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Anche la più importante associazione di studiosi del genocidio del mondo dice che quello che sta avvenendo a Gaza è un genocidio L'International Association of Genocide Scholars ha pubblicato una risoluzione in cui condanna apertamente Israele.
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Emma Stone, che in Bugonia interpreta una donna accusata di essere un alieno, crede nell’esistenza degli alieni E ha spiegato anche perché: lo ha capito guardando la serie Cosmos di Carl Sagan.

Cosa dobbiamo aspettarci da Documenta 2022

Il 18 giugno apre al pubblico l'edizione più affollata di sempre della mostra più importante del mondo che si tiene ogni 5 anni a Kassel, per la prima volta curata da un collettivo.

di Studio
16 Giugno 2022

Nei giorni dell’inaugurazione della Biennale di Venezia sembrava fossero tutti lì, a pubblicare stories della prima edizione curata da una donna italiana, la prima con una maggioranza di artiste donne e persone non binarie, una delle tre a tenersi dopo un’interruzione dall’anno di nascita della Biennale, nel 1895. E invece, se proprio bisogna sceglierne uno, l’evento artistico dell’anno è un altro: Documenta (dal 18 giugno al 25 settembre), la mostra d’arte contemporanea più importante del mondo. Tutti a Kassel, una cittadina molto verde e molto ordinata con uno splendido parco del XVIII secolo, che per 100 giorni ogni cinque anni diventa meta di pellegrinaggio per chiunque voglia capire dove sta andando l’arte visitando comodamente una sola ma densissima mostra.

Come nel caso della Biennale, anche qui ci sono diverse prime volte. L’edizione 2022 è la prima curata da un collettivo artistico, il gruppo indonesiano ruangrupa. È anche la prima Documenta con così tanti artisti, e nello specifico con così tanti artisti provenienti dal sud del mondo. I ruangrupa hanno cambiato quasi tutte le regole del gioco, a partire dall’annuncio degli altri collettivi invitati a partecipare alla mostra, comunicati attraverso una lista pubblicata su Asphalt, giornale venduto nelle edicole tedesche a scopo benefico per supportare gli indigenti e senza tetto. Al posto della loro nazionalità, c’era solo il fuso orario locale dei loro Paesi di provenienza. La base del concetto curatoriale dei ruangrupa è il “lumbung”, un fienile indonesiano utilizzato per immagazzinare l’eccedenza di un raccolto di riso prima che la comunità prenda decisioni collettive su come assegnarlo. Per creare un lumbung a Kassel, ruangrupa ha invitato per la prima volta 14 collettivi di artisti da tutto il mondo a presentare lavori a Documenta. Quei collettivi a loro volta hanno invitato più di 50 artisti e gruppi individuali a partecipare, e tutti gli artisti partecipanti sono stati organizzati in 10 “mini-majelis”, o piccoli gruppi di incontro, per garantire che tutti fossero coinvolti nella pianificazione. Il risultato di questo labirinto di connessioni, secondo Farid Rakun, un membro dei ruangrupa, è che il numero degli artisti partecipanti raggiunge le migliaia. L’ha detto lui stesso in un’intervista: a un certo punto il processo ha smesso di essere controllabile, «Ma va bene così», ha specificato. Il punto è proprio quello, anzi: il rifiuto delle gerarchie.

Il problema è che uno dei tantissimi gruppi satellite ha deciso di includere un collettivo palestinese chiamato The Question of Funding, il cui lavoro esplora i modi in cui gli artisti palestinesi finanziano la loro pratica. A gennaio, un gruppo chiamato Alliance Against Antisemitism Kassel ha pubblicato un post sul blog in cui accusava i membri di ruangrupa, il team artistico di Documenta e il collettivo palestinese di simpatia per il movimento di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele. Nel 2019, il parlamento tedesco aveva dichiarato quel movimento antisemita, dicendo che le sue campagne avevano ricordato «il capitolo più terribile della storia tedesca». Le accuse del blog sono state riprese dai giornali tedeschi. Sottolineando che i membri di ruangrupa sono prevalentemente musulmani, Stefan Trinks ha commentato che la loro «consapevolezza delle preoccupazioni ebraiche potrebbe essere piuttosto sottosviluppata».

Documenta ha deciso per la prima volta di affrontare la controversia con una serie di discussioni pubbliche a maggio. Ma prima che l’evento potesse aver luogo, Josef Schuster, il presidente del Consiglio centrale degli ebrei tedeschi, ha scritto una lettera al ministro della cultura tedesco, Claudia Roth, criticando il piano di Documenta di includere una discussione sul razzismo anti-palestinese all’evento. Gli organizzatori hanno deciso di rimandare i colloqui a dopo l’apertura della mostra. Ruangrupa ha pubblicato una lettera aperta in risposta: «Per essere chiari: non sono state fatte dichiarazioni antisemite di alcun tipo nel contesto di Documenta 15», si legge. «Respingiamo fermamente queste accuse e non accettiamo tentativi in ​​malafede di delegittimare gli artisti e censurarli preventivamente sulla base della loro etnia e delle loro presunte posizioni politiche».

Roth e Schuster hanno cercato di spegnere il dibattito rilasciando una dichiarazione: secondo loro la «responsabilità speciale della Germania nella lotta contro l’antisemitismo» richiede «particolare sensibilità nelle discussioni a Documenta e su Documenta». Non è servito a niente: in un’intervista Felix Klein, funzionario del governo tedesco incaricato di combattere l’antisemitismo, ha detto che l’assenza di artisti israeliani a Documenta potrebbe innescare la speculazione sul loro boicottaggio. Negli stessi giorni qualcuno ha fatto irruzione nell’ex discoteca di Kassel dove sta esponendo The Question of Funding e ha graffiato i muri. Ruangrupa ha descritto l’attacco come “una minaccia politica”; Documenta ha sporto denuncia.

Questa Documenta sfida anche i preconcetti occidentali su chi può mostrare il proprio lavoro in prestigiosi eventi di arte contemporanea. Tutti i collettivi perseguono missioni sociali o ambientali a livello locale nelle loro terre d’origine. Il Wajukuu Art Project, ad esempio, tiene corsi d’arte per bambini a Mukuru, un distretto disagiato di Nairobi, in Kenya, dove molti residenti frugano nelle discariche o si dedicano alla microcriminalità per sopravvivere. Il gruppo ha voluto riprodurre Mukuru nella confortevole Kassel: un tunnel buio pieno dei suoni della strada di Nairobi condurrà i visitatori nello spazio espositivo principale, la Documenta Halle. Per realizzarlo, il gruppo ha avuto diversi problemi con le norme di salute e sicurezza del Paese.

Come racconta il New York Times, sono diverse le situazioni al confine tra legale e illegale. Dall’opera  “Vietnamese Immigrating Garden”, che include piante nate da semi introdotti dal Vietnam (sarebbe vietato), ai visti concessi ai partecipanti haitiani senza passaporto. In aggiunta a una quantità mai vista di problemi organizzativi e logistici, la maggior parte della preparazione ha avuto luogo durante la pandemia, proprio come è accaduto per la Biennale (Cecilia Alemani ci aveva parlato qui delle difficoltà di organizzarla a distanza). Col suo approccio collaborativo e la prevalenza di missioni sociali, Documenta sviluppa una tendenza che abbiamo già intravisto nella Biennale di Venezia: un’arte divorata dai sensi di colpa che sembra volersi allontanare il più possibile dal culto dell’individuo che aveva caratterizzato quella del XX secolo, un’arte il cui scopo principale è dare voce a chi finora è stato escluso dalla conversazione. «Se nel 1955 ocumenta fu lanciata per guarire le ferite della guerra, perché non dovremmo focalizzare la rassegna sulle ferite odierne, specialmente quelle radicate nel colonialismo, nel capitalismo o nelle strutture patriarcali, e contrapporle a modelli basati sulla partnership che permettano alle persone di avere una diversa visione del mondo», ha dichiarato il collettivo.

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