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Benvenuti in galera, la storia del ristorante del carcere di Bollate

Il documentario scritto e diretto da Michele Rho racconta il primo ristorante al mondo gestito dai detenuti di un carcere. E dimostra che un altro modo di fare il carcere esiste.

di Francesco Gerardi

Nel marzo del 2016 il New York Times pubblicava un pezzo di Jim Yardley intitolato “Italian Cuisine Worth Going to Prison For”. Yardley raccontava la sua cena a InGalera e riassumeva così la storia del ristorante: «È difficile immaginare un successo più improbabile di quello riscosso da questo locale, ed è altrettanto difficile immaginare un più affascinante esperimento di riabilitazione dei detenuti». Silvia Polleri, ristoratrice che ha fondato e che gestisce InGalera, ha raccontato che fu leggendo quel pezzo sul New York Times che scoprì che il suo ristorante era unico al mondo: «Sapevo che eravamo gli unici in Italia. Non sapevo fossimo anche gli unici al mondo». Il nome InGalera è un’idea di Polleri, e anche il “sottotitolo” se lo è fatto venire in mente lei: “Il ristorante del carcere più stellato d’Italia”. InGalera è il suo ristorante, ma lei non lo descrive mai così. È il ristorante del carcere Bollate di Milano e, soprattutto, è il ristorante dei detenuti del carcere Bollate di Milano. In cucina ci lavorano loro, ai tavoli servono loro. Polleri tiene assieme tutto: si assicura che la spesa quotidiana non vada oltre le possibilità, si accerta che le prenotazioni siano in ordine, tiene i rapporti con l’interno, con il carcere, e con l’esterno, il mondo. Le interessa soprattutto una cosa: che InGalera non venga mai e da nessuno considerato il «ristorante della misericordia».

Polleri è una metà dell’anima del ristorante e una delle due voci narranti di Benvenuti in galera, il documentario scritto e diretto da Michele Rho (qui la programmazione) che racconta la storia di uno dei «più affascinanti esperimenti di riabilitazione dei detenuti» tentati e riusciti in Italia, appunto. Polleri è una donna minuta, emana una vitalità che si vede nelle forme della sua gestualità e nell’inflessione delle sue parole: quando parla di sé sottolinea sempre che lei prima di InGalera faceva «kettering», indurendo la c e raddoppiando la t di catering. Nei colloqui di lavoro con i detenuti che vorrebbero lavorare a InGalera premette sempre che a lei non interessano i trascorsi penali ma solo quelli lavorativi. La discussione però piega sempre e inevitabilmente sui primi, e lei sempre con lo stesso piglio da maestra prova a riportarla al punto. Cosa vorrebbe fare da qui alla fine della pena, chiede spesso nel mezzo del colloquio. «Eh, cosa vorrei fare… lavorare», le risponde un uomo entrato per la prima volta a 18 anni, negli anni Ottanta, e che uscirà, forse, nel 2029.

Durante i servizi Polleri gira per i tavoli a dire davanti ai clienti le stesse identiche cose che dice davanti alla cinepresa di Rho: il ristorante esiste perché in Italia la media di recidiva dei detenuti è del 70 per cento, ed è «una vergogna per la società intera». Ma a Bollate, tra il purtroppo ridottissimo campione dei detenuti che lavorano a InGalera, quella percentuale scende al 17 per cento. Sono le cifre che spiegano una preoccupazione con la quale Polleri convive e che prova – talvolta con successo, talvolta no – a spiegare implicitamente ai clienti del ristorante: non venite qui a vedere «le scimmiette ammaestrate». Va bene venire per moda – «Pagano!», risponde piccata Polleri al suo chef, in un momento del documentario in cui lui è preoccupato da tavoli prenotati addirittura per 35 persone – ma è inaccettabile mostrarsi morbosi: chiedere quanti anni restano da scontare a uno, cosa ha fatto un altro. A InGalera lavorano persone assunte con regolare contratto, spiega Polleri: è questa la ragione per la quale la loro percentuale di recidiva è così bassa, perché quello che loro fanno lì dentro vale quanto quello che fanno gli altri là fuori. E quindi le pretese devono essere le stesse, i limiti pure: un cliente può lamentarsi del cibo e del servizio, o complimentarsi per l’uno e per l’altro. E niente altro.

Benvenuti in galera è tanto un documentario sul carcere – sull’altro modo di fare il carcere, precisano tutti gli intervistati – quanto sul lavoro, sul significato diverso che questa parola assume in contesti diversi. Nel mondo fuori sono anni che discutiamo di libertà come affrancamento dal lavoro: meno ore, meno giorni, meno presenza. Dentro la discussione è uguale e contraria: si parla sempre di lavoro e di libertà. Un cameriere di InGalera spiega che lavorare al ristorante ha fermato l’atrofizzazione che il carcere stava infliggendo al suo cervello: «Ho ricominciato ad avere idee». È straniante vedere come in carcere l’alienazione venga dall’assenza delle cose delle quali nel mondo fuori cerchiamo di liberarci: piccoli obblighi, routine quotidiane. Nell’obbligo di indossare una divisa ogni giorno – pantalone elegante, camicia bianca, gilet e cravattino nero, oppure una stupenda giacca da chef punteggiata di teschi – nella routine di un capo che ogni giorno ti accoglie ricordandoti di «non fare cagate di prima mattina, grazie», queste persone ritrovano (talvolta trovano: tra loro c’è chi «non ha mai davvero lavorato in vita sua», semplicemente perché la possibilità non è mai esistita davvero) una via di fuga dall’infinito giro in tondo che è la vita in carcere. Negli andirivieni tra sala e cucina di un ristorante c’è un senso che manca negli avanti e indietro in cortile nell’ora d’aria.

Se Polleri è metà dell’anima di InGalera, l’altra metà è lo chef Davide. Formazione alla scuola di Gualtiero Marchesi, non gli piace la compagnia ed è per questo che ha una così elaborata definizione di convivialità: per spiegare la differenza, quindi la sua decisione di fare il cuoco. Allo chef Davide il compito (ingrato davvero) di smentire i luoghi comuni sul lavoro che nobilita l’uomo e sul reinserimento come fine della pena detentiva. Lui ha avuto diritto a pene alternative che gli hanno permesso prima di uscire e rientrare dal carcere, poi di passare metà dell’anno in casa sua. Racconta, Davide, di quanto sia stato difficile trovare un appartamento in affitto: «I miei soldi non valgono», spiega, «perché sono un detenuto». E le labbra gli si fanno sottili sottili quando racconta l’umiliazione di scoprire che a lui è impedito pure di parlare la lingua franca con la quale tutti gli esseri umani si capiscono: quella dei soldi, appunto. Eppure «uno dovrebbe capire che un carcerato ti pagherà tutto, sempre, puntuale. Perché, se sgarro, io perdo la misura alternativa».

E a che serve allora il carcere, dice a un certo punto Davide, se non «a peggiorare i difetti che già avevo». E a cosa servono allora progetti come InGalera, se uno carcerato è e carcerato rimane, che lo voglia o no, per decisione altrui e non sua. Servono, fa capire Davide, a restituire a persone come lui la libertà fondamentale: quella di scegliersi le definizioni preferite per descrivere il mondo. Dopo anni passati nella cucina di InGalera, Davide si lamenta delle cose di cui si lamentano tutti quando parlano di lavoro: dei colleghi che vanno e che vengono («Te lo ricordi Domingo? Adesso lavora in una pasticceria in Spagna»), dei momenti migliori che sono sempre alle spalle, degli stimoli che inevitabilmente si fanno fievoli («D’altronde questo è un lavoro creativo: dopo cinque anni nello stesso posto non ne puoi più»). La libertà di non dover considerare il lavoro libertà né di dover ringraziare per l’occasione. La libertà di rompersi i coglioni come tutti, come sempre. E nonostante questo e non si sa davvero perché, come tutti e come sempre restare: la prima volta che nel documentario incontriamo Davide è lì, appollaiato in cima alla scalinata che porta alla sua cucina, sigaretta in bocca, che sbraccia esasperato perché il furgoncino con la frutta e la verdura ha parcheggiato troppo lontano e ora tocca fare avanti e indietro portandosi appresso cassette pesanti. L’ultima volta che lo vediamo sono passati sette anni dalla prima: Davide è lì, appollaiato in cima alla scalinata che porta alla sua cucina, sigaretta in bocca, che sbraccia esasperato perché il furgoncino con la frutta e la verdura ha parcheggiato troppo lontano e ora tocca fare avanti e indietro portandosi appresso cassette pesanti. «Nessuno lo aiuti a scaricare», intima ai suoi, riferendosi al corriere, prima di entrare in cucina e mettersi al lavoro.

Per chi è a Milano, Benvenuti in galera si può vedere da oggi al cinema Arlecchino.