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Ma perché leggiamo i commenti?

Ogni giorno impieghiamo parte del nostro tempo a leggere sui social giudizi aggressivi o stupidi su tutto ed è difficile capirne il motivo.

di Giorgio Biferali

«Dai che forse è la volta buona».
«La carta igienica usata è più pulita».
«Come minimo, assediamo le piazze».
«Comunque, a suo modo geniale». 

Potrebbero essere delle battute rubate da un romanzo di Palahniuk o delle frasi che ho ascoltato per strada, perché ho sempre creduto nella magia del quotidiano, che diventano come dei ready made nelle note del mio cellulare, e invece no. Sono solo alcuni commenti che ho trovato sul web alla cessione di Tonali, al ricovero di Berlusconi, alle dichiarazioni sull’aborto della ministra Roccella, al romanzo Delitto e castigo, che a pensarci bene, a rileggerli così, uno dopo l’altro, potrebbero sembrare intercambiabili. Ma non è proprio questo il punto. 

Nelle impostazioni del mio iPhone c’è scritto che il tempo di utilizzo delle app è di circa un’ora e mezza al giorno. Che non è poco, sì, ma non è neanche tanto, e comunque quel tempo lì, ogni settimana che passa, diminuisce sempre di più, e questo mi fa sentire meglio, anche se non so bene perché. La maggior parte di quel tempo, io, a dirla tutta, la passo a guardare notizie di ogni tipo, e soprattutto a leggere i commenti. Chissà perché, forse dipende dalle mie insicurezze, da una strana pulsione freudiana di morte, o dal fatto che per osservare il mondo, per cercare di decifrarlo, ho sempre avuto bisogno dello sguardo degli altri. 

Quando facevo l’università, mentre stavo preparando la mia tesi su Giorgio Manganelli, ho scoperto un libro che aveva pubblicato nel 1969, intitolato Nuovo commento. Essendo il commento, tra le tante cose, un’esposizione ragionata e riassuntiva di un argomento specifico, non è così facile riassumere qui il contenuto di quel libro, immaginare un blurb o una fascetta ideale. Per farla breve, potrei dire che si tratta del commento a un libro che non esiste. La sorte del commento, diceva Manganelli, è sempre quella del testo che lo sovrasta, è sempre quella di un altrove. Allora cos’è che è cambiata oggi, la natura dei commenti o la natura di quell’altrove? Oppure sono cambiate entrambe? Come vuole la grande letteratura, una risposta chiara, definitiva, forse non c’è, ma possono venir fuori delle buone domande su cui riflettere. Il commento nasce come genere letterario, nella forma di un insieme di note che possono aiutarci a comprendere meglio quello che stiamo leggendo, che abbiamo letto, che leggeremo, anche. Nel tempo, da Boccaccio in poi, fare commenti è diventato un mestiere, l’occasione per fare chiarezza o, in alcuni casi, per complicare la vita dei lettori, basterebbe leggere autori come Sterne, Borges, Perec, Wallace, per averne la prova. 

Più che con gli editoriali e con le recensioni sulle riviste e sui giornali, più che con i dibattiti in tv, è con i social network che il commento, da insieme di note, da esposizione ragionata e riassuntiva, ha mutato forma ed è diventato un giudizio, spesso lampo, aggressivo, senza possibilità di replica, sui fatti e sulle parole. Un cambiamento che ne racchiude tanti altri, il modo di leggere, di pensare, di scrivere, di esprimersi, di relazionarsi con gli altri, di immaginare il nostro ruolo nella società, il nostro posto nel mondo. Ci sono due scene, tratte da due film di Nanni Moretti, che potrebbero aiutarci a decifrare questi grandi cambiamenti. Nella prima, tratta da Ecce bombo, c’è Nanni in un bar che sente uno che dice che rossi e neri sono tutti uguali, allora si gira verso di lui, lo afferra per la giacca e gli chiede, a brutto muso: «Ma chi è che sta parlando, chi è?». Una domanda che gli utenti, oggi, si rivolgono spesso, a vicenda, perché non riescono a concepire, per dirla con le parole di Breat Easton Ellis, «le contraddizioni che appartengono a ciascuno di noi». Nella seconda scena, tratta da Sogni d’oro, c’è Nanni che urla: «Io non parlo di cose che non conosco». Che suona come una sorta di mantra, dentro di me, tutte quelle volte che leggo notizie online e vedo che sotto sono piene zeppe di commenti e io non so bene che cosa pensare, mi sento in colpa, me la prendo con me stesso, mi chiedo come abbia fatto a diventare un adulto e a non sapere sempre come leggere il mondo e tutto quello che si muove intorno a me. 

Spesso, però, ho come la sensazione di aver scelto il periodo sbagliato per affidarmi alle parole e allo sguardo degli altri. Mi sento confuso, c’è una parte di me che, prima di cominciare a leggere i commenti, non sa bene cosa aspettarsi, mentre l’altra, invece, lo sa benissimo, ed è quella che alla fine mi porta a leggerli. Cos’è che mi aspetto veramente di trovare? Forse un commento che mi faccia riflettere, oppure no, un commento che mi faccia arrabbiare, che mi faccia sentire migliore di chi l’ha scritto, che mi faccia dire tra me e me che non poteva essere altrimenti, o che mi rassicuri, magari, perché quello che leggo è quello che avrei scritto anch’io, se solo avessi trovato la voglia e il coraggio di commentare.

A giugno di quest’anno vengono pubblicati alcuni dati che riguardano il 2022, che pare sia stato l’anno più caldo di sempre, in Italia, e sotto c’è chi commenta: «Ahahahah ma dove esattamente? L’estate ancora non l’abbiamo vista», «In Piemonte da fine aprile a inizio giugno non ha fatto 2 giorni senza piovere», «puttanate !!! propaganda». Al Pacino, a 83 anni, è diventato padre per la quarta volta, e sotto c’è chi scrive: «Egoista», «Al papino», «La prima parola sarà nonno», «La follia della decadenza umana», «Ma si eiacula ancora a quell’età?», «Il potere dei soldi». Sotto la foto del peschereccio naufragato in Grecia alcuni scrivono che ci vorrebbero i blocchi navali, altri dicono che va bene tutto, ma i bambini no, «poveri angeli», altri ancora che non se ne può più di tutte queste tragedie ogni giorno. E in mezzo a tutti questi commenti, c’è anche chi scrive «No comment», «Incommentabile», chi giudica i commenti degli altri dicendo che ti fanno passare la voglia di commentare, di leggere le notizie, di vivere ancora in un Paese del genere. E io sono sempre lì, che leggo tutti questi commenti senza imparare nulla, senza capire davvero quello accade, che a pensarci bene, forse, neanche mi importa. Ed è una storia che si ripete ogni giorno, una storia in cui non c’è una morale, che funziona come quelle dirette in cui si guardano delle persone che giocano con la Playstation. Anzi, io non guardo solo quelli che giocano, ma anche quelli che li guardano giocare. In silenzio, senza muovere un dito, senza far nulla, neanche un piccolissimo commento.