Cultura | Storia

Breve vita di un neofascista nero

La storia violenta e incredibile di Giorgio Vale, un afroitaliano a capo dei Nar, raccontata nel libro Corpo estraneo.

di Davide Coppo

«Non ci interessa la politica, ma soltanto lottare», scrivono nel comunicato più famoso di tutta la loro storia, quella del giugno 1980, chiamato semplicemente “NAR – Chiarimento”. Suona come il titolo di un ipotetico disco punk della stessa epoca, e invece è la rivendicazione dell’omicidio del giudice Mario Amato, ucciso con un colpo di pistola in testa da Gilberto Cavallini alcune ore prima. Ed è più di questo. È il manifesto dei “nuovi NAR” di Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, il gruppo che venne movimentato anche da un protagonista meno noto, la cui storia è al centro di una biografia uscita a fine 2021 per Milieu Edizioni: Corpo estraneo. Storia di Giorgio Vale, scritta da Carlo Costa e Gabriele Di Giuseppe.

Chi è Giorgio Vale, e perché un libro su di lui? Una risposta breve sarebbe: Vale era un terrorista italiano, di area neofascista, militante di Terza Posizione e poi dei NAR, nato a Roma nel 1961 e morto sempre a Roma nel 1982, suicida oppure ucciso dalla Polizia, non è mai stato chiarito. Altra domanda: perché quel titolo così particolare? La risposta qui è più interessante: perché Giorgio Vale rappresenta l’unico caso di terrorista neofascista italiano nero. Un afroitaliano, figlio di un padre eritreo, che si fa strada nell’eversione di estrema destra da giovanissimo, fino a diventare una delle figure più importanti dei Nuclei Armati Rivoluzionari, il gruppo più sanguinario di quella stagione. È però un libro, Corpo estraneo, che non racchiude soltanto la storia di Vale, e di come un diciottenne non-bianco abbia potuto diventare uno dei neofascisti più temuti e ricercati d’Italia. Cos’altro racchiude? Un racconto intimo, onesto e crudo del terrorismo nero italiano.

È una storia, spiegano gli autori nelle prime pagine, in un certo senso inedita: «Piuttosto che un’attenzione storiografica», scrivono, sul neofascismo italiano si è sempre scritto con una tendenza «alla produzione di documentazione di denuncia». Un corpus in cui «il tema delle vittime, nella sua scivolosa oggettività, occupa un posto centrale». In Corpo estraneo Costa e Di Giuseppe, in dieci anni di ricerca, hanno messo insieme una cartografia di cosa furono i Nar e di cosa fu quel vitalismo violentissimo che li animò fino alla fine, nella corsa alla distruzione degli altri e di se stessi. Soprattutto, seguendo la storia di Giorgio Vale, è interessante l’operazione di non fare di tutti i fascisti un fascio, ma di distinguere le diverse correnti ideologiche di questi neo o postfascisti che, in un modo o nell’altro, riecheggiano parzialmente nelle ultradestre odierne.

L’estremismo nero giovanile in cui opera Giorgio Vale, prima in Terza Posizione e poi nei Nuclei Armati Rivoluzionari, non è quello delle lotte tra rossi e neri, delle manifestazioni a scuola e delle chiavi inglesi in testa: gli anni prima, quelli a cavallo tra i Sessanta e i Settanta, hanno lasciato troppi morti e troppo giovani nei licei e nelle università, e l’ideologia “rivoluzionaria” dei Nar nasce proprio come distacco da quel modus operandi. Per andare dove? Per andare dritta contro lo Stato. «Secondo noi era sciocco ed era particolarmente brutto che tutto questo si limitasse allo spararsi fra ragazzi di diciotto, diciannove, vent’anni», dirà Fioravanti in un’udienza processuale del 1989 a proposito degli anni (i fine Settanta) in cui i Nar progettano una tregua con i «compagni» per svoltare in un ribellismo integrale e disperato, uno scontro totale con il sistema.

C’è di interessante che quei neo o post-fascisti non si definivano nemmeno tali, o almeno non tutti. Intervistato dagli autori, l’ex Terza Posizione e Nar Dario Mariani dice: «Noi siamo stati sempre uomini nuovi, rivoluzionari che andavano avanti, non dei conservatori che andavano indietro». Solo in questo modo, per lui, si spiegherebbe “l’anomalia” Giorgio Vale. La volontà di un superamento della dicotomia destra-sinistra in favore di una lotta anti-imperialista a tutto campo si ritrova, nelle ultradestre, già a cavallo tra i Sessanta e i Settanta, quando Fiore (quel Fiore di Forza Nuova, che fu già il Fiore fondatore di Terza Posizione) fonda Lotta di Popolo, movimento che viene definito, per la sua vicinanza con certi riferimenti tipici dell’estrema sinistra (Cina, castrismo, vietcong), nazi-maoista.

L’ascesa di Giorgio Vale in questo contesto è rapidissima: nel giro di quattro anni passa dai volantinaggi alle accuse di essere uno dei colpevoli della strage di Bologna (verrà poi assolto, e la famiglia si costituirà parte civile). Una velocità inspiegabile oggi, ma che il libro cerca di analizzare contestualizzandola nel mondo assurdo e sanguinario di quella galassia nera appena postadolescenziale che sceglie consapevolmente la strada della violenza totale. La militanza per Vale e compagni (Mambro, i fratelli Fioravanti, Ciavardini, Cavallini) perde presto ogni tipo di rivendicazione politica, per quanto fascista potesse essere, per esplodere in un nichilismo che non ammette possibilità di salvezza. «Parlando dei Nar è difficile definire una specie di vuoto così pieno», scrivono gli autori, «un mondo refrattario a qualsiasi approccio razionale, fatto di immagini, il guerriero senza sonno, l’onore, la tradizione, che non si comprende bene cosa sia. L’esaltazione della propria individualità nei confronti di un mondo inutile e decadente (…) Un’azione priva di obiettivi realizzabili, ma soddisfacente e vitale in quanto tale».

Nello stesso comunicato citato all’inizio si legge un’ammissione che è una rivendicazione senza speranza: «A chi ci accusa di non avere un futuro rispondiamo: signorini, siete sicuri voi di avere ben chiaro il presente? E a chi ci accusa di essere dei disperati, rispondiamo che è meglio la nostra disperazione che la vigliaccheria».

È una stagione che brucia in fretta e lascia sull’asfalto molti morti e decine di feriti: a partire da Antonio Leandri, studente ventiquattrenne scambiato per l’avvocato missino (e considerato “traditore”) Giorgio Arcangeli, ucciso nel dicembre 1979; il poliziotto di guardia all’Ambasciata del Libano Maurizio Arnesano, nel febbraio 1980; il già citato Mario Amato; il poliziotto di guardia al liceo Giulio Cesare Francesco Evangelista, maggio 1980; il “camerata” accusato di aver sottratto soldi alle casse del gruppo Ciccio Mangiameli, settembre 1980; il militante di Terza Posizione accusato di aver tradito Luca Perucci, gennaio 1981; un altro “tippino” accusato della stessa colpa di Mangiameli, Giuseppe De Luca, luglio 1981; il “traditore” Marco Pizzari, settembre 1981.

Nello spazio di pochi mesi con gli arresti si fanno largo, nel nichilismo che scompare, i primi rimpianti. Dirà Cristiano Fioravanti, fratello di Giusva: «Non capivo più niente, cosa facevo, non m’importava di essere ammazzato né di essere arrestato, ero stanco, ero stufo di tutto questo, in un certo senso ero anche contento di essere stato arrestato perché finalmente era finito un incubo». Anche la più celebre Mambro, arrestata nel 1981, riflette: «Già è stato dato tanto e forse troppo per la nostra età». È solo Giorgio Vale, alla fine, l’ultimo a rimanere latitante, non ancora arrestato né ancora scappato all’estero. Finirà male, come per un topo in trappola. Finirà ammazzato, dirà la famiglia, oppure suicida, dirà la polizia.

A fianco al cadavere viene ritrovata una cassetta dei Queen e una collanina d’argento con una croce celtica, «a conferma della difficoltà di inquadrare Vale in una ricostruzione biografica statica», scrivono gli autori. «Giorgio era consapevole del dramma che avvolgeva la sua vita», scrive in una lettera dal carcere Pasquale Belsito, ex terrorista anche lui prima in TP e poi nei Nar. Ma l’eco che arriva più lontano, in queste voci sì sconfitte ma che ancora possono parlare, è quella del padre di Vale, Umberto, nato in Eritrea e cresciuto a Roma dal 1929. «Non ha senso, siete giovani voi e loro, combattete una guerra che non è vostra. Il popolo non vi capisce e se ne frega», gli scrive in una lettera a fine 1981. Nell’ultimo messaggio che gli fa arrivare prima della morte lo implora per l’ennesima volta, inutilmente, di costituirsi: «Noi possiamo venirti a trovare tutti i giorni. Il posto è molto vicino a Roma, appena 40 km. Bruciamo i tempi, non c’è ragione di aspettare oltre. Baci, bacetti, bacioni».