Cultura | Dal numero

Capo Plaza e il lato oscuro del successo

Dopo due album trionfali, il nuovo progetto, Hustle Mixtape e adesso il tour, in quest'intervista uno tra i più ascoltati rapper italiani ci ha raccontato di come la fama non sia soltanto una cosa positiva.

di Federico Sardo

Tutti i ritratti sono di Anna Adamo

Capo Plaza ha 24 anni, 47 dischi di platino, 23 dischi d’oro e oltre 1,2 miliardi di stream sulle piattaforme digitali. Rappa da quando aveva 13 anni, ma è esploso tra il 2017 e il 2018, diventando uno dei principali esponenti della trap italiana. Dopo due album di grande successo (20 e Plaza), il 3 giugno è uscito il suo nuovo progetto, Hustle Mixtape: 12 pezzi con solo featuring internazionali, nei quali non ricerca la hit radiofonica ma continua per la sua strada con lo sguardo rivolto all’Europa, restando fedele ai canoni di un genere che continua ad appassionarlo e a sentire suo. Un genere che non sta cambiando solo la musica italiana e le classifiche, ma anche lo scenario sociale: il rap è da sempre legato alle periferie e alla loro rabbia, ma se in passato in Italia si trattava di un gusto di nicchia importato dall’estero, ascoltato e vissuto soprattutto dai giovani della classe media (mentre il vero popolo restava legato alla “musica da discoteca”), ora anche da noi è diventato la colonna sonora dei quartieri dimenticati, la “Cnn del ghetto” di cui parlavano i Public Enemy. Durante lo shooting, Plaza ha la faccia molto imbronciata, ma quando ci sediamo a parlare è gentile e disponibile, per quanto le sue parole siano spesso piuttosto amare. Ha solo 24 anni ma gli ultimi cinque devono essergli sembrati molti di più. Rispetto a tanti suoi colleghi sembra aver fatto un profondo lavoro di autoanalisi, ma appare poco pacificato: i lati oscuri del successo fanno sì che la sua felicità sia soltanto relativa. Questo è quello che ci ha raccontato, pochi giorni prima dell’uscita del mixtape.

Come stai?
Bene è un parolone, però si va avanti.

Con un disco in uscita sei in ansia o contento perché il lavoro è finito?
Sono un tipo molto critico, vivo sempre molto in ansia e in paranoia, quindi quella è costante. Invece sono soddisfatto di questo progetto più di altre volte. Mi rappresenta molto, sono stato molto libero di interpretare la musica, la copertina, tutto.

Come pensi di essere cambiato in questi anni?
Sono successe tante cose in fretta. Un botto. Sono cambiato tanto, tantissimo. Dicevo “Non Cambierò Mai” (è il titolo di uno dei suoi successi, nda), ma alla fine non è neanche colpa nostra. Viviamo situazioni nella vita e cambiamo, la vita ti fa cambiare. Mi sono trovato a vent’anni in un mondo completamente nuovo, portato sempre alla celebrazione. Mi sono trovato a non avere più rapporti veri, non ho molti amici. Sono cambiato molto, sono cambiate molto le persone intorno a me, ho cambiato io il modo di vedere gli altri. Sono molto più chiuso, sono rimasto scottato da molte esperienze. Dire che dai venti ai ventiquattro anni sono cambiato molto è un eufemismo.

Il successo ha anche lati negativi.
Sì, eccome. Come ogni tipo di lavoro penso abbia pro e contro. Non dirò mai che fare il rapper è una merda, ovviamente ci sono aspetti incredibili, però le cose più naturali non lo sono più. Come avere degli amici. Non sai di chi fidarti, le persone non ti capiscono, vieni visto come qualcosa che non sei, gli amici storici ti voltano le spalle, devi ricostruirti una vita da capo. I pro sono molto soddisfacenti, a me piace molto vedere le persone che ascoltano i miei pezzi, le certificazioni… Sono soddisfazioni, vedere tua madre sorridere orgogliosa è una soddisfazione, però come in ogni cosa ci sono dei contro. E sono tanti, quello della musica non è un bellissimo ambiente.

I rapper sono diventati le nuove celebrità italiane.
Il rap è diventato pop in Italia, anche dal lato musicale. Per me il rapper deve rimanere rapper. Diventi mainstream perché sei ascoltato da milioni di persone, però un rapper deve mantenere quell’identità. Puoi fare il pezzo più pop, ma la maggior parte del tuo progetto deve rispettare quella cultura. I rapper sono i nuovi calciatori, però dipende che tipo di calciatore sei. Uno qualunque o uno cazzuto. Per me la figura del rapper in Italia ce l’hanno in pochi, come Marra o Guè. Alcuni giovani di oggi sono più rap di altri che ci sono da anni. La cultura dell’hip hop in Italia è in evoluzione, anche rispetto a quando ho iniziato io sono stati fatti tantissimi passi avanti, ma c’è ancora molto da lavorare. Non sulla scena ma sulla comprensione del genere, sull’importanza e l’influenza che ha. Noi siamo spesso visti come dei clown, mentre all’estero i rapper sono molto più rispettati, e fanno parte della cultura in generale.

Tu resti nel tuo, rispetto a musiche sempre più pop. Hai mai subìto pressioni per cambiare?
Sono pressioni che ho sentito più da me stesso che dagli altri. È anche importante averle, se non le avessi sarei ancora a casa mia. A volte ho perso un po’ la bussola, è normale: si va a periodi, ci sono periodi di maggiore e minore sicurezza. Questo mixtape è molto free, l’ho fatto con la fame che avevo all’inizio: ho passato dei brutti periodi, ero molto incazzato per tante cose. Avere di nuovo quell’incazzatura, quella voglia di rialzarmi, ha funzionato. Volevo fare un mixtape come una valvola di sfogo, perché non mi sentivo pronto a fare un altro album. Senza pensare a quello che deve funzionare o meno. Sono dodici pezzi che a me piacciono: alla fine è musica, ultimamente si sta perdendo questa cosa.

Esiste il rischio di non evolvere abbastanza artisticamente?
È una critica che sento sempre. Io alle critiche do molto peso, ci sto di merda. Però ho capito che se guardo dove sto e guardo da dove arrivano le critiche… Accetto la critica costruttiva, non quella che offende un lavoro che non si conosce. Ma se metti il cuore in quello che fai le critiche ti toccano.

La rabbia giovanile è stata motore creativo.
Molto, mi ha aiutato perché mi dava la cazzimma. Sapevo di avere una possibilità con il rap, e quindi non ho mai fatto grosse cazzate. Non volevo essere come tante persone che avevo come esempio. Sono stato tra di loro ma non volevo rischiare di rovinarmi la vita. I miei amici già mi dicevano “tu tanto spaccherai, non c’avrai problemi”, già all’epoca. Amici che ora ho perso. Io comunque ho portato a termine la scuola, anche se sono stato bocciato due volte: il pezzo di carta lo volevo, non mi aspettavo tutto questo. Avevo la rabbia ma sapevo che era un sogno. Ci credevo, ma non fino a questo punto. La rabbia mi ha dato forza e mi è servita, ma avere la testa calda comporta anche il sapersi fermare, quando sei in una certa posizione, sennò butti tutto nel cesso. A volte spaccherei tutto ma non posso farlo, non posso espormi più di tanto, sono un personaggio pubblico.

Oggi cosa ti fa incazzare?
Tante cose. L’ingratitudine, molto. E quando non vengo capito. Ho fatto tanto bene nella mia vita e mi è sempre ritornata merda contro. Mi fa incazzare chi sputa dove ha mangiato fino al giorno prima. Un minimo di valori di base, senza moralismo: ognuno fa quello che gli pare, però una base, un minimo… Dal canto mio cerco di essere sempre grato per quello che ho e di non sentirmi mai troppo arrivato, di mantenere i piedi per terra. Siamo tutti uguali, a prescindere dai risultati. I social, i numeri, i follower, sono importanti per capire cosa funziona, però senza esagerare. Ormai poi con 100 mila follower, anche al di là del rap, la gente si sente il capo del mondo. Bisogna lavorare, non perdere la testa.

I social favoriscono l’aggressività?
Dipende da come si usano.

E le faide tra i nuovi rapper?
Quello è hip hop. Fa parte del rap, c’è sempre stato. Se fai parte di quel mondo, se sei appassionato di quella cultura, lo sai, lo accetti. Fa parte del gioco.

Anche il tuo look trasmette una certa aggressività.
Io ero influenzato da Lil Wayne, Birdman, Puff Daddy, Biggie… Quindi come dovevo vestirmi? Nell’hip hop essere ornamentati è dimostrare che ce l’hai fatta, è alzare la Champions League: può sembrare una stronzata ma per me non lo è. Avere la collana, l’anello, l’orologio… Però per me la roba materiale è più un abbellimento, alla fine non compra nulla: puoi fare tutti i soldi che vuoi ma se non stai bene non vai da nessuna parte.

Nei tuoi testi però celebri molto questi oggetti materiali.
Fa parte della mia cultura e sono sempre stato influenzato da testi che parlavano di quello. In America, in Francia, in Inghilterra, anche quando ero piccolo, tutti osannavano le marche. L’immaginario hip hop è la strada mischiata con il lusso, e io di questo parlo nei testi. Perché è il mio percorso: vengo da un determinato quartiere, ho vissuto certe cose, ho fatto certi step. Rimango col mio stile di strada ma indossando anche cose di lusso. È da quando avevo otto anni che guardo queste cose, alla fine per me è normale. “Quello è un rapper, ce l’ha fatta, deve fare quello”. È diventato il mio lifestyle. È automatico, non essenziale. Ma certo mi sento più a mio agio con una collana addosso che senza.

In “Non Bastano Mai”, però, la visione è più amara.
Non bastano a essere felici. Non bastano a compensare la solitudine, il dolore, tutte queste cose che anche i rapper hanno. Sono uscito da un periodo brutto e quelle cose mi hanno anche aiutato. Spendere i soldi ti fa pensare di stare meglio, anche se alla fine stai sempre una merda. Sono un modo per tirarsi su di morale.

E cosa ti manca per essere felice?
Eh, è la risposta che tutti quanti cercano… Non lo so. Forse è più una cosa personale, intima. Forse non c’è risposta. La felicità alla fine è stare bene con se stessi, anche se probabilmente una felicità perfetta e completa non esiste. La vita è un casino.

Come ti trovi a Milano?
È la città più europea che abbiamo in Italia, però le persone sono un po’ strane. Salerno mi manca sì e no perché ho la mia famiglia quasi sempre qui: quello che avevo giù l’ho portato qua, anche i miei produttori abitano qua ormai. Però mi manca comunque la mia città, mi manca vedere il mare. Mi piace Milano anche se ha i suoi contro. Quello che ti dà Salerno non ti dà Milano e quello che ti dà Milano non ti dà Salerno. Per un discorso lavorativo è sicuramente meglio stare qui, però è importante non scordarsi delle proprie radici. Se sono dove sto è grazie alla mia città, e se ho determinati valori è perché vengo da quel posto, Pastena, un quartiere della periferia, al quale sarò sempre grato. Salerno mi ha cresciuto, e Milano mi sta facendo diventare uomo.

Le periferie sono di nuovo al centro delle cronache.
Da anni le periferie sono abbandonate dalle istituzioni, lo sappiamo. E dopo il Covid è tornata proprio la fame per strada: c’è molta gente in difficoltà, è tornata una fame che fino a qualche anno fa era almeno un po’ diminuita. Il Covid ha fatto incattivire di nuovo quei posti, e cosa vuoi dire a chi non sa come andare avanti? Si condanna molto chi finisce per fare certe cose, ma spesso non ci sono alternative.

Senti qualche responsabilità quando scrivi?
Sono io a educare i miei fan: se sei mio fan, ti piace la mia musica, non sono un tronista. Io non voglio essere un esempio per nessuno, non sono un esempio neanche per me stesso. Racconto quello che mi sento di raccontare. Il rap è diventato mainstream, arriva una nuova cultura, preparatevi. È quasi diseducativo dire di non ascoltarlo. I ragazzi stessi devono essere in grado di capire: io non sono un insegnante, faccio musica.

Parliamo molto di riscatto, che quasi sempre però è individuale e non collettivo.
L’Italia non ha mai capito davvero quello che facciamo. Se avessimo un credito diverso, delle opportunità, potrebbe cambiare qualcosa. Ma non mi sembra che in Italia ci sia molta voglia di cambiare le cose, e neanche l’opinione sul rap, diversa da quella che c’è in Francia, in Svizzera, in Spagna, in Inghilterra. L’hip hop non è cultura italiana: finché non verrà preso sul serio, il politico non ti dirà mai di creare qualcosa per il tuo quartiere. Altrove lo fanno, ci sono queste opportunità. Finché la cultura hip hop non verrà presa seriamente, neanche noi potremo mai fare più di tanto dal punto di vista sociale, perché verremo sempre visti come dei clown. Come puoi cambiare qualcosa nella società se un’intera nazione non capisce e non accetta la tua cultura?

Ti ho già chiesto cosa ti fa incazzare, chiudiamo su cosa ti rende felice.
Era più facile l’altra! Ultimamente mi rendono felice pochissime cose, ti dico la verità. Mi rendono felice soprattutto quelle quattro o cinque persone che tengo vicine. E basta. Mia madre, mia sorella, i miei nipoti, queste cose semplici, non altro. Non mi rende felice più niente: alla fine vorrei solamente ritrovare cose che ho perso in questi anni, come amicizie, valori… Mi piace molto viaggiare, è l’unica cosa che mi fa stare meglio. Mi piace andare da qualche parte e fare l’esperienza di stare in un posto, mangiare il cibo di quel posto, cose semplici. Mi è sempre piaciuto già da prima di fare il rapper, ora che economicamente posso farlo perché Dio mi ha dato questo dono, lo faccio ogni volta che posso perché mi dà tanto. Bisogna guardare il mondo, perché ti arricchisce come persona.

Sei credente? Hai nominato Dio un paio di volte.
Sì, ma non praticante. Però ci credo. Fino a un certo punto: non credo al Paradiso e all’Inferno, si muore e basta. Però credere in qualcosa mi aiuta molto, anche nei momenti difficili: pregare qualcuno che ti dia una mano è importante. Avere una spiritualità, qualcosa a livello interiore, qualcosa in cui credere. Qualsiasi cosa sia.

Quest’intervista è tratta dal numero estivo di Rivista Studio. L’edizione cartacea si può comprare qui.