Cultura | Personaggi
Il successo italiano di Byung-chul Han, il filosofo pop apocalittico e integrato
Nato in Corea del Sud, formatosi in Germania, adorato in Italia, dove le sue citazioni e i suoi libri (ne sono appena usciti tre) riempiono il vuoto lasciato dai filosofi nostrani.
Beato il Paese che non ha bisogno di filosofi pop. La nostra lunga tradizione nazionale della costante esaltazione, e ricerca, di un papa nero fa sì che nel giro di tre settimane, tra Einaudi e Nottetempo, escano ben tre libri di Byung-chul Han, coreano germanizzato di stanza alla Universität der Künste di Berlino fino al 2017. Nato nel 1959, Han ha fatto il suo dottorato su Heidegger, dopo aver studiato metallurgia in Corea del Sud. Sulla sua vita si sa pochissimo, solo da pochi anni ha deciso di concedere interviste, ma non parla di sé. Non si sa nemmeno la sua data di nascita o la sua situazione familiare.
Umberto Eco differenziava gli intellettuali in due categorie: gli apocalittici e gli integrati. Il successo di Han è esserli entrambi nello stesso tempo. Han è apocalittico nei contenuti e integrato nel medium. Non ha i social, non fa quasi conferenze, non parla quasi mai con la stampa, non va in televisione, ci sono poche foto. Eppure la sua forma di scrittura – epigrammatica, breve, diretta, categorica, lapidaria – rientra appieno nello Zeitgeist comunicativo. Nessuno comprerebbe mai un libro di 500 pagine di un filosofo teutonico-coreano. Ma venti libri da ottanta pagine dai paragrafi ariosi sì, soprattutto se il titolo ti ha già dato una direzione di pensiero. L’ha detto lui stesso in un’intervista: «Perché scrivere un libro di mille pagine se puoi illuminare il mondo con poche parole? Un libro di mille pagine deve spiegare il mondo, ma magari non riesce a esprimere tanto quanto un singolo haiku».
Come con il giornalismo da clickbaiting, il titolo dei suoi libri più che invitare alla lettura ha la possibilità di sostituirla. Il succo è lì, nella copertina. Il titolo è già manifesto. Niente titoli poetici come Al di là del bene e del male, o allusivi come Il secondo sesso o monumentali come Essere e tempo. I libri di Han si intitolano: La scomparsa dei riti. Oppure Perché oggi non è possibile una rivoluzione. E ancora Elogio della terra. In più sono spesso titoli minacciosi. Creano un distacco temporale dal prima e una sensazione di pericolo. C’è un altro elemento ipercontemporaneo nella scrittura di Han: il citazionismo. Vengono menzionati film celebri, libri non di teoria, luoghi sotto gli occhi di tutti, come l’Apple store. E come con i meme, ci accontentiamo dell’analisi anche senza aver letto la fonte originaria.
I libri di Han sono come una serie TV. Invece di uscire un titanico mattone ragionato ogni cinque anni, escono tanti pamphlet, tante puntate. In ognuna aggiungiamo un pezzetto alla grande trama della serie che potrebbe chiamarsi Si stava meglio quando si stava peggio. Sottotitolo: Il potere è cattivo, la tecnologia è cattiva, siamo spacciati. Han è così convincente nella sua scrittura da profeta che il risultato del lettore è esplodere in un “È vero!” (anche quando non è vero), alla fine di ogni paragrafo, e in un desiderio di condivisione del verbo, e questo, in una sua forma diventa confortante. In una quinta ginnasio oggi ci si immagina che si possa rimorchiare con un Han sotto al braccio come si poteva fare un tempo con un Camus. I due Vasco nazionali (Brondi e Rossi, divisi dall’età e uniti dalla regione) sono entrambi fan del filosofo, il primo lo posta su Facebook e presta la sua voce per gli audiolibri. Il secondo lo cita nelle interviste: «Oggi ho più consapevolezza, grazie alle esperienze ma anche alle letture. C’è questo filosofo coreano che dice che oggi viviamo nel “mondo della prestazione” e non abbiamo neanche più bisogno di un padrone che ci sfrutta: ci auto-sfruttiamo da soli per realizzarci, convinti di essere liberi».
I testi appena usciti sono Infocrazia e Le non cose (una ristampa) per Einaudi, e Iperculturalità per Nottetempo. Nel primo l’attacco è alla digitalizzazione, gli individui sono per il sistema solo consumatori di informazioni e miniere di dati: «Con il suo dataismo, il regime dell’informazione manifesta tratti totalitari». Nel secondo scrive il filosofo: «Stiamo diventando tutti dei feticisti delle informazioni e dei dati». Le non cose, i non oggetti, stanno prendendo il sopravvento su ciò che è tangibile, togliendo all’uomo la gioia delle piccole cose. In Iperculturalità ci si concentra sui consumi culturali e su una inevitabile e consolidata globalizzazione che, con le nuove tecnologie, uccide le differenze culturali, il qui e l’altrove sono confusi. I nemici sono sempre gli stessi.
Seppur intercambiabili e ripetitive, le opere di Han sono degli ottimi strumenti nell’epoca accelerata della distrazione contro cui combatte. Sono dei Bignami del pensiero catastrofista contemporaneo. Feudalesimo digitale, tecnocrazie, società della stanchezza, ADHD, frasi di Baudrillard, biopolitica. Sono condensati, potenti e ritmati. Ma perché proprio in Italia questo filosofo ha così tanto successo? Intanto va inteso con successo un apprezzamento che non ha certo i numeri da Leoni di Sicilia o da Stephen King o da giallista Sellerio. È più simile all’exploit di un Mark Fisher, altro papa nero ben confezionato chez nous da Not. Sulle ipotesi della sua fortuna in Italia si possono solo fare delle ipotesi. Da una parte Han potrebbe riempire un vuoto, grazie alla sua forma ben cadenzata di citazioni e fendenti apodittici dal carattere inconfutabile, considerati i nostri filosofi in house.
Giorgio Agamben, massimo apocalittico, è troppo difficile per i più. Diventato nome mainstream come antagonista del buon senso governativo nell’era del Green Pass, attraverso qualche frase amplificata dai telegiornali, Agamben non regge il mercato con i suoi titoli in latino. Le nuove leve, invece, Emanuele Coccia o Leonardo Caffo, possono esser visti, da Gen Z Extinction Rebellion o millennial che aspirano all’andare Off the grid, come troppo poco radicali, combattivi e distruttivi, in quanto salvano qualcosa della società. Non aspettano la catastrofe come vecchi saggi seduti in cima alla montagna. Altra ipotesi di vuoto da riempire potrebbe esser quella lasciata da un certo tipo di intellettuale impegnato – i Pasolini novecenteschi – che in modo frontale e immediato, quasi rabbioso, spesso arrogante, dicevano la loro sul tempo in cui vivevano su diversi canali. Oggi non ci sono nuove figure di questo tipo che non risultino ridicole (come Diego Fusaro nella squadra anti-turbo-capitalista o, sul fronte giornalistico dall’anti politically correctness, un Giuseppe Cruciani), oppure queste voci sono di una generazione troppo lontana, percepite come stanche (Massimo Cacciari).
Come nel dualismo apocalittico/integrato, il seguito di Han esternalizza questo cortocircuito, creando degli adepti che usano gli stessi strumenti condannati dal filosofo per divulgare (e guadagnare). Colamedici e Gancitano, le menti dietro Tlon (“Scuola permanente di filosofia e immaginazione”), sono riusciti a portare Han fisicamente a Roma. Lo citano, lo adorano. E usano social e comunicazione digitale – i nemici di Han – per accrescere la propria fan base. Un glitch. Come usare Sorvegliare e punire di Michel Foucault per costruire una prigione.