Comprare il biglietto per un concerto è diventato più difficile che sopravvivere allo Squid Game

Non è più un semplice gesto culturale: il recente caso Radiohead mostra come il live sia diventato oggetto di culto, tra mercificazione dell’accesso, partecipazione trasformata in status, crisi di panico e di pianto.

25 Settembre 2025

Venerdì mattina, ore 9. Sei sveglio, teso, sudato. Lo Squid Game del ticketing inizia tra un’ora. Nell’attesa apri X, scrolli TikTok, Threads, pure Substack. Tutti parlano di quel codice. Qualcuno lo mostra come una reliquia, altri ironizzano sulla sconfitta. Tu hai ricevuto quell’SMS. Sei tra gli eletti. Una stringa numerica è il tuo lasciapassare. Ma non per il concerto. Solo per entrare nella coda virtuale, per tentare di comprare il biglietto. Se il dio-algoritmo vuole. È la nuova bolla papale: un messaggio, freddo e impersonale, un copia e incolla preimpostato che separa chi entra nel tempio da chi resta fuori. Solo che il tempio è l’Unipol Arena di Bologna.

Benvenuti nell’era in cui partecipare a un concerto è diventato un’esperienza da reality distopico: sei dentro o sei fuori, sei scelto o respinto. E se sei respinto, almeno puoi raccontarlo. Magari con una GIF di Thom Yorke che canta: You do it to yourself, you doand thats what really hurts. Un tempo bastava avere voglia e una quarantina d’euro. Oggi servono tempo, fortuna, sangue freddo, connessione stabile, conoscenza della piattaforma e un conto in banca flessibile. Il caso Radiohead, o meglio, la battaglia per i biglietti del loro nuovo tour, è solo l’ultimo episodio di una saga sempre più esasperante e surreale.

L’assurdità ipercontemporanea è che serva uno “sforzo” per ottenere il diritto di acquistare. Per accedere alla prevendita i fan dovevano registrarsi su una piattaforma, sperare nell’arrivo di un sms con un codice unico e, il giorno della vendita, affrontare una coda virtuale che sembrava uscita dalla mente di Charlie Brooker. Anche con il codice in mano, nulla era garantito: 20 mila persone davanti, crash del sito, prezzi in ascesa minuto dopo minuto.

Quello che una volta era un semplice gesto culturale oggi è diventato un rituale competitivo. Il biglietto non è solo un mezzo d’accesso ma un segno identitario, una prova di appartenenza. È, in sostanza, la merce. C’un momento preciso in cui il desiderio cambia forma. Non è quando vediamo qualcosa che vogliamo. È quando ci viene detto che non possiamo averlo. O meglio: che possiamo, ma solo se siamo scelti. È in questo spazio di selezione, né totalmente casuale né totalmente meritocratica, che oggi si muove una parte sempre più rilevante della cultura popolare.

Il culto dell’accesso

Oggi la collettività si costruisce sull’esclusione. In questo senso, il biglietto ha smesso di valere per ciò che permette e ha iniziato a valere per ciò che significa. Baudrillard lo avrebbe chiamato simulacro. David Graeber falsa scarsità: qualcosa che appare raro solo perché reso intenzionalmente inaccessibile. La trasformazione dell’evento pop in rito esclusivo passa anche da qui: dalla creazione di una soglia che non ha nulla a che vedere con il talento, la fedeltà all’artista, il gusto musicale o la diagnosi depressiva. («my sertraline prescription should be enough», suggerisce scherzando un fan su Tik Tok).

Prima la registrazione, poi la prevendita, poi la prevendita della prevendita (magari riservata a chi possiede una certa carta di credito). The Weeknd ha gestito le sue vendite con livelli degni di una lotteria aziendale: Mastercard, Live Nation, persino i clienti Nespresso avevano una coda dedicata. Taylor Swift ha costruito una piramide perfetta: i verified fan, un sistema di selezione travestito da tutela. Ed Sheeran ha provato a ribellarsi, ma il meccanismo lo ha inghiottito.

Fred Again, profeta Millennial, ha annunciato con pochissimo preavviso cinque date in Italia. I suoi live diventano subito dei “place to be”. Biglietti volatilizzati in minuti. Su piattaforme secondarie, sono subito ricomparsi a sei volte il prezzo. Quelli dei Radiohead? Già avvistati oltre i 2 mila euro.

Il bagarinaggio che non si chiama più così

La scusa ufficiale di queste pratiche è “combattere il bagarinaggio”. Ma il paradosso è evidente: il tentativo di limitarlo ha generato un sistema che produce artificialmente scarsità, crea un senso di comunione selettiva, genera ansia da prestazione e alimenta un mercato parallelo perfettamente tollerato, anzi, integrato. I biglietti “veri” finiscono in mani che li rimettono subito in vendita su piattaforme partner. La differenza con il bagarinaggio tradizionale? Il linguaggio. Non si chiama più truffa ma second hand market, un’interfaccia pulita con commissioni integrate e partnership ufficiali.

Intanto, le esperienze del pubblico diventano meme. Qualcuno reclama a gran voce il sogno ormai svanito delle code alle casse delle biglietterie fisiche che furono, come antidoto a ciò che sta ammazzando definitivamente il mondo dei live. Su TikTok si ride (o si piange) del dynamic pricing, che ti alza il costo mentre stai inserendo la carta di credito. Un biglietto che venti minuti fa costava 90 euro ora è salito a 320. E forse, alla fine, non ce la fai comunque. Ma oltre che meme, la presenza del pubblico è diventata essa stessa una merce preziosa nel mercato dell’attenzione: le code, le attese, gli intoppi, gli imprevisti, la delusione degli esclusi sono strumenti preziosissimi nella costruzione della rilevanza, reale o percepita, di un artista. E in fondo è anche per questo che i sold out se non ci sono allora si inventano.

È ancora musica?

Emblematico il caso della tanto attesa reunion degli Oasis, la cui polemica sui prezzi dei biglietti, che molti consumatori hanno visto quadruplicare su Ticketmaster nell’arco di pochi minuti, è arrivata addirittura davanti alla Commissione europea. È il ritorno del sacro, non in senso religioso ma simbolico. È il capitalismo che diventa liturgico: il palco è l’altare, l’artista è l’officiante. Il biglietto è la reliquia. Tutto ruota attorno a un sistema di accesso differenziale. I fan non sono più (solo) ascoltatori: sono fedeli, disposti a competere, a sperare, a subire delusioni, pur di prendere parte al rito. La fede nel valore dell’esperienza alimenta la monetizzazione dell’attesa stessa. Il codice non è solo un mezzo per entrare ma è già parte del prodotto.

C’è qualcosa di tenero e disperato in tutto questo. In questo sforzo collettivo per sentirsi parte di qualcosa che dovrebbe essere gratuito, nel senso etimologico del termine: non “senza prezzo”, ma “basato sul dono”. Eppure, mentre aspettiamo quel codice, qualcosa di vero ancora resiste. Quella piccola speranza che, dopo tutta l’ansia e la fatica, quella sera, in quel posto, succederà qualcosa che valga la pena vivere. Anche se l’abbiamo saputo solo stamattina.

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