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È giusto parlare di baby gang?

La violenza giovanile non è un fatto nuovo, ma c'è chi vede nella pandemia una spinta che ha fatto aumentare il fenomeno nelle città italiane. Sta succedendo davvero o è solo un problema di percezione?

di Emanuela Colaci e Giacomo Cadeddu

Una rissa notturna a Milano ripresa da un telefono

L’appuntamento corre veloce nelle chat, salta di gruppo in gruppo su Whatsapp, si diffonde sui social. Può essere un regolamento di conti per un commento sbagliato a una ragazza, altre volte un pretesto per fare un po’ di casino e sfogare la rabbia tra gruppi rivali. Come è successo a Nichelino, in provincia di Torino, nel gennaio di quest’anno, dove circa 200 adolescenti si sono ritrovati per un regolamento di conti. Alla ricerca “baby gang” su Google News corrispondono quasi 12 milioni di risultati. Testate nazionali e locali parlano di «Terrore baby gang», «Incubo baby gang», «Onda baby gang». Milano, Torino, Napoli, Ancona, Padova, Palermo, Roma. In città e in provincia, nessun luogo sembra al sicuro dal moltiplicarsi di violenze fisiche e verbali commesse da ragazzini. Ma è davvero così?

Per definire i contorni di questa rabbia magmatica, Marco Calì – capo della Squadra mobile di Milano – parte da una precisazione: «Non parlerei di baby gang, è una definizione impropria e fuorviante. Se parlassimo di gang o baby gang, al netto della colorazione giornalistica, sarebbe paradossalmente più semplice affrontarle». In assenza di una specifica definizione, la polizia preferisce parlare di «devianze giovanili», e di «fenomeno generazionale», perché il reato – il furto, le lesioni, l’aggressione – è solo la punta dell’iceberg di qualcosa di inafferrabile, che si è intensificato con la pandemia e la compressione delle prospettive degli adolescenti. Calì fa spesso riferimento alla «mala movida» per marcare le occasioni più comuni di aggregazioni e sfogo di rabbia e violenza dei più giovani: «Siamo di fronte a ragazzi che si trovano, si riuniscono, poi si perdono e si ritrovano ancora a una velocità e con numeri impensabili in base ai vecchi schemi comportamentali e di socialità e ritrovo».

«Ciao, volevo segnalare una violenza subita venerdì notte tra via Meda e Cermenate. Mi avviavo verso casa con due amici e mi ritrovo davanti 3 ragazzi sulla ventina d’anni. Uno di loro mi ha messo le mani sotto la gonna». Questa non è una denuncia alla polizia ma un messaggio apparso sul profilo Instagram milanobelladadio – quasi 84 mila follower – che sbuca tra i post sui festeggiamenti per lo scudetto del Milan. Attiva dal 2019, la pagina che racconta «il bello e il brutto di Milano» è la stessa che ha pubblicato per prima i video degli “stupri di Capodanno”. Quella notte, tra il 31 dicembre 2021 e l’1 gennaio 2022, in piazza Duomo, alcune ragazze hanno denunciato violenze sessuali di gruppo commesse da vari ragazzi, tra i 16 e i 21 anni. Sul feed di milanobelladadio le denunce di violenze legate alla criminalità giovanile si alternano ad appelli contro le borseggiatrici in metropolitana, video di incidenti stradali e di risse tra giovani ubriachi per strada. Nel racconto del degrado e della spettacolarizzazione della criminalità – dove compare anche il quartiere Quarto Oggiaro, con la sua stazione, sotto l’hashtag #quartieremalfamato – le “baby gang” sono raccontate come parte di un degrado dilagante in città. Il racconto confuso tra giustizialismo e denuncia sociale, il mélange tra la Milano da bere e la Milano violenta alimenta la rappresentazione di una città far west, che non corrisponde alla realtà. L’atto violento diventa simbolo, iconografia confezionata e alimentata anche da chi ha come obiettivo la denuncia sociale del “problema criminalità”. Precedenti social in tal senso non mancano. Welcome to Favelas ne è l’esempio assoluto. Video di strade crollate e palazzi incendiati si alternano a episodi sparsi di criminalità più o meno grande nelle città italiane. Un po’ denuncia, un po’ voyeur, funziona: sono 626 mila i follower incuriositi da rabbia, degrado e incuria.

Altri profili social si muovono in direzioni diverse. Un gruppo di adolescenti di Reggio Emilia documentava su TikTok le aggressioni agli abitanti del loro quartiere (la Polizia li ha poi trovati partendo proprio da quei video). Da un lato, le sentinelle. Dall’altro quelle che chiamiamo baby gang, alla ricerca di stima e approvazione. Non con una foto, non con un balletto virale, come la maggioranza dei loro coetanei. Attraverso la violenza. La “baby gang rosa” di Siena – 10 ragazze tra i 14 e i 15 anni – picchiava e insultava le vittime riprendendo tutto con i cellulari. I filmati finivano in una chat su Whatsapp e sui social. Viene da chiedersi a cosa somiglino le vite di queste ragazze, cosa pensano, perché sono attratte dalla violenza. Si divertono anche loro, come Marieme e le sue amiche nel film Diamante nero diretto da Céline Sciamma, a ballare “Diamonds” di Rihanna in una festa improvvisata in una camera di albergo, vestite con abiti ricettati? Crederanno che il gruppo è la famiglia d’elezione, che le salverà dall’oppressione di un fratello violento? O da una vita svantaggiata, costretta a replicare i sacrifici della madre single? Alcuni ragazzini guardano i filmati delle baby gang spaventati e preoccupati. I gruppi violenti aggrediscono soprattutto i coetanei: 1 adolescente su 3 teme di esserne vittima, come riporta l’ultima pubblicazione dell’Osservatorio Generazione Proteo sui giovani italiani. Per altri, invece, l’attrazione per la rappresentazione social delle aggressioni porta all’emulazione. Tra le ragioni che rendono attraente il gruppo violento ci sono l’appartenenza al branco, il fascino esercitato dal cattivo, lo sfogo della rabbia repressa, l’auto-affermazione e, ultima, la ricerca di un guadagno economico.

Nicola Ferrigni, sociologo e direttore dell’Osservatorio, racconta il caso della baby gang romana ribattezzata dai media “Trio che spacca”. Tutto è nato su Whatsapp. Un gruppo di ragazzi dei Parioli raccontava in chat le rapine che faceva in zona Termini e Conca d’Oro. Il bottino: scarpe, abiti firmati, cellulari. Anche i sociologi stanno cercando nuovi modi per parlare di questa rabbia fluida. Il termine “baby gang” non è adatto a raccontare tutto: «Il gruppo aveva una sorta di ritualità, piccole bande organizzate che avevano un loro rito e un codice. Oggi non abbiamo dati empirici strutturati per definire questo fenomeno di violenza e nichilismo. Arriveremo a un nuovo termine», confida Ferrigni.

Il racconto confuso tra giustizialismo e denuncia sociale, il mélange tra la Milano da bere e la Milano violenta alimenta la rappresentazione di una città far west, che non corrisponde alla realtà

In metro, sul tram, su strade desolate di notte o in pieno giorno, capita di incontrare adolescenti – ragazzi o ragazze rumorosi e in apparenza aggressivi – e di guardarli con diffidenza. Perché di fronte a un gruppo di giovani succede di sentirsi istintivamente minacciati? Il linguaggio mediatico attira l’attenzione su «città assediate» da «branchi di giovani rapinatori». Il fenomeno viene presentato «in aumento». Così, l’esperienza sociale diventa paura collettiva. Per poi insinuarsi nella percezione che ognuno ha della sicurezza della città.

I racconti dei teddy boys e dei ragazzi di vita pasoliniani parlavano delle scorribande a bordo di auto rubate a caccia dei gioielli di Madonne con sfondo la città, nebbiosa e borghese. Quella gioventù di «delinquenti romantici» sembra aver lasciato il passo a una criminalità di quartiere violenta, più gratuita e più giovane. L’esplosione della rabbia repressa oggi sembra coincidere con un’età precoce e la fine dell’infanzia. Con la voglia di rivalsa arriva anche la necessità di mostrare la propria muscolatura sui social. Nelle cronache il racconto di rapine e atti vandalici si intreccia con le vite dei rapper di quartiere. Tra loro El Kobtan, da via Padova. Nel video del suo brano “Nemici” – più di 8 mila visualizzazioni su YouTube, poche per un artista mainstream – è circondato dalla sua gang. Si chiama K.O. Gang, come si legge sulle loro tute adidas rosse e bianche. Pistole, coltelli, sciabole, una bandiera egiziana, braccia incrociate in alto per mimare il carcere: i simboli e il richiamo alla vita da gang sono chiari. Non è altrettanto chiaro quanto il video somigli alla realtà delle vite dei figuranti.

Alcune testate italiane negli scorsi mesi avevano parlato di una «geografia delle gang di Milano». Una a San Siro, una in via Padova, e così via. Secondo Calì non esiste nulla di simile: «Sono semplificazioni giornalistiche, una banda controlla un territorio e non credo che sia il caso di Milano». Di vero c’è che un gruppo di adolescenti che agiva nel nord della città, tra il quartiere Adriano e via Palmanova, nelle cronache è stata presentata come parte della K.O. Gang, che «ascolta la musica di El Kobtan». Oltre alle rapine, sono le reazioni violente a identificare l’azione della banda: pestaggi ai danni di vigilanti, autisti di bus, passeggeri dei mezzi perché avevano osato chiedere al gruppo di utilizzare la mascherina.

L’esplosione della rabbia repressa oggi sembra coincidere con un’età precoce e la fine dell’infanzia. Con la voglia di rivalsa arriva anche la necessità di mostrare la propria muscolatura sui social

La violenza giovanile non è un fatto nuovo. C’è chi vede nella pandemia da coronavirus la spinta che ha fatto aumentare il fenomeno: «C’erano già problemi di mala movida in tutta Italia prima del Covid», spiega Calì, «però stiamo registrando i dati per capire se è la classica molla che è stata rilasciata dopo una situazione di compressione oppure se è un vero fenomeno sociale». La viralità e la rapidità con cui le immagini di violenza si diffondono sui social e sui media non bastano a spiegare le radici di un fenomeno più complesso: ci si ritrovava al “solito posto” prima dei social, nel 2008 con i 100 sms gratis delle promozioni estive. Né la voglia di possedere abiti e scarpe firmati per distinguersi può collegarsi all’esplosione della rabbia incontrollata che porta a risse, stupri pubblici e pestaggi immotivati. Il fenomeno mai sanato del bullismo ha trovato il legante di una nuova e sconosciuta rabbia, energia compressa che percorre un’intera generazione: «Se il problema è di tipo generazionale, come sembrano raccontare i fatti, non è solo una questione di polizia ma bisogna intercettare questi ragazzi con dialogo e pratiche sociali adeguate. Munirli di prospettive».