Come Miuccia Prada e il Parmigiano, sono diventati un prodotto d’esportazione: analisi di un fenomeno imprevedibile.
Damiano David è uscito dal gruppo. Poco più di trent’anni fa, mentre Berlusconi scendeva in campo, l’esordio letterario di Enrico Brizzi ci raccontava la grande metafora di formazione di una dipartita all’apice del successo, come avvenne con John Frusciante e i Red Hot Chili Peppers nel 1992. Uscire dal gruppo, evadere dagli schemi sociali, abbandonare la consuetudine, spiccare il volo, formare la propria identità al di fuori di una abitudine rassicurante, e tutte le altre perifrasi che si possono usare per descrivere la vita di Alex, il protagonista di Jack Frusciante è uscito dal gruppo, o di Damiano, che ha lanciato il cuore oltre l’ostacolo del linguaggio figurato e la band l’ha mollata davvero.
Un disco che si è fatto da solo
Non è una fine, è solo una pausa, non ci vogliamo male, siamo ancora gli stessi pischelli che suonavano in via del Corso, o quelli che si abbarbicavano ai pali di lap dance sotto la guida spirituale di Manuel Agnelli, insomma, gli stessi che giravano in golf cart con Amadeus per le vie di Sanremo quando eravamo felici e lo sapevamo, hanno detto i Maneskin per rassicurare i fan sul fatto che i patti sono chiari e l’amicizia è lunga. Nessuno mette in dubbio la sincerità del sentimento che li lega, intanto però Damiano David, but everybody calls him Damiano dei Maneskin, lui e la sua «incredibile somiglianza con Lady Diana», si è fatto il disco da solo, con tutti i sottotesti brizziani ed esistenziali che questa scelta comporta per un giovane artista.
Capisco perfettamente il senso della missione in solitaria. Del resto, la storia della musica pop abbonda di casi in cui la filosofia del go solo ha dato i suoi frutti. A partire dal concittadino illustre di Brizzi, che forse col suo titolo anticipava profeticamente di qualche anno la separazione di Cesare Cremonini da quel breve ma intenso e mai dimenticato progetto che furono i Lunapop, passando per Robbie Williams e Justin Timberlake, anche se forse nel mirino di Damiano David, aka Damiano dei Maneskin, c’erano più Alex Turner e Julian Casablancas.
Turner ha fondato i Last Shadow Puppets dopo il successo acneico dei suoi Arctic Monkeys, don’t believe the hype e infatti l’hype non si è mai consumato, Casablancas invece nelle pause dagli Strokes si è aggregato ai The Voidz. In entrambi casi, la strada solitaria è una scusa per esasperare tratti stilistici che nei loro gruppi sarebbero stati fagocitanti, nonché la strada maestra per la sperimentazione, parola che piace tanto ai critici musicali e che fa il paio con l’espressione «respiro internazionale», entrambe molto gettonate quando si parla di David. È questa, dunque, la vera intenzione di FUNNY little FEARS, scritto così un po’ urlato un po’ GenZ che gioca con le minuscole, darci prova che oltre le gonne in lattice e i corsetti in stile Rocky Horror Picture Show c’è di più?
Di essere, in questo album da 14 brani e 48 minuti, il di più c’è. Di più rispetto alla band che ha portato l’Italia nelle classifiche mondiali con uno stile che tutto sembrava fuorché italiano, la versione quanto più generica e al contempo massimizzata di ogni tratto distintivo del rock degli ultimi cinquant’anni, così da piacere ai vecchi perché ricorda loro gli anni andati e ai giovani per fare scoprire loro gli stessi anni andati ma in versione liofilizzata, ché tanto chi se li ascolta più i concept album anni Settanta di papà. Il grande potere dei Maneskin, oltre ad avere la straordinaria capacità di far sembrare ogni loro canzone una cover di qualcuno di più famoso e vecchio, era proprio questo: chi li odia li detesta per la stessa ragione per cui vengono apprezzati, l’offesa ai grandi classici, che a seconda del punto di vista può diventare invece omaggio. Un gruppo che fa da ponte intergenerazionale tra Facebook e TikTok, due luoghi in cui si litiga e si imita che è un piacere.
Ndo cojo cojo
Insomma, il più di Damiano, dicevamo, l’aggiunta che giustifica la fuga, sta nell’aver abbandonato l’estetica Hard Rock Cafè in favore di una mescolanza più eterogenea; i maligni diranno che è uno stile ndo cojo cojo, gli ottimisti lo definiranno «eclettico». Di sicuro, per quanto riguarda le rinascite musicali, Harry Styles ha fatto scuola tra gli ultimi grandi solisti con un passato a X Factor: per non rimanere a vita «quello degli One Direction», affidati ai produttori bravi e ne esci col disco raffinato.
E infatti, Justin Bieber, Dua Lipa, The Weeknd, sono alcuni degli artisti con cui ha collaborato la squadra messa in piedi per FUNNY little FEARS, un disco che dentro non ha più solo il frullato di rock che spazia da Iggy Pop a Pino Scotto tipico dei Maneskin, ma anche il romanticismo anni Cinquanta, gli archi anni Sessanta, il sound anni Ottanta, insomma un tuttifrutti del pop, come cantava Elvis, che da qualche parte dell’album, in versione bazluhrmanizzata, c’è. Il nuovo Damiano vive a Los Angeles con la fidanzata da svariati milioni di follower che in Italia non conosceva quasi nessuno – per noi provinciali del vecchio continente dove al massimo era un sapone o la one hit wonder di Moony – il nuovo Damiano è intimista, fragile, introspettivo, dark, fresco, profondo ma scanzonato, è tante cose insieme, tutte quelle che servono a creare una canzone per ogni trend, un’emozione per tutti gli algoritmi.
Sarebbe ipocrita dire il contrario: FUNNY little FEARS non ha niente fuori posto. È un disco costruito al millimetro, così come ogni fotogramma di tutti i videoclip usciti per i singoli, dove un D.D. danzerino ci dà prova del fatto che quel tatuaggio sui pettorali, IL BALLO DELLA VITA, non sta là a prendere muffa. Persino l’accento da tu vo’ fa’ l’americano è stato smussato da mesi di full immersion nel suo personalissimo american dream a Joshua Tree, tanto da farlo diventare un meme qua in Italia, dove ci divertiamo a prenderlo in giro sulla sua sbandierata anglofilia.
Il cantautore che piacerebbe all’AI
Solo che, alle mie orecchie, tutta questa perfezione non dice assolutamente nulla. O meglio, mi dice ChatGPT, Gork, mi dice Ed Sheeran che più che un cantautore mi sembra un bot, Ordinary di Alex Warren, musica di sottofondo da Zara, mi dice questo è un disco perfetto e verrà ascoltato in centonovanta Paesi, centonovanta Paesi, per para-citare Nanni Moretti. Non per fare la solita italiana mammona torna, questa casa aspetta a te, però al Damiano David algoritmicamente ineccepibile mi verrebbe da chiedere: ma per trovare la tua identità, affermare te stesso, diventare legittimamente quello che «è uscito dal gruppo», c’era bisogno di andare così lontano se poi il risultato è un disco che potevi fare da remoto con l’AI?