Cultura | Architettura

Un monumento fantasma rivive a New York

Inaugura a Manhattan "Day’s End", opera dell’artista David Hammons dedicata all’omonimo intervento di Gordon Matta-Clark, e alla storia dei moli newyorkesi tra gli anni ’70 e ’80.

di Alessia Delisi

"Day's End", di David Hammons

Nel 1975 sul molo 52 che si sporge sul fiume Hudson, a New York, l’artista americano Gordon Matta-Clark realizzava una delle sue opere più leggendarie: “Day’s End”, monumentale intervento architettonico – o meglio anarchitettonico – che trasformava il magazzino in disuso collocato sulla banchina in un «tempio al sole e all’acqua». Praticando tagli alle pareti, al soffitto e al pavimento, l’artista allora poco più che trentenne, figlio del pittore surrealista Roberto Matta, consegnava alla città la sua cattedrale gotica, aperta di giorno alle evoluzioni della luce e di notte alle fantasie sadomaso di una subcultura queer che nei moli abbandonati di Manhattan sperimentava il rischio dell’avventura e uno spazio di libertà inaudito.

Matta-Clark morirà precocemente nel 1978 – ha appena 35 anni – “Day’s End” sarà demolito l’anno successivo, sopravvivendo in fotografie e film che documentano l’azione dell’artista come gesto di sfida all’idea di spazio architettonico fisso, chiuso e inviolabile (l’edificio manipolato crea nuove vedute prospettiche), oltre che atto clandestino di resistenza alla gentrificazione. È lui a fondare nel 1973, con Laurie Anderson, Richard Nonas e altri artisti, il gruppo “Anarchitecture” (dalla fusione delle parole anarchy e architecture), mediante cui il progetto, liberato dai vincoli costruttivi, diventa attività critica, land art, performance, happening. Oggi, a distanza di quasi cinquant’anni, l’artista di area concettuale David Hammons (1943, Springfield – vive e lavora a New York) riflette sull’intervento di Matta-Clark con un progetto d’arte ambientale a esso intitolato: “Day’s End” di Hammons verrà inaugurato il 16 maggio sul Pier 52, esattamente dove un tempo sorgeva il capannone trafitto dalla luce, esposto alle intemperie di Matta-Clark. Realizzata in collaborazione con il Whitney Museum of American Art (e situata di fronte), l’opera di Hammons figura come una sorta di monumento fantasma, una struttura aperta che, oltre a seguire il profilo e le dimensioni dell’edificio originale, evoca la storia del lungomare di New York, tra presenza e invisibilità. Se infatti nel 1916 la città si apprestava a diventare il porto più attivo del mondo, già negli anni ’50 cominciavano il degrado e la rinascita. Da questo momento i moli divennero luogo di ritrovo per la comunità gay e, soprattutto tra gli anni ’70 e ’80, teatro di sperimentazioni artistico–visuali che mescolavano sesso e rovine urbane.

L’opera di Hammons, sul Pier 52

Nel suo libro provocatorio Pier Groups – il titolo è tratto dal film porno gay di Arch Brown del 1979, in cui appare brevemente e in modo spettacolare “Day’s End” di Matta-Clark – lo storico dell’arte Jonathan Weinberg traccia un parallelismo tra le opere realizzate negli anni ’70 sul lungomare di New York e le subculture queer dell’epoca. Ad attrarre sui moli artisti come Gordon Matta-Clark, ma anche Vito Acconci, Alvin Baltrop, Shelley Seccombe e David Wojnarowicz, era, secondo Weinberg, il loro offrisi come spazi di libertà apparentemente fuori dal controllo sociale. Come i passages di Parigi descritti dal filosofo Walter Benjamin, i moli – questo terrain vague devastato dagli incendi, corroso dal sole e dalla salsedine – si offrivano alle derive creative, alle flânerie vertiginose, alla seduzione del pericolo. Il loro «potenziale rivoluzionario» stava nel riunire, richiamandole a sé, persone di ogni classe ed etnia.

Matta-Clark alla fine fu estromesso. Il giorno dell’inaugurazione di “Day’s End” la polizia bloccò l’accesso, mise sigilli, transenne e un piccolo ponte dove il pavimento era stato tagliato a metà. Si parlò anche di una sua possibile incarcerazione per aver violato un sito di proprietà della città. Per realizzare l’opera, l’artista aveva sostituito la serratura e il catenaccio della porta principale, escludendo a sua volta quella che lui definiva una «s&m renaissance», la frangia sadomaso che affollava l’edificio in cerca di piaceri e intimità. «Le autorità lo hanno vandalizzato», ironizzava con un ribaltamento di prospettiva. Il suo lucchetto si era dimostrato inutile: in breve tempo lo spazio tornò a essere occupato dai cruiser, diventando lo sfondo delle loro attività clandestine.

«E così la sua vita va avanti, ma è una vita segreta», disse in un’intervista radiofonica. Perché quello che la polizia non aveva chiuso era la gigantesca apertura «a forma di falce» sul lato ovest del capannone – lui la paragonava al rosone di una basilica, altri a un’eclissi, altri ancora a un occhio o una lente. Quando il sole si allineava con il taglio, ricorda Weinberg, lo spettatore in piedi nell’edificio era come accecato. Quando il sole tramontava e il cielo notturno riempiva il foro, si aveva una visione dell’universo. In modo analogo, la struttura creata da Hammons dialoga con la luce, apparendo evanescente ed eterea, luccicante fino quasi a scomparire. Per entrambi gli artisti New York era e rimane materia, ispirazione, spettro e provocazione.