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Il primo vero tour di Brian Eno

In cinquant’anni di carriera non ha mai suonato da solista: inizia adesso, a 75 anni, con la doppia data veneziana dello spettacolo che porterà anche a Berlino, Parigi, Utrecht e Londra.

di Federico Sardo

Alla fine del suo live serale al Teatro La Fenice di Venezia, Brian Eno ringrazia la direttrice della Biennale Musica Lucia Ronchetti, perché assegnandogli il Leone d’oro alla carriera lo ha costretto a preparare uno spettacolo: «Un concerto con orchestra era molto distante dai miei pensieri all’epoca dell’annuncio, poi ho incontrato loro». Loro sono la Baltic Sea Philarmonic Orchestra, un ensemble di trentanove elementi diretto da Kristjan Järvi, che ha accompagnato il musicista inglese in quello che si può definire il suo primo tour da solista in cinquant’anni di carriera – dopo la doppia data veneziana infatti lo spettacolo verrà portato a Berlino, Parigi, Utrecht e Londra. Primo tour perché, certo, Eno ha suonato con i Roxy Music al tempo che fu, a Londra nel ’74 in una celebre data con John Cale, Kevin Ayers e Nico, ha fatto dei live con Robert Fripp nel ’75; e poi qualche altra sporadica apparizione, un concerto all’acropoli di Atene con suo fratello nell’estate del 2021, ma niente altro. Non ha mai fatto un tour vero e proprio a suo nome. Tante celebratissime installazioni (musica, forme, luci e colori in dialogo con gli spazi espositivi) in giro per il mondo, dagli Archi di Lapa di Rio de Janeiro alla Sydney Opera House di Jørn Utzon e Peter Brian Hal, fino al Trentino dello scorso anno, ma vederlo dal vivo restava una sorta di chimera, un privilegio riservato a pochi eletti, anche tra i molti adepti del suo culto.

E invece la Biennale fa il colpaccio, e a giugno esce la notizia che Brian Peter George St. John le Baptiste de la Salle Eno, settantacinquenne più in forma di me che potrei essere suo nipote, avrebbe fatto debuttare nello storico teatro dietro a Piazza San Marco uno spettacolo intitolato Ships, versione per orchestra del suo disco del 2016 The Ship, ambient-opera ampiamente manipolata elettronicamente (anche nelle voci), ispirata al naufragio del Titanic, e di conseguenza al dominio della natura sulla tecnologia. «L’hybris tecnologica incontra l’epilogo ecologico», recita il comunicato stampa.

Sapevamo che l’opera sarebbe stata quella, che ci sarebbe stata la voce di Eno, presente sul palco, che l’orchestra sarebbe stata accompagnata dalla voce dell’attore Peter Serafinowicz e da quella di Melanie Pappenheim, dalle chitarre di Leo Abrahams e dalle tastiere di Peter Chilvers – entrambi collaboratori di lunga data del Maestro inglese – ma non sapevamo nient’altro. È quindi con una buona dose di curiosità che, nel contesto di uno dei teatri più belli d’Europa, con la sua storia, i suoi palchi e i suoi ori, ci siamo accomodati sul velluto, pronti a godere di quella che, da qualunque punto di vista la si volesse vedere, sarebbe stata un’occasione più unica che rara.

All’inizio sul palco c’è solo l’orchestra, senza spartito per tutta l’esibizione, e in continuo movimento. Il direttore si rivela da subito anche una sorta di performer, tra movenze, balletti e utilizzo di percussioni. Il primo segmento dell’opera, avvolto nel fumo, introduce all’atmosfera generale della storia, all’inizio di una navigazione. Eno compare sul palco dopo qualche minuto, dapprima con voce effettata, a confondersi con i suoni, per poi cantare con voce naturale nel primo movimento di “Fickle Sun”. L’orchestra continua a muoversi, a sedersi e ad alzarsi, mentre  giochi di luce la mostrano e poi la nascondono, evidenziando alcuni solisti e immergendone altri nel buio. Tutti i presenti sul palco indossano pantaloni neri e una maglietta nera con un grosso punto colorato – molti colori diversi, anch’essi mostrati o nascosti a seconda del momento.

Nel terzo movimento, dopo una mezz’ora di spettacolo, arriva il momento di massima epicità: vere e proprie esplosioni di suono, sincronizzate con lampi di luce bianca che accendendosi in mezzo al fumo vanno a illuminare il teatro – e quello che vedi è tutto quell’oro che lo colora, e capisci che non te lo dimenticherai facilmente. Gli orchestrali si muovono, vanno e vengono dal palco (Eno dirà che li ha scelti perché più che un’orchestra sono una band, una versione guerrilla di un’orchestra), e dopo circa 45 minuti si arriva a un bellissimo momento di chitarra. È il finale di Ships, che come nel disco è costituito da una cover di “I’m set free” dei Velvet Underground, splendidamente cantata da Eno. La chitarra è predominante, dopo tanto alternarsi di atmosfere ed esplosioni il mood è pacificato, e va a trasmettere un senso di pura beatitudine, anche a chi come me è in hangover, sudato e a stomaco vuoto.

La versione orchestrale di The Ship finisce, tra applausi scroscianti («Ok, that’s enough. If you keep applauding this much we will never get the concert finished»), e il sottoscritto sarebbe già ampiamente soddisfatto, né sinceramente si aspettava di più. E invece, dopo un divertito «I know many of you expected some nice ambient music and not so much explosions», Eno dice «This is a song I wrote a long time ago», e partono le inconfondibili note di “By This River” in una commovente versione orchestrale. Segue “Who Gives a Thought” dall’ultimo ForeverAndEverNoMore, e una “And Then So Clear” da Another Day On Earth (2005) in cui la voce di Eno è pesantemente modificata dall’uso del vocoder. Il direttore d’orchestra balla, il pubblico applaude, Eno esce ma dopo poco, acclamato a furor di popolo, ritorna sul palco («I wish I had a voice as loud as yours») e insieme alle due voci che non sono la sua propone uno dei momenti più propriamente ambient della serata: “Making Gardens Out of Silence in the Uncanny Valley” tra silenzi, sgocciolii e archi presenta il recitato di Serafinowicz e il canto pesantemente effettato di Pappenheim, con Eno a manovrare in diretta il vocoder. E infine, a concludere dopo un’ora e mezza precisa, “There Were Bells” in un crescendo epico, con nuove luci ad accendersi, mai viste fino a quel momento: difficile dopo questa esperienza non reimmergersi nell’umidità veneziana soddisfatti ed estasiati.

Ma, se il concerto non fosse bastato a consolidare l’amore per una delle menti più geniali della nostra epoca, è il giorno successivo, durante la cerimonia di consegna del Leone d’oro, che la sua lucidità e la sua saggezza si rivelano ancora una volta un patrimonio da salvaguardare. «Non sono un genio. Penso di essere stato fortunato a essere nato in un’epoca senza guerre, in quelli che dalla distanza possiamo considerare come pochi fortunati anni in cui c’erano società che promuovevano la cultura e la mobilità sociale, permettendo a uno come me di studiare in una scuola pubblica d’arte, un tipo d’istituzione che oggi non esiste più, perché ormai tutto si deve pagare a caro prezzo».

Nel suo discorso aggiunge che nessuno realizza chissà che cosa da solo: anche le più grandi opere artistiche sono il frutto di un ambiente, di contesti fatti di curatori, critici, altri artisti con cui dialogare, feste, locali dove incontrarsi. Senza questo non esisterebbe quasi nulla. Eno non crede all’epica del self-made man, dice citando esplicitamente Elon Musk, e ai personaggi figli di un’epoca dominata dai social network, concepiti – riflette – non per mettere in contatto le persone ma per fare soldi, favorendo lo scontro e le divisioni, perché nulla crea più coinvolgimento della polemica. Aggiunge: «Io sono un socialista e rimpiango uno spirito del tempo, che forse non tornerà mai più visto come sembriamo destinati a distruggere il nostro stesso mondo, in cui il sistema scolastico, il sistema dei trasporti, tutto quello che le istituzioni potevano fornire era almeno idealmente orientato al bene comune. Un’epoca in cui le idee potevano circolare a tutti i livelli, un’epoca di possibilità, in cui l’arte e una positiva evoluzione del mondo potevano andare di pari passo».

Ma la chiusura non è solo nera. Eno conclude il suo discorso infatti dicendo che in fondo la verità è che, essendo cresciuto in quegli anni, nonostante razionalmente sappia che la situazione contemporanea è ancora più tragica di quanto riusciamo a renderci conto, è come se non ci riuscisse a credere proprio del tutto. Perché negli anfratti più profondi della sua coscienza è ancora convinto che, tutto sommato, ce la caveremo.