Cultura | Design

Guardare il futuro della natura

Broken Nature, la XXII Esposizione Internazionale della Triennale, è un’indagine ambiziosa sui legami che uniscono l’uomo all’ambiente naturale in cui vive.

di Davide Coppo

SECMOL (Students' Educational and Cultural Movement of Ladakh), Ice Stupa, 2013-14 (foto di Lobzang Dadul, courtesy SECMOL)

Il giorno dell’inaugurazione della XXII Triennale di Milano, intitolata in modo significativo Broken Nature, il primo giorno di marzo, il termometro superava i 20 gradi e sui peschi e i ciliegi intorno al Palazzo dell’Arte spuntavano i primi fiori rosa, in anticipo di diverse settimane. Le frasi più sentite e pronunciate, in questa tarda primavera spostata indietro in pieno inverno a Milano, erano variazioni su un unico tema: è piacevole, certo, ma c’è qualcosa che non va. Appunto.

Broken Nature: Design Takes on Human Survival, curata da Paola Antonelli – già curatrice del MoMA – è un’indagine ambiziosissima sui legami che uniscono, in modo stretto o meno stretto, l’uomo all’ambiente naturale in cui vive. Non è una semplice mostra, o una normale esposizione: è come un’enciclopedia proiettata nel futuro, che parte dalla storia dei rapporti passati e cerca di immaginare nuove dinamiche future. Enciclopedica e programmatica, in un certo senso, parte manifesto e parte manuale di storia. Le due dimensioni fondamentali di Broken Nature sono queste: informare e immaginare.

Se negli ultimi decenni si è accesa una consapevolezza ecologica – e si è diffusa in tutto il mondo – è però vero che si tratta, spesso, di un ecologismo sbilenco, fondato sulla contrapposizione romantico-trascendentalista tra natura e cultura, sulla deificazione di un’inesistente natura vergine e sulla nostalgia per un’ipotetica età dell’oro mai esistita. Il merito di Broken Nature è eliminare alla base questo sentimento nostalgico, e recidere allo stesso tempo lo scetticismo nei confronti della tecnologia, del design, del progresso. Come scrive l’artista e designer Alexandra Daisy Ginsberg nel bel catalogo della mostra: «Ciò che è meglio per gli uomini è meglio anche per la natura».

Paola Antonelli, nella conferenza stampa di presentazione e nelle successive interviste, ha ribadito i tre obiettivi principali dell’Esposizione: dare ai cittadini un “senso di lungo termine”, che vada oltre le tre o quattro generazioni che solitamente immaginiamo; dare l’idea dell’estrema complessità dei sistemi in cui viviamo – irriducibili a semplificazioni; dare a tutti i visitatori un’idea di quello che si può fare come individui, nella vita di tutti i giorni. Ha citato spesso – in quella conferenza e in diverse altre interviste – anche Richard Buckminster Fuller e la sua metafora dell’individuo come piccolo ma potente timone capace di direzionare il futuro del pianeta, tratta dal libro Manuale operativo per Nave Spaziale Terra del 1968 (ripubblicato dal Saggiatore in Italia nel 2018).

A questo proposito, va sottolineato un altro grande merito di Broken Nature: l’equilibrio che riesce a mantenere tra responsabilità delle grandi corporation nel fenomeno del cambiamento climatico e la risposta che possiamo dare come singoli esseri umani. Spesso siamo portati a credere che le nostre azioni quotidiane – riciclare un sacchetto pieno di plastica ogni settimana, acquistare uno zainetto fatto con materiali di riuso, riempire i dispenser di detersivo “alla spina”, e via dicendo – possano influire sull’equilibrio ambientale della Terra, sopravvalutandoci, da un lato, e appesantendoci di una responsabilità eccessiva, dall’altro: l’attività e le coscienze individuali, per quanto volenterose, non potranno incidere più di un graffio superficiale se l’attività dei grandi gruppi industriali continuerà a svilupparsi come negli ultimi decenni. Per questo Broken Nature inizia con le fotografie satellitari di “Images of change”, grandi schermi che mostrano i cambiamenti di parti del mondo nell’arco di giorni o secoli, legati ai mutamenti climatici, alla deforestazione o all’urbanizzazione, e prosegue subito dopo con “The room of change”, curata da Accurat, una gigantesca infografica che illustra decine di cambiamenti disposti nel corso degli ultimi secoli e che ricopre i muri come carta da parati.

Esemplari essiccati di Hibiscadelphus wilderianus, raccolti da Gerrit P. Wilder sull’isola di Maui, Hawaii, 1914. Parte dell’opera Resurrecting the Sublime, 2019

Il design al centro di Broken Nature è ricostituente: è un design che cessa di essere antropocentrico e si fa altruistico, che abbandona parole d’ordine che non erano molto più che decorazioni – “green”, “sostenibile” – e non intende svilupparsi prestando attenzione all’ambiente: lo fa. Le decine di progetti esposti nel lungo percorso della mostra sono sia esempi che spunti, stimoli, trampolini. C’è il design ancestrale di “Think Evolution #1: Kiku-ichi (Ammonite), di Aki Inomata, un video che riprende le interazioni di un polpo con la ricostruzione di una conchiglia preistorica – l’ammonite – che un tempo costituiva il suo guscio naturale. C’è “Reliquaries”, di Paola Bay e Paolo Bruni, una collezione di reliquiari “naturali” – una farfalla, un’orata, un piccione, una manciata di terra, una goccia di acqua pulita – a futura memoria di un pianeta che rischia di scomparire. C’è “Resurrecting the Sublime”, di Christina Agapakis, Alexandra Daisy Ginsberg, Sissel Tolaas, l’ambizioso progetto di riportare in vita il profumo di un fiore delle Hawaii estinto. C’è “Plastiglomerate” di Kelly Jazvac con Patricia Corcoran e Charles Moore, composti di plastica, reti da pesca, accendini e vari altri frammenti di rifiuti depositati ogni anno a Lamilo Beach nelle Hawaii e presentati come objets trouvés, testimonianze semi-minerali dell’antropocene. C’è “Mars”, di Alex Goad, che sta per Modular Artificial Reef Structure, una specie di struttura base per la formazione di future barriere coralline, fatta in stampi di ceramica flessibili. E così via, con decine e decine di altri progetti.

Nel suo complesso – un complesso che dura quasi un’intera giornata di visita, tra la mostra e le 22 partecipazioni internazionali, e si snoda sui due piani della Triennale – Broken Nature dimostra in modo organico ed efficace quanto le barriere tra l’esperienza umana e la natura sia labile o inesistente, come quelle tra natura e design. Come la natura è ovunque – nei nostri laptop, nei capi che indossiamo e negli edifici che abitiamo – così lo è il design, nei più antichi manufatti artificiali e nelle più complesse creazioni della natura.

È anche, questa XXII Esposizione Internazionale della Triennale, incompleta per forza di cose, ma la sua potenza sta anche qui: nel non essere esaustiva essendo però consapevole di non esserlo, nel non poter delineare un perimetro chiuso nelle possibilità delle interazioni tra design e natura, nell’essere un inizio e non una fine. Un dialogo che si è appena aperto, a cui sono invitati tutti.