Cultura | Arte

Useless Bodies?, una mostra che è come un film

Intervista a Elmgreen & Dragset, autori di un imperdibile evento artistico che inaugura oggi alla Fondazione Prada.

di Clara Mazzoleni

Prima di andare via, alla fine dell’intervista, Elmgreen & Dragset mi confidano che sono un po’ preoccupati per il clima: dopo mesi di bel tempo, pioverà proprio nel giorno dell’inaugurazione della loro mostra Useless Bodies? alla Fonzazione Prada. Cerco di tranquillizzarli dicendogli che nessun evento atmosferico potrà fermare la mondanità dei milanesi (e il loro bisogno di pubblicare stories dell’inaugurazione). Ma in realtà, Elmgreen & Dragset lo sanno già. Dopo più di 30 anni di carriera nel mondo dell’arte, il pubblico, per loro, non ha più misteri. E la ribellione dei primi anni – quando iniziarono a fare le loro performance provocatorie a Copenhagen, negli anni Novanta, tutti li trovavano odiosi (lo dicono loro) – si è trasformata in una saggezza sorniona: sanno di aver capito molte cose ma non hanno nessuna intenzione di salire sul piedistallo.

All’inizio si divertivano a mettere in crisi il mondo dell’arte facendo arte: come quando passarono 12 ore a pitturare di bianco le pareti già bianche di una galleria (“12 Hours of White Paint/Powerless Structures”, 1997). Hanno continuato a farlo, opera dopo opera, pur venendo fagocitati da un sistema a cui piace mostrare di sapersi mettere in discussione. Nel 2005 sono diventati famosi con “Prada Marfa”, un’installazione permanente in Texas, nei pressi della U.S. Route 90. È una finta boutique di Prada che spunta nel nulla, completamente a caso. Un miraggio nel deserto. Partiamo da lì.

Questa mostra alla Fondazione Prada è una specie di chiusura del cerchio, visto che una delle vostre opere più famose, “virali” potremmo dire, è Prada Marfa.
È un’opera che ha circolato tantissimo dopo che l’abbiamo inaugurata, 17 anni fa. Ai tempi c’era un po’ di Facebook, ma era tutto ancora all’inizio. Ma è diventata famosa solo grazie alle immagini e ai social, proprio perché è così difficile da vedere dal vivo.

ⓢ Negli ultimi anni mi è capitato spesso, mentre stavo su Instagram o TikTok, di vedere il famoso poster con il cartello “Prada Marfa” nelle camerette di ragazze che molto probabilmente neanche conoscono il vostro lavoro.
Sì, è una cosa che non avremmo mai immaginato.

ⓢ Un critico d’arte aveva descritto “Prada Marfa” come un simbolo «dell’assurdità dell’arte e dell’assurdità della moda». Come è cambiato, da allora, il vostro punto di vista sulla moda?
Sicuramente negli ultimi anni ci sono state sempre più collaborazioni tra l’arte e l’industria della moda. Sono due mondi che si stanno avvicinando sempre di più. Oggi possiamo dire che rispettiamo molto la moda, perché dipende dai consumatori. È quasi democratica: dipende da quante persone amano quel brand, quanto diventa pop. Al contrario, il mondo dell’arte ha la tendenza a essere molto arrogante nei confronti del pubblico “normale” dell’arte. Siamo ancora al livello di pochissime persone che decidono cosa deve essere esposto, senza un vero dialogo con il pubblico.

ⓢ Mi piace immaginare come sarebbe oggi “Prada Marfa” se fosse stata abbandonata lì, a deteriorarsi senza alcuna manutenzione, com’era nelle intenzioni iniziali (ma un gruppo di vandali velocizzò il processo un po’ troppo, subito dopo l’inaugurazione, allora decisero di mantenerla intatta, nda). Anche in questa mostra c’è uno spazio che verrà “abbandonato” per tutta la durata della mostra, quello con la piscina vuota. La piscina è un simbolo ricorrente nel vostro lavoro. Può essere un simbolo di lusso e benessere ma ha anche un lato oscuro che rappresenta la delusione, il sogno infranto: penso a quella verticale che avete chiamato “Orecchio di Van Gogh”.
Sì, la piscina è molto importante per noi. La prima volta che l’abbiamo usata è stato nel 1997 al Louisiana Art Museum. Quel lavoro per noi era un tentativo di stabilire una connessione tra l’interno e l’esterno del museo ma anche un modo di dialogare con David Hockney e “A Bigger Splash”. La piscina ha qualcosa di erotico, è un invito a spogliarsi, ma anche un sogno di upper middle class, come dici tu: lusso, benessere, relax. È anche una replica della realtà, però: la piscina come illusione dell’oceano. Pitturi di azzuro i muri, riempi d’acqua, e immagini di essere nella natura. Questo ci interessa molto, l’approccio artificiale nei confronti della natura.

ⓢ Un’altra vostra piscina famosa è quella del padiglione alla Biennale del 2009: i visitatori si ritrovavano nella lussuosissima casa di un collezionista. Tra mobili di design e opere d’arte, dei ragazzi giovani e belli bighellonavano annoiati. E poi, il colpo di scena: all’esterno della casa, nella piscina, galleggiava un cadavere a faccia in giù. Il collezionista ovviamente. Nelle vostre opere i visitatori sono spesso “ospiti non invitati”, diventano dei detective sulla scena del crimine. Anche in questa mostra c’è una situazione simile.
Ci piace che l’opera sia come un film in cui si può entrare, avere un ruolo attivo, cercare indizi o piccole tracce, e ci piace anche che i visitatori più attenti abbiano qualcosa all’altezza della loro curiosità: molti entrano, dicono ok, e se ne vanno, ma è per i pochi che vogliono stare un po’ di più e creare una storia più lunga che aggiungiamo quei piccoli dettagli. Ci piace il cinema e ci piace che le opere possano funzionare come dei film, che poi è anche il modo in cui funzionano i nostri ricordi: accumulando frammenti d’esperienza. L’esperienza reale, da fare col corpo, è fondamentale. I social, la pandemia, il metaverso: stiamo capendo, e abbiamo capito, che l’informazione visuale non basta. Bisogna andare nei posti col proprio corpo, avere sensazioni fisiche.

La mostra si chiama “Corpi inutili”, però.
Col punto di domanda.

Giusto.
Noi ci auguriamo che nel futuro, il più presto possibile, riusciremo a reclamare i nostri corpi, così che non saranno più qualcosa su Instagram o in una pubblicità o di cui parlare in modo astratto. Ci auguriamo che la società prenda la sua forma a partire dai nostri corpi, e non viceversa.

ⓢ E a proposito di corpi e società: la mostra è disseminata di segnali stradali che però non indicano nulla, sono degli specchi.
È assurdo pensare a quanto siamo regolamentati nel nostro circolare per la città: siamo totalmente direzionati e guidati. È necessario certo, e ci permette di essere efficienti, ma è anche spaventoso.

E perché lo specchio? Perché non, che so, tutto nero?
Perché tu guardi, vedi te stesso e magari ti chiedi, ok, cosa devo fare? Cosa mi è permesso fare? Beh, arrivaci da solo. Pensa a cosa è ragionevole fare, in questo sistema. Dovremmo provare a farne uno nero, sì, riflettente. Black Mirror.

ⓢ Anche l’opera dell’ufficio vuoto parla di corpi e società.  Rappresenta perfettamente quello che abbiamo vissuto e stiamo vivendo: il lockdown, lo smartworking, la Great Resignation. Eppure l’avete pensata prima di tutto questo.
Un anno e mezzo prima della pandemia. Quando è arrivato il Covid abbiamo pensato: avrà senso mostrare questo lavoro? Poi ci siamo resi conto che aveva ancora più senso, proprio per via dello smantellamento degli uffici e delle piccole comunità che questi creavano, ci siamo accorti che ha diversi livelli di lettura. Prima del Covid pensavamo di rappresentare l’ambiente dell’ufficio come luogo in cui si cerca di ottimizzare le risorse umane, riunendo più persone possibili nel minor spazio possibile. È folle che anche in ambienti creativi o artistici ci siano uffici del genere: obblighi le persone a lavorare 8 ore al giorno con così poco spazio a disposizione, è come un allevamento di animali, stai seduto nel tuo piccolo spazio e puoi rivendicare la tua personalità con qualche oggetto, ma quello spazio è identico a quello dei tuoi colleghi e le condizioni di lavoro sono totalmente uniformate. Siamo stati ispirati anche dal cinema, soprattutto Playtime di Jacques Tati, dove c’è con questo ufficio infinito. E poi c’è questa relazione di odio e amore col minimalismo, come in tutto il nostro lavoro, il riferimento a Donald Judd e allo stretto rapporto tra il minimalismo e il design. Questi cubicoli hanno, o indicano, una funzione ma sono anche delle sculture minimaliste nella loro forma. E poi c’è la parete specchiante, che trasforma l’ambiente…

In una tortura infinita.
Esatto, ma l’opera si chiama “Garden of Eden”.

ⓢ C’è un’opera che non è in mostra ma che vorrei citare. È una rielaborazione della scultura equestre ma soprattutto un bellissimo lavoro sulla guerra: il ragazzino sul cavallo a dondolo (“Powerless Structures, Fig 101”) che avete installato a Trafalgar Square nel 2012.
Trafalgar Square è una piazza che celebra la guerra, con uomini che fanno gli eroi sui cavalli per sembrare ancora più grossi. A noi interessa un altro tipo di mascolinità. È un po’ come abbiamo fatto in questa mostra, negli spazi del Podium, dove abbiamo voluto mettere a confronto vere sculture neoclassiche, mascoline, muscolose ed eroiche, con le nostre, in cui proponiamo un tipo di mascolinità decisamente diverso. Guerra e violenza sono dei maschi, non c’è dubbio, di un certo tipo di mascolinità. A Trafalgar Square abbiamo voluto mettere un ragazzino sul cavallo a dondolo per rappresentare l’innocenza che quegli uomini eroici sui cavalli hanno perso, ma che forse in un certo momento della loro vita hanno avuto anche loro.