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I Club Dogo hanno fatto la storia ma non sono una cosa del passato

È tornato con un nuovo disco il trio che ha fatto uscire il rap italiano dagli anni Novanta.

di Federico Sardo

I Club Dogo sono stati l’apice del rap italiano o, se lo chiedete ai puristi, l’inizio della fine. Ma anche questo è ormai vero fino a un certo punto, perché se per i puristi dei primi anni Duemila erano il demonio, ormai hanno fatto il giro, e si sono così ritrovati alfieri di un certo tipo di old school legata allo street rap, in contrapposizione con le nuove leve. Nel corso della loro carriera però, anticipando ogni trend, sono riusciti di volta in volta a farsi odiare dal pubblico più oltranzista del genere, proprio come in anni più recenti è successo man mano ai vari Sfera, Dark Polo Gang, FSK, Baby Gang, Simba La Rue.

È lo stesso Gué, nel suo libro Guérriero (uscito nel 2018 per Rizzoli) a rivendicare un po’ di questi primati: «Tra le cose che ho fatto in anticipo: mettermi dei denti d’oro, portare la “piazza” sul palco, indossare e creare bling bling personalizzati, usare l’autotune, vestire Stone Island, Supreme, Kappa, Champion, Gucci, Vuitton, Fendi, citare tutti i marchi nelle rime, swaggare, avere un’etichetta indipendente, creare un brand di streetwear, andare nei gossip con delle fighe famose, sdoganare e istituzionalizzare lo show del rapper nei club commerciali, indossare Rolex veri, mettere questo lifestyle nelle rime, citare cibo e alcol costosi, e la lista continua». Anche per chi li aveva seguiti più o meno dall’inizio, quando uscì un pezzo come “Spacco Tutto” l’impressione era “Questo non è neanche più rap”, ma la verità è che si erano sintonizzati prima degli altri su come il rap stava cambiando.

I Club Dogo, nei loro dieci anni abbondanti di attività prima del recente ritorno, hanno fatto il film dei Soliti Idioti, i featuring con Rosario Miraggio, portato i tronisti sul palco e girato reality show, fregandosene di tutto. E diventando lo stesso culto perché sapevano rappare. Quello che ha sempre dato davvero fastidio ai loro hater è che fossero forti a fare rap. Fossero stati commerciali e “venduti”, ma scarsi, non sarebbe stato un problema: sarebbero semplicemente stati gli ennesimi da bollare come sucker. Il problema è che facevano tutto quello che poteva far imbufalire gli integralisti della scena, a partire da quando si presentavano nei centri sociali tutti vestiti firmati (all’inizio rigorosamente con capi taroccati), ma sul saper rappare non si è mai potuto dir loro niente.

Avevano innanzitutto dimostrato di saper fare anche il rap antagonista (“Cronache di resistenza”, “Hardboiled Sabotatori”), creare pietre miliari serissime e di qualità indiscutibile (“Serpi”, “Dolce Paranoia”), di saper fare il rap di strada (“Puro Bogotà”, “D.O.G.O.”), e anche nel diventare più commerciali di saperlo fare comunque sempre con inventiva, originalità, tecnica, flow, capacità di scrittura, metafore, punchline, citazioni, immaginario, riferimenti iper contemporanei e uno sguardo proiettato alle nuove tendenze.

La loro rivoluzione, dietro all’ostentazione di menefreghismo, è stata aver portato il rap veramente nelle strade, nelle piazze, agli zarri che prima ascoltavano solo la dance (genere che comunque non hanno mai disprezzato: ricordiamo la collaborazione con i Datura, o il cameo di Ricky Le Roi e Franchino nel video di “Brucia Ancora”). Il loro cruccio era che nel resto del mondo “gli zanza” ascoltavano il rap, da noi ascoltavano solo la dance. Il rap qui era una cosa di nicchia, per borghesi acculturati (quali anche loro erano, per estrazione sociale), che potevano seguire scene e comprare dischi e vestiti fuori dal mainstream. I Dogo hanno deciso di ignorare il contesto italiano, di fare come in America e di fregarsene di tutta l’ortodossia alla quale il genere era legato nel nostro Paese.

L’unico contesto al quale rispondono è quello delle piazze milanesi degli anni Novanta, dove il gruppo nasce e si sviluppa tra i chiloom, i cani, i motorini truccati e le Nike Silver. Sono le panchine del parco Sempione, dove si mescolavano sancarlini, zarri, alternativi, rapper e spacciatori. È quello il loro mondo ed è a quel mondo espanso che parlano, che arrivano e che portano il rap, che pian piano comincia a diventare un fenomeno nazionale. I Club Dogo hanno fatto diventare il rap la musica degli zarri, come dicevamo, e a seconda del punto di vista da cui guardate la cosa può essere una vergogna o l’apogeo di un genere. Di sicuro era quello che volevano.

Ora sono tornati, un po’ a sorpresa, quasi all’improvviso, dopo una decina di anni di pausa. Lo hanno fatto con un disco arrogante e potente, con lo status di classici, potendosi permettere autocitazioni nei testi e nelle musiche, un trailer con la partecipazione di Beppe Sala, un release party in Triennale, dieci Forum di Assago, lo stadio di San Siro. Leggevo qualche giorno fa una polemica social seguita alla definizione “il gruppo più influente del rap italiano”, ma è innegabile che se oggi il genere è arrivato dove è arrivato, che piaccia o meno, lo ha fatto guardando ai Club Dogo più che a chiunque altro.

Quello che i tre non hanno perso in questi anni è la voglia di fare le cose in grande e il gusto per fare incazzare facendo quello che i critici non si aspettano. Creano una pagina Instagram e la risposta è “tanto faranno solo ristampe”; annunciano i live e “tanto non faranno un disco”; annunciano il disco e “tanto sarà pop e pieno di featuring”. Invece il disco è rap al 100 per cento, con collaborazioni ridotte all’osso e la volontà di sottolineare il proprio ruolo in questa storia. In un’intervista di qualche anno fa Gué diceva che la sua paura più grande, avendolo visto succedere ad altri, era quella di svegliarsi un giorno e accorgersi di non essere più bravo a rappare come una volta. Non sappiamo come proseguirà questa reunion, se ci saranno altri episodi o se sarà l’epico finale della sigla, ma quello che possiamo dire con certezza è che per il momento quel giorno per i Club Dogo è ancora lontano.