusso vista Senna come set della nuova stagione.
Robert Pattinson sta per lanciare la sua carriera da cantante  L’attore di Batman e Mickey 17 ha registrato sette canzoni da solista, realizzando un’ambizione che coltiva sin dai tempi di Twilight. 
67, l’intercalare preferito della Generazione Alfa, è stata scelta come parola dell’anno anche se non significa niente Dictionary l’ha scelta come parola simbolo del 2025: è la prima volta che un termine senza un significato specifico ottiene questo titolo. 
Luigi Mangione in carcere ha iniziato ad ascoltare Taylor Swift e Charli XCX Lo ha scritto in una lettera in cui dice di «voler capire l’hype che c’è per Taylor Swift e Charli XCX» e di aver inserito "Cardigan" nella sua playlist.
Dopo Barbie, Warner Bros. ha annunciato che farà anche il film di Hello Kitty La pellicola animata non sarà solo per bambini e arriverà nelle sale a giugno 2028, ma non è chiaro se la protagonista parlerà oppure no.
La regista della quinta stagione del progetto Crossroads di Giorgio Armani sarà Celine Song Cinque artiste in altrettanti video per parlare di cosa voglia dire trovarsi di fronte a un bivio (e poi scegliere). Nel primo episodio la protagonista è Tecla Insolia.

Dove stanno andando gli esteri in Italia

Sembravano morti, sono risorti. Un punto sullo scrivere di altri Paesi.

22 Novembre 2017

All’inizio della storia di Studio, quando abbiamo iniziato a interrogarci molto sullo stato dei media in Italia e nel mondo, una delle domande che ci ponevamo spesso era: gli esteri sono finiti? Ce lo siamo domandati in un editoriale del nostro quarto numero cartaceo e poi ancora con una riflessione aggiornata del 2013. Erano gli anni in cui la sezione esteri dei grandi quotidiani a volte si riduceva a un paio di pagine (o anche una pagina e mezzo!), erano gli anni della grande recessione, un bel problema per l’editoria, costretta a tagliare i costi, ma anche un tema che monopolizzava l’attenzione mediatica, perché ai lettori interessava sapere più dello spread e dell’austerity che di quello che succedeva in Afghanistan.

Da allora però sono cambiate molte cose. L’impressione, non solo nostra, è che gli esteri siano tornati a interessare, anche se forse c’è ancora da trovare una quadra su come modernizzarli e, soprattutto, su come fare tornare i conti. Questo rinnovato interesse si vede da un po’ di cose. Per esempio, basta guardare le pagine dedicate agli esteri dalla stampa mainstream: mentre scrivevamo questo pezzo, i due principali quotidiani italiani aprivano sulle fallite trattative di coalizione in Germania. Nel nostro piccolo, a Studio, lo abbiamo visto con un esperimento, Conversazioni EsterE, una serie di incontri e aperitivi sulle relazioni internazionali, di cui Studio è partner insieme al Corriere della Sera, Il Foglio, Radio Popolare e Fondazione Oasis (Il prossimo incontro si svolgerà sabato, dentro la cornice di Studio in Triennale: alle 11:30 faremo due chiacchiere insieme a Paola Peduzzi, Marilisa Palumbo, Rolla Scolari e Michele Masneri per capire come sta cambiando la percezione della Silicon Valley).

Cosa è successo, allora, negli ultimi sette anni? Abbiamo provato a fare un punto su come sull’evoluzione degli esteri in Italia, confrontandoci coi responsabili di questo settore del Corriere (Mara Gergolet) e di Repubblica (Daniele Bellasio). «Siamo decisamente dentro un’onda», ci ha detto Gergolet. «Ricordo che negli anni Novanta, ai tempi di Mani Pulite, gli esteri erano praticamente scomparsi, Carlo Rossella diceva che erano proprio finiti. Poi però è arrivato l’undici settembre e gli esteri sono diventati, quasi di colpo, i veri protagonisti del giornalismo: in Italia si è aperta una stagione di un giornalismo molto improntato agli esteri, per la guerra in Iraq, certo, e quella in Afghanistan, ma anche per una forte attenzione a Israele ai tempi della Seconda Intifada. L’entusiasmo ha cominciato a smorzarsi, direi, intorno al 2006 e il 2007». Qualche anno dopo, la grande crisi. «Lì c’è stata una ulteriore contrazione degli esteri… perché stavamo tutti a pensare ad altro. Nel 2011 l’economia è diventata quello che gli esteri erano nel 2001». La crisi del debito greco, l’austerity, la trojka, eccetera: si parlava molto di Europa, certo, ma attraverso una lente economica.

reporter

Poi è tornato il terrorismo. Prima non ci abbiamo fatto neanche troppo caso: le sparatorie in Francia e in Belgio nel 2012 e 2013 non ci hanno spaventato più di tanto, sebbene, nel caso di Bruxelles, si trattasse del primo attacco dell’Isis in Europa e del primo caso di returnée della jihad trasformato in terrorista domestico. Ma nel 2015, l’anno di Charlie Hebdo, dell’HyperCacher e del Bataclan, ci siamo accorti che la guerra era arrivata a casa nostra: «Forse ce ne siamo accorti in ritardo, ma ci siamo accorti che quello che succede ha un effetto qua», commenta Gergolet. Il 2016 ha riportato, giocoforza, gli esteri al centro della copertura mediatica e per due ragioni. Da un lato, ancora, il terrorismo (Nizza, la metropolitana di Bruxelles), dall’altro l’avanzare dei populismi: «Il referendum sulla Brexit e l’elezione di Trump, arrivati così, a pochi mesi di distanza, hanno avuto una risonanza fortissima. Poi nel 2017 ci sono state le elezioni in Francia e Germania, pure loro ravvicinate e con un’alta posta in gioco, dunque anche questa congiuntura ha aiutato».

Gli esteri, spiega Bellasio, sono sempre ciclici, «una fisarmonica», ma avanzano e retrocedono in base a due fattori: non soltanto l’importanza di quello che succede all’estero, ma anche gli shock più o meno forti che interessano l’Italia, e che possono fare sembrare il mondo esterno più o meno rilevante. Prendiamo la recessione degli esteri del 2006. Era il periodo, certo, in cui la Guerra in Iraq proseguiva ma diventava sempre più difficile coprirla (il 2006 è stato l’annus horribilis della coalizione occidentale, poi la cosiddetta “troop surge” del 2007 ha contenuto la situazione), il periodo in cui la Seconda Intifada finiva “ufficiosamente” ed erano anche il periodo immediatamente successivo a una serie di assassinii e rapimenti di giornalisti che avevano spinto le testate alla cautela. Ma erano anche gli anni dei governi Berlusconi, il secondo e il terzo, che hanno fatto della politica, e delle famigerate scaramucce tra berlusconiani e anti-berlusconiani, la protagonista del giornalismo italiano. «Il fatto che siano una fisarmonica è qualcosa che non possiamo evitare, piuttosto dobbiamo trovare il modo di adattarci e riuscire a fornire le informazioni principali al lettore anche quando lo spazio è poco», prosegue Bellasio.

Il fatto che sia tornata un’attenzione generale per le notizie internazionali, però, non toglie che gli esteri rappresentino una tipologia di giornalismo particolarmente vulnerabile, dove il rapporto costi-benefici non è dei più vantaggiosi, perché mandare la gente in giro per il mondo costa, nelle aree di crisi costa ancora di più e comporta pure gravi rischi. Non è un caso che abbondino sempre più le traduzioni dai grandi giornali stranieri: da un lato è anche un modo di alzare la qualità, dall’altro però è anche un modo di invertire il rapporto costi-benefici.

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