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Chiara Ferragni, il racconto dell’ancella dell’algoritmo
In evidente calo d’engagement, col reality che non funziona come quello delle Kardashian, ha compiuto il gesto estremo ed è salita sul palco di Sanremo: ma non è andata benissimo.
Chiara Ferragni partecipa a Sanremo non all’apice del suo successo. Lo dicono le metriche social, lo dice l’engagement; la sua massa di follower è stabile sui 34,6 milioni tra Instagram e TikTok, ma Khaby Lame ne ha 234,4 milioni, ammassati in meno di due anni. Durante la prima serata di Sanremo, Chiara Ferragni viene citata in 55mila contenuti online, ma Blanco arriva agilmente a 150mila. Tra i top hashtag #chiaraferragni si ferma al decimo posto. Webboh, termometro di cosa interessa alla generazione Z, dedica la prima card del dopo-Sanremo sempre a Blanco. Chiara Ferragni ha fatto di sé stessa un content e in quanto tale vale solo quanto riesce a stare sulla cresta dell’hype. È il motivo per cui alla fine ha accettato di andare a Sanremo; a differenza di quando era ancora solo una fashion blogger, adesso la concorrenza è aumentata esponenzialmente, Instagram sta perdendo la battaglia contro TikTok, e l’algoritmo comunista di TikTok le è meno amico. Rimanere in hype è un lavorio giornaliero: gli influencer ragionano per content, frammentano le loro vite, le spezzettano e le riadattano ai formati, alle challenge, alla musica virale del momento; poi tutto viene portato in dono al dio algoritmo, che decide a chi tocca il jet privato e i viaggi pagati a Dubai, e a chi no. Chiara Ferragni è stata tra i primi in Italia a concepire la vita interamente come content, tra l’altro con grande successo avendo il dono naturale della viralità. Dono che si manifesta curiosamente molto più di frequente nei corpi di giovani fanciulle dall’aspetto virginale, meglio se bionde, con occhi azzurri e fisico longilineo. Chiara Ferragni, devota ancella dell’algoritmo, ha da sempre dato tutto di sé: la sua quotidianità, le sue relazioni, la famiglia, le sorelle, il cane, il matrimonio, i figli. Donando tutto di sé stessa, ha preteso e ricevuto in cambio moltissimo ma non ha mai accettato e neanche capito i commenti non adoranti. L’unico commento possibile è come quello che le lascia la mamma a ogni post: «Bravissima e bellissima, amore mio!». Ultimamente invece, oltre al calo dai dati, ha dovuto vedersela con critiche molto più specifiche e ragionate, queste non cucite sul vestito a differenza di «hai le tette piccole»: la beneficenza performativa, il dibattito sul diritto alla privacy dei bambini usati come leve per l’engagement.
La Ferragni finché ha potuto ha mutato forma come muta forma continuamente il mondo virtuale. Prima erano le giovani Millennial che la seguivano, trovando in lei un modello di ragazza che fugge dalla provincia e finisce a Los Angeles. Il periodo losangelino della Ferragni è quello che preferisce ricordare di meno: diventa più magra, scurisce i capelli, segue i consigli del fidanzato americano, fotografo bello e tenebroso, probabilmente quello che le ha fatto “violenza psicologica”, probabilmente quello che le ha fatto notare che Hollywood non è CityLife e se vuole avere successo lì, il sacrificio richiesto è ancora più alto. A Los Angeles, Chiara soffre di solitudine, non ha vicino quella rete familiare che a Milano la sostiene; i brand che ama continuano a snobbarla, le Chanel dovrà continuare a comprarsele da sola, si imbuca ai party di Louis Vuitton sognando di diventare il volto del brand, cosa che non succederà. Torna in Italia e arriva il raggio di luce alla fine del tunnel: Fedez. Si fondono e diventano entità unica, i Ferragnez, si scambiano gli anelli e uniscono l’engagement, raggiungendo il picco massimo con il matrimonio e poi con la prima gravidanza. Raggiunta la cima, inizia la discesa: la condivisione minuto per minuto della crescita del feto porta tanti follower a smettere di seguire l’influencer. La documentazione sistematica della vita del figlio mette ansia: Leone Lucia Ferragni fa parte di quei bambini online di cui puoi riavvolgere e rivedere in un attimo la sua vita scrollando all’indietro i feed dei genitori. Oggi a seguire la Ferragni sono rimaste ancora alcune ragazze di provincia alla ricerca di visibilità, ma locale più che internazionale. Le borse brandizzate Chiara Ferragni non vanno a ruba a Rodeo Drive ma da Monelli Kids. Il nuovo pubblico della Ferragni sembra fatto soprattutto di audience mature, di nonni lontani fisicamente dai propri nipotini, o desiderosi di nipotini che non avranno, che trovano un palliativo nella relazione parasociale con Leone e Vittoria. I figli diventano il perno centrale del piano editoriale. Gli unici altri momenti in cui i numeri salgono di nuovo è quando posta foto in intimo. Gli influencer ricordano i prescelti aztechi: esseri umani, spesso fanciulle vergini, che per puro caso o per volere degli dèi (a seconda del punto di vista), godono dell’onore di sacrificare la loro vita per il bene collettivo, acclamati e compatiti dal popolo che li guarda rotolare sanguinanti dai gradoni della piramide.
Così una Chiara Ferragni in evidente calo d’engagement, col reality che non funziona come quello delle Kardashian, compie il gesto estremo e sale sul palco di Sanremo. Sa che può cadere ma un po’ ci spera: fa hype. Prepara però i suoi follower con una sfilza di stories in cui si dice nervosissima, mette le mani avanti e si scusa preventivamente: la ricerca perenne d’approvazione è il suo problema, se lo porta dall’infanzia e non l’ha mai veramente superato. Sale sul palco e sa cosa deve fare: applicare metodicamente la formula dell’indignazione. Un finto dilemma da commentare (le critiche a un corpo bellissimo e conforme a tutte le regole del mondo dello spettacolo), la buona causa per cui spendersi (contro la violenza sulle donne), il vestito che fa da base per i meme. Provoca in attesa della risposta, e se la risposta è negativa tanto meglio (fa hype). Durante il monologo cerca di piangere ma non le riesce, a differenza di Meghan Markle al funerale della Regina (una lacrima sola, dall’occhio sinistro). Il monologo, una lettera a sé stessa, è tremendo. Pessimo. «Sembra scritto da ChatGPT», è il commento più gentile che si legge su Twitter. I vestiti, che lei indossa al suo solito modo cioè facendo sembrare fast fashion made in Internet l’haute couture, sono certamente migliori del monologo. Quando compare sul palco con l’outfit, in contemporanea il suo team posta su Instagram le foto e una spiegazione sul perché di quell’outfit. Ad esempio, il vestito con le frasi degli hater ricamate sopra è un invito a «fregarsene delle frasi sessiste». Eppure, leggendo «Photoshop, il culo vero è FLACCIDO» ricamato con «filo nero su un peplo bianco», non ho potuto fare a meno di pensare a Saman Abbas, a cui i parenti hanno spezzato il collo perché voleva sentirsi libera. Leggendo «Perché non ti rifai il seno», non ho potuto fare a meno di pensare a Tiziana Cantone che si è impiccata con una sciarpa intorno al collo, perché non era un’influencer, e non aveva un team social, e nulla poteva salvarla contro il linciaggio online. Hai la possibilità di salire su un palco incredibile e dire cose importanti, e l’unica cosa che fai è una patetica rivalsa contro sconosciuti di Internet che in massa hanno contribuito al tuo successo, di seni piccoli e culi flaccidi, come se fosse quella la violenza reale e non un cruccio da privilegiata. Con tanto di velata minaccia agli hater futuri (vi metterò sulla gogna mentre faccio il fitcheck, i miei devoti vi linceranno), e soprattutto alle donne che non possono odiarsi liberamente come fanno gli uomini tra di loro, ma devono sottostare al ricatto della sorellanza. Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione, ma qualcuno può manifestarlo più liberamente: tra Bellissima Costituzione e algoritmo, vince l’algoritmo. E un’ancella dell’algoritmo porta a compimento il suo unico dovere: nutrirlo con sé stessa come content, senza altro significato.