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Come sopravvivere alle biennali

Nell’attesa dell’apertura al pubblico della 56ª Biennale di Venezia, un excursus tragicomico sul senso dell'arte.

di Clara Mazzoleni

Nell’attesa dell’apertura al pubblico della 56a Biennale di Venezia, a cura di Okwui Enwezor (critico d’arte, giornalista, direttore della Haus der Kunst di Monaco di Baviera e autore di Archive Fever: Uses of the Document in Contemporary Art), mi trovo a ripensare con rinnovato orrore alla Biennale numero 54, curata da Bice Curiger. In realtà non ricordo niente del lavoro di Curiger, perché, nel lontano 2011, la mia attenzione era focalizzata verso un piccolo punto da incenerire con una lente d’ingrandimento: il Padiglione Italia. Grazie a dio il tempo è passato e la suggestiva Biennale 55, Il Palazzo Enciclopedico, curata dal “giovane” Massimiliano Gioni, mi ha quasi fatto dimenticare la terribile esperienza. Quasi: ci sono giorni in cui la “Biennale di Sgarbi” si riapre dentro di me come una ferita che non si cicatrizza.

Nella vita ho imparato che per superare gli shock, le delusioni d’amore, le dipendenze e tutte le cose brutte che hanno a che fare col passato e l’incapacità di gestire il presente, la tecnica più efficace è quella di intervenire attivamente sui luoghi e sui ricordi. Un esempio: la Stazione Centrale di Milano mi ricorda un grande amore ormai finito. Allora cerco di vivere più esperienze possibili in quel luogo (possibilmente positive, ma non per forza) in modo che i ricordi nuovi e vividi si sovrappongano al ricordo doloroso, così che del ricordo vecchio non rimanga che un alone, come in quei fogli per ricalcare che usavamo a scuola, quelli un po’ opachi.

Questo è ciò che ho cercato di fare con la Biennale di Sgarbi: per dimenticare la rabbia che ho dovuto sopportare, mi sono precipitata a vedere quella di Gioni (sì, ci ero andata insieme al mio grande amore… oh, e com’era eccitato davanti ai disegni del libro rosso di Jung, esposti proprio all’inizio del padiglione centrale!). Ora la Biennale di Enwezor andrà a sovrapporsi alla Biennale di Gioni e dovrà essere triplamente bella: dovrà cioè mantenere il livello di dignità e grande intelligenza ripristinato dalla precedente, sotterrare ulteriormente l’alone della penultima Biennale – in modo che essa si perda completamente nella mia memoria – e, soprattutto, coinvolgermi e commuovermi tanto da farmi dimenticare che, sì, l’ultima biennale l’avevo vista insieme a lui, al mio grande amore (avevamo dormito in un brutto albergo vicino alla stazione di Mestre… nella sala dove facevamo colazione c’era un pappagallo in gabbia: udire la sua voce gracchiante appena sveglia mi irritava). Ed ecco che mentre aspetto che la biennale di Enwezor apra al pubblico – il 9 maggio – pronta a conferire nuovo ordine e equilibrio ai miei ricordi, mi imbatto in qualcosa che con uno schiaffo riapre una ferita ormai pronta a rimarginarsi: La Biennale Internazionale d’Arte su Facebook.

L’idea di una mostra su Facebook è venuta più o meno a chiunque si occupi di arte… io stessa anni fa ci avevo pensato: avevo architettato un’inaugurazione, a una data ora in un dato giorno, ovviamente online, su una pagina che avrei creato appositamente. Invece del vino e delle considerazioni a caldo, like e commenti alle immagini. Avevo pensato a nuove modalità con cui le opere avrebbero potuto essere comprate e a delle opere che fossero adatte a esistere esclusivamente in rete. Ci sarebbe stato un comunicato stampa (un post) e la mostra avrebbe avuto una durata precisa. Poi, come una mostra normale, sarebbe finita. Peccato che non è mai iniziata: non sono riuscita a farmi venire in mente che genere di opere avrei potuto esporre.

Giorgio Grasso, l’ideatore della Biennale Internazionale d’Arte su Facebook, non sembra essersi posto questo genere di quesiti. Nato a Modica nel 1961, Grasso è giunto alla ribalta grazie al sodalizio (innanzitutto politico e successivamente artistico) con lo storico dell’arte, critico e opinionista Vittorio Sgarbi. Su Youtube è purtroppo disponibile un’agghiacciante intervista: adagiato su una Vespa variopinta e decorata a mano (sicuramente un’opera) e decorato a sua volta con un improbabile cappello alla pescatora (che, forse, mi accorgo riguardandolo ora, è un normale cappello da uomo), Grasso parla della sua collaborazione con Sgarbi per il Padiglione Italia: «Abbiamo esposto», dice, «cosa unica in assoluto, 4000 opere per 1180 artisti circa… non era mai successo che la Biennale di Venezia si vivesse così tanti artisti, anche perché, come immagino voi saprete, la Biennale di Venezia è sempre stata caratterizzata dalla presenza di una decina di artisti – non di più – scelti dalla mafia delle gallerie, dalla mafia dei critici d’arte… ecco, noi abbiamo – noi intendo soprattutto il nostro direttore del Padiglione Italia che è l’onorevole Vittorio Sgarbi, e io con lui – abbiamo voluto fare un dispetto alle mafie dell’arte, fare un dispetto ai galleristi, fare un dispetto a questi critici». L’intervista procede con un’apologia della relatività del gusto: non è vero che un gruppo di critici o esperti d’arte può decidere cosa è valido e cosa no. È ovvio, il gusto è personale, soggettivo, e può essere esercitato da chiunque: non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che piace, olé.

Inaugurata lo scorso agosto, la pagina ha raggiunto, mentre scrivo, un totale di 18657 iscritti (una sono io). I vincitori sono stati comunicati a fine marzo. Per partecipare (la scadenza del concorso era il 31 dicembre 2014), bastava iscriversi al gruppo pubblico e caricare in bacheca l’immagine dell’opera con la quale si intendeva partecipare. I lavori sarebbero stati sottoposti al vaglio di una “giuria internazionale” (presumibilmente Giorgio Grasso, nel salotto di casa sua). Ma al giudizio dei critici si sarebbe sommato il «voto popolare», ossia i like. I vincitori sarebbero stati suddivisi nelle categorie Pittura (astratta/figurativa – con sottocategorie come «pittura di paesaggio», «sintetismo», «realismo magico») e Scultura (astratta/figurativa).

Come onestamente si sottolinea sul sito artgiograsso.org, l’iniziativa ha scatenato un putiferio: alcuni, dichiarando di sentirsi sviliti dalla bruttezza delle opere e imbarazzati di dover vedere i propri capolavori tra tante schifezze, hanno postato commenti inviperiti minacciando di ritirarsi (ma senza farlo). Altri si sono dati da fare per ottenere (elemosinare) più like possibili, importunando sconosciuti con messaggi privati e pubblicando compulsivamente la propria opera più volte al giorno. Altri hanno utilizzato la pagina per diffondere per la prima volta la produzione di una vita intera, entusiasti di aver finalmente trovato l’occasione che per cinquant’anni avevano atteso con fiduciosa pazienza. Altri hanno fatto ricerche sulla possibilità di acquistare pacchetti di like, accusando alcuni partecipanti di aver utilizzato tale pratica. Altri si sono insospettiti per misteriose incongruenze: “Che strano! Dopo circa un mese ritrovo la foto del quadro che avevo inserito, ma neanche un ‘mi piace’, mentre ricordo che due o tre giorni dopo ce n’erano mi pare una ventina. Che fine hanno fatto?”.

Il mondo dell’arte si divide in due, gli artisti e quelli che non sanno di essere artisti! Ognuno dovrebbe far uscire l’artista che è in lui!

Tuttavia, sempre sul sito, si festeggia il «grande successo» dell’iniziativa: perché l’arte deve circolare, diffondersi capillarmente. Se ne deve discutere, soprattutto in Italia (eh sì, occorre sottolinearlo: non dimentichiamo che questa Biennale su Facebook è Internazionale), dove viene bistrattata perfino nelle scuole. Il web è un mezzo democratico e collega tutti con tutti. Si conclude con (mia punteggiatura, altrimenti assente o sbagliata): «Il WEB e FACEBOOK non sono il nemico. Il nemico per l’arte è essere poco visibile, relegata nelle mani di pochi e fruita da pochi».

L’idea di sperimentare le potenzialità della rete nella produzione di arte e cultura contemporanea è che quella che ha fatto il successo dell’ormai caduto nell’ombra Undo.net, network di artisti e curatori fondato nel 1985, fondato sul concetto della partecipazione diretta e di una diffusione democratica dell’arte. Durante sei mesi di lunghi pomeriggi (non retribuiti) passati negli uffici della sede in via Farini (Milano), ho sperimentato sulla mia pelle le potenzialità della rete e la democratizzazione dell’arte: il mio compito era quello di redigere le sinossi dei comunicati stampa per la sezione Press Release, aggiornamento quotidiano delle mostre in Italia e nel mondo. Se occorrevano cinque minuti per sintetizzare i comunicati stampa chiari e interessanti delle grandi mostre all’estero, avevo bisogno di ore per riuscire a cavare tre righe dai comunicati stampa logorroici, sbrodolanti, deliranti e pieni di errori delle piccole mostre provinciali e comunali italiane. Una cosa mi è rimasta impressa: di qualunque soggetto e tipo di opera si trattasse, che fossero piatti in ceramica o i ritratti dei gatti di Zio Gino, la fragilità della condizione umana e la fugacità della vita erano sempre in mezzo.

Grazie all’esperienza di Undo.net, ho capito è che la colpa non è degli artisti. La colpa è di Sgarbi. E di Giorgio Grasso. E dei piccoli curatori e redattori di comunicati stampa di provincia, sbrodolanti e deliranti. La colpa è di chi col linguaggio tenta di organizzare un materiale che non ha bisogno di organizzazione e teoria, ma che dovrebbe esistere nel mondo semplicemente esercitando il proprio diritto di esistere.

Quello che più mi sconvolge è che sulla pagina della Biennale Internazionale d’Arte su Facebook trovo molte opere che mi commuovono e che mi ritrovo a salvare (nel senso di “salva con nome”, non di mettere in salvo) e che la vera voce di questi artisti “internazionali” (il novanta per cento dei partecipanti è italiano e non credo ci sia qualcuno al di sotto dei quaranta – ma ce ne sono molti sopra i cinquanta) è una voce che per qualche motivo mi spezza il cuore:

Dipingo perche è l’unica cosa che mi dà forza per superare i periodi bui che si incontrano nella vita. Dipingo dall’età di 10 anni e non ho più smesso

«Dipingo da quando ero piccola, non so se sono brava, ma amo i miei lavori come fossero i miei figli. Ritengo che questa iniziativa sia veramente valida, anche solo per confrontarsi con altra gente che ama l’arte come me».

«Il mondo dell’arte si divide in due, gli artisti e quelli che non sanno di essere artisti! Ognuno dovrebbe far uscire l’artista che è in lui! Andare al di là delle barriere, dei condizionamenti ed esprimersi attraverso i colori, le note, le parole, la materia. Tutto diventa poesia se sappiamo leggere tra le righe della vita!».

L’idea alla base della Biennale di Gioni Il Palazzo Enciclopedico era quella di adottare un approccio antropologico allo studio delle immagini e indagare il «desiderio di sapere e vedere tutto». Era come se, nell’urgenza di rispondere a domande necessarie e precise (Quale spazio è concesso all’immaginazione, al sogno, alle visioni e alle immagini interiori in un’epoca assediata dalle immagini esteriori? E che senso ha cercare di costruire un’immagine del mondo quando il mondo stesso si è fatto immagine?) le distinzioni tra artisti professionisti e dilettanti, outsider e insider diventassero inutili. Il titolo della Biennale si rifaceva appunto al progetto di un “dilettante”, Marino Auriti: un museo di 136 piani che avrebbe dovuto occupare più di 16 isolati della città di Washington ed essere in grado di ospitare tutto il sapere dell’umanità.

Così raccontava Gioni sul comunicato stampa: «L’impresa rimase incompiuta ma il sogno di una conoscenza universale e totalizzante attraversa la storia dell’arte e dell’umanità e accomuna personaggi eccentrici come Auriti a molti artisti, scrittori, scienziati e profeti che hanno cercato – spesso invano – di costruire un’immagine del mondo capace di sintetizzarne l’infinita varietà e ricchezza. Oggi, alle prese con il diluvio dell’informazione, questi tentativi di strutturare la conoscenza in sistemi omnicomprensivi ci appaiono ancora più necessari e ancor più disperati». Tornando a scorrere le immagini e a leggere i commenti sulla pagina della Biennale d’Arte su Facebook, si materializzano vaghe e poi sempre più nitide le immagini dei quadri appesi tra le mura di casa mia, fatti da me dagli zero ai 23 anni, quadri che mio padre non considera nemmeno minimamente di eliminare (come io invece vorrei) e che non stonerebbero affatto su questa pagina.

Mi chiedo: ma queste persone sanno che esiste un vero mondo dell’arte, che non è il loro, e che invece è il mondo in cui circolano i soldi? Quello in cui bisogna accostare al cappotto di taglio sartoriale un paio di Nike color avorio e verde fosfo. Quello che tiene conto di ciò che succede nei musei e nelle gallerie di New York, Londra, Berlino, Vienna, Miami, Kassel, Basilea; quello in cui è vietato, parlando di se stessi, utilizzare l’espressione “periodi bui”. Quello che per capire qualcosa bisogna leggere (a volte senza capire) Artforum, Frieze, Kaleidoscope, Mousse, Nero e tanti altri che probabilmente non conosco. Quello in cui nessuno si scandalizza più di niente dal 1917?

In realtà, forse non c’è molta differenza tra l’omologazione naïf e l’omologazione cool. I naïf evitano il confronto con la realtà dell’arte contemporanea e decidono, per ignoranza, per scelta, o perché hanno sessantanni e dipingono vasi di fiori, di stare fuori dai giochi. Bisogna dire che tra le opere naïf esiste una varietà nella bruttezza che l’arte contemporanea underground si sogna. I cool, d’altro canto, sono obbligati a correre di qua e di là annusando l’aria e affannandosi intorno allo zeitgeist percepito o percepibile. Vince chi capisce per primo che cazzo sta succedendo. Ma, guarda caso, forse quasi nessuno ha capito: nell’alone patinato e fosforescente del cool tutte le opere si assomigliano. Consolazione: almeno si assomigliano con cognizione di causa, almeno i loro artefici stanno nell’hic et nunc;  sanno quali colori è meglio usare e che se proprio si vuole fare una scultura sarà meglio farla viscida o pelosa.

Cos’è allora a fare la differenza? O meglio: come si diventa Massimiliano Gioni? Forse quello che conta è accettare di correre dei rischi, forse è lo sforzo che si fa per emergere dall’ignoranza e, una volta emersi in superficie, mentre tutti nuotano in una direzione, iniziare a fare qualcosa che non sia nuotare. O forse, invece di iscriversi al Liceo Artistico Medardo Rosso di Lecco, a 14 anni bisogna trasferirsi a Vancouver, Canada, per frequentare lo United World Colleges. O forse è tutto nel Dna.

In conclusione: non lo so e forse non lo voglio sapere. L’unica cosa che mi interessa è che il 9 maggio arrivi in fretta, così potrò finalmente visitare la Biennale di Enwezor, dal promettente titolo All the World’s Futures, con ai piedi le mie Nike: un passo lontano dai fantasmi dei miei quadri e dalla straziante Biennale di Giorgio Grasso, e un altro passo verso il futuro. Per dimenticare il pappagallo nella gabbia e sì, perfino l’hotel, l’hotel di Mestre, Hotel Regit si chiamava.