Cultura | Estate

Emenuele Trevi con Senza verso mi ha insegnato a sopravvivere all’estate in città

Calde e vuote, noiose e immobili, invivibili ed eccitanti: le città d'estate si trasformano, proprio come la Roma attraversata a piedi da Trevi nel suo libro.

di Fabrizio Spinelli

Quando intorno al 2011 ho letto per la prima volta Senza verso. Un’estate a Roma, nella storica (per gli appassionati di non-fiction) collana Contromano di Laterza, ho pensato che nessuno descrivesse meglio di Emanuele Trevi l’immobilità crepitante dell’estate in città: le strade vuote, la noia, l’umore depressivo; e al contempo la possibilità che queste cose si rovescino nel loro contrario, in un’autentica avventura, in una possibilità conoscitiva. Era difficile decidere se tutto quel tempo libero rendesse la stagione estiva invivibile o eccitante, tutta quella luce fosse in realtà oscurità, il Tao al centro del mandala o uno spazio vuoto, una toppa depigmentizzata su una tela altrimenti coerente, una macchia di calce.

Senza verso era il libro che faceva per me: l’avevo rubato alla Fnac di via Luca Giordano all’inizio di agosto, e mi apprestavo a trascorrere delle settimane simili a quelle del narratore. Se Trevi, in una deambulazione psicogeografica per le strade dell’Esquilino, tra il platano dell’edicola di Antonio in via Merulana e la Basilica di San Clemente, ne approfittava per raccontare la storia di un poeta semisconosciuto se non negli ambienti romani, un autore introverso, clandestino, sofisticatissimo e ipererudito, Pietro Tripodo (Donzelli ha poi pubblicato un volume che raccoglie i suoi lavori, Altre visioni), di cui era stato amico nei suoi (di Tripodo) ultimi anni di vita, io camminavo per le strade dell’Arenella, tra via Niutta e via Piscicelli (niente di più diverso, urbanisticamente, dall’Esquilino), accompagnato una figura altrettanto enigmatica, un uomo molto più grande di me, che avevo conosciuto in un incontro su Thomas Pynchon e che stava scrivendo, da vent’anni, un romanzo sul tempo («un’epopea dal punto di vista delle lancette di un orologio»). Aveva ormai superato le 2000 pagine, ma era lontano dal finirlo. Si chiamava, anche lui, Pietro.

Se c’è un modo sbagliato per leggere un libro è proprio questo: immedesimarsi, confondere la realtà con la finzione. Mai come in quell’estate, della Fnac (la mia Basilica di San Clemente: come Trevi scendeva sottoterra verso i locali del Mitreo, io prendevo le scale mobili per il piano inferiore del negozio, quello climatizzato con la sezione letteratura) e di Pietro, di una piazza Muzii che aveva i contorni di San Giovanni Maggiore, sono stato un cattivo lettore, un’Emma Bovary non dei romanzi sentimentali, ma della narrativa non-fiction. Perché la lezione del grande romanzo di Flaubert è proprio questa: una lettura ingenua non è solo sbagliata, ma può portare alla morte. La letteratura non ripara il mondo, ma, senza le dovute precauzioni, uccide.

Pietro mi prestava libri che ancora non conoscevo, Il ragazzo morto e le comete di Parise, Horcynus Orca di D’Arrigo, Il male oscuro di Berto, insieme alle riviste dove, incalzato dalle richieste degli amici, aveva pubblicato dei raccontini, degli “omaggi”, come li chiamava. Tutti, nel migliore dei casi (e a differenza delle poesie di Tripodo) mediocri. Non conservavano niente del suo eloquio o della sua sorprendente erudizione. Un noto filologo romanzo con cui, anni dopo, a Parigi, mi ritrovai a parlare di Pietro (era anche in quel caso estate) mi raccontò che alcuni accademici napoletani avevano fatto carriera sfruttando le sue idee, esposte in interminabili cene in cui era difficile farlo smettere di parlare. Quei discorsi, previa un’operazione di raffinamento, diventavano saggi su riviste scientifiche a nome di altri, mentre lui, privo di qualsiasi ambizione o capacità di competere, così distante dal commercio interumano, dal mondo degli scambi (a cui opponeva, citando Binswanger, il “mondo della tomba”), insegnava in un istituto tecnico a Portici e cercava di venire a capo di un interminabile romanzo a metà fra I Buddenbrook e L’Esegesi di Philip K. Dick.

A proposito di tombe. A anni di distanza penso: perché il narratore di Senza verso non se ne stava a casa? Cosa lo portava a uscire e a camminare sotto il sole nonostante quella del 2003 fosse stata a Roma, a detta del Messaggero, l’estate più calda dal 1765? (Nota dal 2024: pivello). Direi due cose. La prima, fondamentale, storica: che all’epoca non erano così diffusi i condizionatori; la seconda, meno decisiva, più testuale: che stava subendo un’invasione di blatte. Per un guasto alle tubature, fiotti di blatte risalivano dal lavandino della casa del narratore, mischiandosi ai piatti sporchi, invadendo i fornelli. Quale figura, quale immagine dialettica, del resto, rappresenta l’estate meglio delle blatte? Blatte che entrano dalle finestre al settimo piano di un ufficio comunale, che volano in sciame come rondini, che intasano le tubature, girano per le cucine dei ristoranti turistici ai Quartieri Spagnoli, delle pizzerie per celiaci del Vomero, si poggiano sui vostri capelli, dietro la nuca sudata, blatte che, se ve le ritrovate in casa, non vanno schiacciate per evitare che si moltiplichino (sotto la pianta della scarpa, se la blatta è femmina, ci potrebbero essere delle uova di blatta, un caviale bianchiccio, l’innesco di una possibile proliferazione). Blatte che entrano nei vostri discorsi, confondono le parole, si sostituiscono ai caratteri del libro tratto da una storia vera che state leggendo, dell’articolo di denuncia all’overtourism che scorrete sul vostro smartphone.

Due giorni fa sono stato a cena da Pietro e Maria (la moglie) con la mia compagna. Ormai l’estate esco il meno possibile di casa. Me ne sto rintanato in quella che Giulia, pietrescamente, chiama “la cripta”, il mio studio dove più che altro scrollo il cellulare in pose sibaritiche, con temperature invernali, come un cadavere di cui si vuole rallentare la decomposizione (la fine del mondo arriverà prima, ma almeno non mi troverà sudato). Nonostante ciò con uno sforzo sono tornato a pizza Muzii, nell’enorme libreria di Pietro, a sfogliare cinquecentine e guardare le sue foto da giovane con Manganelli. Ho pensato che avrei dovuto provare una certa tristezza, o comunque qualcosa di simile a un’emozione, per gli anni che sono trascorsi, per le cose che sono cambiate (senza davvero cambiare), per la mancata pubblicazione del romanzo sul tempo (le cui carte sono state quasi tutte bruciate), per la mia vita, per la noia delle cene estive che si protraggono sino a tarda notte senza niente da dirsi. Non ho provato niente, volevo solo tornare a casa. Nel cortile del palazzo, all’uscita (da un piccolo rialzo si poteva vedere il mare di stagnola grinzosa) il pietrisco era invaso da cadaveri rinsecchiti di insetti, emersi dalle fognature dopo la recente deblattizzazione. Gli arti stretti al ventre, sembravano dei noccioli di oliva. Le ali e le antenne staccate del corpo, come i rimasugli di una frittura di gamberi. Pietro Tripodo: «Di nuovo incedono pegasi nel maggio e l’anno da difformi lustri ridà attimi eguali, che ora spietate vele spiega di tristezza in serbo nella cisterna del giubileo; candore portano così vampe del tempo».

Ognuno di noi ha un libro, una canzone, un film che associa all’estate. “Cose d’agosto” è una raccolta di articoli in cui le autrici e gli autori di Rivista Studio raccontano questo loro feticcio estivo, che sia intellettuale o smaccatamente pop.