Cultura | Libri
Lettere di un giovane scrittore scimmiato
L'epistolario appena pubblicato da Adelphi è la prova dello straordinario talento comico di William S. Burroughs, oscurato dalla sua fama di visionario.
«Ho appena buttato tre ore a scrivere e a te e a Marker. Farò bene a conservare le mie lettere, magari riusciamo a ricavarci un libro quando mi sarò fatto un nome». Così scriveva – profeticamente, come sempre – il 22 aprile 1952 da Città del Messico quel giovane scrittore scimmiato Bill, come si firmava. Solo otto mesi prima aveva sparato alla moglie Joan Vollmer, in uno degli episodi più folli e ambigui della storia della letteratura: lui che forse la invita a mettersi un bicchiere sopra la testa – alla Guglielmo Tell – e la uccide con la pistola che si portava sempre dietro per divertimento e paranoia (due fari, a pensarci, di tutta la sua vita). La vicenda non trova mai un racconto plausibile: i possibili desideri suicidi della moglie, la quantità di alcol ingerito dalla coppia, la volontà omicida di lui (la possessione dello “Spirito Brutto” da cui si sarebbe liberato da vecchio con un rito sciamanico), la versione di comodo approntata per il tribunale messicano grazie a un avvocato che subito dopo – ehm – avrebbe sparato a propria volta a un teppistello e sarebbe scappato. Dell’incidente si parla poco qui, perché l’epistolario (Il mio passato è un fiume malvagio. Lettere 1946-1973, a cura di Oliver Harris e Bill Morgan, traduzione di Andrew Tanzi, Adelphi) presenta una scelta tratta dai due volumi originali, effettuata per l’edizione italiana da Ottavio Fatica. Carotaggi di una vita e di uno stile, quindi. Microdosi di mescalina burroughsiana, per chi fosse in astinenza. E quindi confessioni contraffatte, viaggi o trip, invettive, lampi di perfidia, cinismo a profusione. Oltre a una serie di incubazioni di incubi, confluite nei romanzi.
In realtà ogni volta che riapro il grande beat tossico mi rendo quanto di quale straordinario scrittore comico fosse, oscurato dalla propria fama di visionario. Sì, certo: Pasto nudo, il cut-up, l’Interzona, il nichilismo tossico, eppure leggere queste lettere è in grandissima parte un’esilarante discesa nella mente di un comico sprezzante imbottito di roba. Dileggia Ginsberg per la sua pavidità verso l’omosessualità, enumerando il numero di rapporti che ha avuto con i camerieri del posto. Quando Kerouac va a trovarlo, si lamenta delle sue incursioni nel frigorifero come un coinquilino in Erasmus (eppure fu proprio K. a coglierne lo spirito swiftiano). Spara memorabili stronzate tipo: «Credo che lo yage sia una droga telepatica, ma non posso esserne certo». Quando conosce un junkie scroccone: «Io chi sono, la Società Benevola del Tossico, Cristo santo?». Quando ragiona sui romanzi in via di pubblicazione (sono gli anni di La scimmia sulla schiena e Queer): «Dobbiamo stare attenti con questi nomi. Cambia Johnny l’irlandese in l’Irlandese e basta, oppure Jimmy l’irlandese. È morto ma potrebbe avere degli eredi. Il vecchio Bart può restare Bart. È morto – problemi di cuore – e non ha parenti». Quando vorrebbe piantarla con le pere e teme di perdere la pancia piatta, nemmanco scrivesse per un settimanale femminile chiamato Eroina e wellness: «Metti caso che è la roba a conservarmi e che se e quando la mollo divento grasso? Questo sì che è un dilemma!». Quando sente aria di integralismo in Marocco: «Mi sono comprato un machete. Se parte un jihad mi avvolgo in un lenzuolo lercio e mi precipito in strada e faccio un po’ di jihad pure io». Quando scrive al figlio (12enne), per dirgli che si è disintossicato: «Ora sono in grado di viaggiare, essendomi liberato della scimmietta che mi causa sempre tanti problemi con gli agenti della dogana…». La tenera scimmietta dell’ero, bambino mio!
Era comico perché, tra i beat, era il più intelligente, ergo il più sardonico, lontano dall’enfasi palingenetica di Allen Ginsberg e dal furore ebbro di Jack Kerouac, per restare agli unici tre nomi che abbiano ancora un effettivo valore letterario (proprio a quei due, tra l’altro, è indirizzata la maggior parte delle lettere). Era anche il più lucido e sbiellato di tutti, capace incredibilmente di sopravvivere meglio degli altri (di vivere, anche, tout court: cioè seppellirli tutti), di contare a lungo su una serie di adepti e proseliti, di finire nel secondo lungometraggio di Gus Van Sant (a interpretare un prete, giustamente) e di ricevere Kurt Cobain in soggezione come uno scolaretto («Quel ragazzo è troppo nervoso», pare che abbia detto, perfidamente). Negli anni novanta era ridiventato cool. Nonostante tutto. La fatica di leggerlo, tra l’altro. E poi le contraddizioni, le ambiguità. E non solo per la questione dell’uxoricidio ma per mille altre cose, compresa la faccenda dei ragazzini, che qui ha momenti schiettamente ripugnanti (ci prova con un tredicenne davanti ai genitori, oppure: «Ti ho mai detto di quando io e Marv abbiamo dato sessanta centesimi a due ragazzini arabi per guardarli scoparsi l’un l’altro?». Finché un amico non slitta verso i bambini di otto anni e lui si dice disgustato: alleluia, Bill).
Sì, certo: Pasto nudo, il cut-up, l’Interzona, il nichilismo tossico, eppure leggere queste lettere è in grandissima parte un’esilarante discesa nella mente di un comico sprezzante imbottito di roba
D’altra parte anche il proprio corpo per Burroughs è un campo d’esperimento per ogni tipo di sballo, sedazione, scarto, visione. Prova di tutto. Ingerisce, inala, inietta: usa l’Io come un alambicco per esperimenti verso l’altro mondo. Possibilmente con viaggio di ritorno, anche se rischia di schiattare a ogni momento. Bilancia, regola, miscela: indaga. Mad Doctor, Sherlock Holmes dell’estasi, cuoco dandy dello sbando. Aggiusta l’eroina con la codeina, la codeina con il fenobarbital, il fenobarbital con dio sa cosa. Erba, coca, peyote. Nulla basta. Vuole disperatamente lo yage, la cui quest è già narrata nell’altrettanto stupefacente Lettere dello yage (sempre Adelphi). Gli piace perché è una droga rara, stravagante, sessualmente fluida (a volte a prenderlo si sente una donna, a volte addirittura etero) ma soprattutto perché garantisce «la più grande perdita di rispettabilità possibile», evidente spauracchio borghese dovuto alle sue origini. Disprezza i conservatori, i liberal, i poliziotti, le donne, gli altri omosessuali. «Bisognerebbe uccidere tutte queste principessine dei frocetti perfetti, non perché tradiscano la causa della checcaggine, ma perché svendono la razza umana alle forze della negazione e della morte», ma subito dopo «Uccidiamo anche chi picchia le checche». Tutti quanti eccetto – bah – tipi giusti e simpatici tipo i gatti.
Si aggira inquieto per il mondo, dal Texas al Messico, dal Perù all’Ecuador, da Tangeri a Parigi. Ama l’esotico perché è convinto che gli Stati Uniti siano sull’orlo del comunismo (negli anni Cinquanta!) ma soprattutto perché altrove scopre un’adesione più naturale all’irrazionale, all’anarchia, «un sogno che si estende dal passato al futuro, una frontiera tra il sogno e la realtà». Anche se l’incantamento dura sempre poco e si stufa in un amen: l’autenticità gli pare subito un gioco da turisti. Non è quello. In fondo ciò di cui ha bisogno è solo un luogo altro: sociale, politico, sessuale, letterario. Apro la mia vecchia copia di Naked Lunch e trovo la sottolineatura: «Io non sono che uno strumento di registrazione». È la sostanza dei suoi libri: sottrarsi, disintegrarsi. Uscire dalla parola, uscire dal corpo. Ci provò in tutti i modi, come elenca Ottavio Fatica nella densissima postfazione: con gli sciamanetti “senza pretese” (come li chiama in una lettera spassosa), con i viaggi astrali di Aleister Crowley, con Hubbard e Scientology, con gli accumulatori orgonici di Wilhelm Reich, con la cristalloscopia, con gli esperimenti paranormali, con la psicoanalisi, con le cerimonie Lakota delle Capanne del Sudore. E perfino negli ultimi anni con i giretti in barca sul lago, nella speranza di venire rapito dagli Ufo. Le ultime parole, sull’ambulanza, furono: «Back in no time». Vado e torno. Prepariamoci.