Ad Arles qualcosa è andato storto

Negli ultimi quindici anni, la città-laboratorio, sede del prestigioso festival di fotografia, è diventata il luogo dove la cultura mangia altra cultura, tra rincorsa del lusso e proteste degli abitanti.

12 Agosto 2025

Questo è il quarto articolo della nostra serie estiva “Gran Turismo” , in cui le autrici e gli autori di Rivista Studio raccontano luoghi e città dal punto di vista del turista o di chi i turisti li subisce. È un modo, un po’ più leggero, per continuare a far vivere il nostro numero estivo, tutto dedicato al turismo: da come, negli ultimi anni, sia diventato un problema politico (overtourism), a come nonostante tutto, il viaggio continui a conservare una sua dimensione romantica. Lo trovate in edicola e sul nostro store online.

Qualcosa dev’essere andato storto se nel cortile dell’Hotel Arlatan di Arles, dove prima c’era una vasca di pesci rossi intorno alla quale si riunivano Lucien Clergue, Sebastião Salgado, Gabriele Basilico, Josef Koudelka per discutere di un mondo da fotografare in bianco e nero, ora si fanno vedere solo alti dirigenti in vacanza in pantaloncini chino  e sgargianti camicie Vilebrequin. È arrivato il colore e hanno pure demolito la vasca con i pesci, e la fine della vasca proprio non è andata giù a chi, ogni anno, partecipa ai Rencontres de la Photo di questa nuova Arles. Ma non è tutto: ad Arles sono arrivate pure le fondazioni, le case farmaceutiche, l’arte contemporanea, l’arte di vivere, la cultura ricca, anzi di più. Roba da rimpiangere la decadenza dell’overtourism.

Era nell’aria da una decina d’anni, da quando le trivelle avevano iniziato a demolire i bellissimi capannoni industriali del Parc des Ateliers per ricostruirli ancora più belli, dotati di aria condizionata, con percorsi d’accesso tra stagni e porte automatiche a specchi – le Seven Sliding Doors Corridor di Carsten Höller – un po’ giardino giapponese, un po’ vasta distesa della Camargue. Proprio qui, a partire dal 2013, Maja Hoffmann – collezionista, erede gruppo farmaceutico Hoffmann-La Roche – ha investito cento o forse centocinquanta milioni di euro incaricando Frank Gehry di costruire i cinquantasei metri della Torre della Fondazione Luma, i cui accartocciamenti la sera riflettono la luce di Arles, l’unica cosa che resiste e di cui nessuno sembra lamentarsi.

Si lamentano invece quelli che questa estate hanno tappezzato la città di manifesti ovviamente contro Airbnb, ma soprattutto contro la Hoffmann e la sua Fondazione. “Luma gentrifica la città!” dicono i manifesti incollati ai muri delle strade “Maja Hoffmann: 4,5 miliardi di patrimonio. Arles: 25% degli abitanti sotto la soglia di povertà!” e poi se la prendono con la trolleyfication del centro storico “Il rumore della tua valigia, la mia ossessione!”. 

Ma la povera milionaria Maja Hoffmann non è l’unico bersaglio. La famiglia Capitani, proprietaria della casa editrice Actes Sud e della mitica libreria a pochi passi dal Rodano, co-fondata nel 1978 da Hubert Nyssen e guidata fino al 2022 dalla figlia Françoise Nyssen, moglie di Jean-Paul Capitani ed ex Ministro della Cultura francese, sta contribuendo a sua volta a rimodellare l’assetto culturale di Arles. Actes Sud sarebbe protagonista dell’acquisizione di intere parti della città per lavorare su diversi «progetti imprenditoriali culturali, con l’obiettivo di professionalizzare e diversificare il settore culturale di Arles oltre l’editoria e i festival tradizionali». Insomma, creare un sistema culturale organizzato nel luogo in cui tutto era un po’ naif e improvvisato.

Certo Arles è sempre stata una cittadina piuttosto schietta, tra corride e stufati di toro serviti a ogni ora e a qualsiasi temperatura, ma forse ora sta virando sul grossier, tutto è più sfrontato. Per dire quanto importasse alla gente del posto delle star: qualche anno fa, in un Sushi All you Can Eat con vista sull’arena, veniva rimbalzata alla porta una Nathalie Portman stanca e affamata e con neonato aggrappato al braccio, il gestore non l’aveva riconosciuta e, mi dispiace signora, ma alle 21 la cucina chiude. Oggi anche l’intero All you Can Eat ha chiuso, ma non per queste gaffes, solo perché qui sta cambiando tutto.  

Qui non si tratta di Jeff Bezos che affitta Venezia per la festa di nozze. A differenza degli eventi usa e getta veneziani, che quando la festa finisce tutti salgono sui loro Gulfstream e fanno rotta verso un’altra festa, fuori dal tempo e oltre ogni luogo, qui tutto viene concepito in una visione di lungo, lunghissimo periodo. È l’orizzonte temporale infinito dell’altissima società contemporanea quando è impegnata nel tempo libero. Ristrutturano hotel pensando al prossimo millennio. 

Perfino le enoteche che dividono lo spazio tra i rosé delle Porquerolles e larea City Guides di Vuitton sono spinte dalle migliori intenzioni per contribuire, a modo loro, a questa arte del vivere. C’è chi convoca i top architetti, i top curator, i top artisti, chi allestisce i campi della Camargue con land art instagrammabile e riprogetta hotel per renderli una «vera e propria opera d’arte abitabile, dove ogni elemento, dalle piastrelle alle lampade, progettato e realizzato su misura». E c’è chi preferirebbe proseguire con la tradizione di incontri culturali che comunque, da sempre, sono molto ben posizionati nel mondo. 

Ma, anche qui, non si capisce più nulla. Lo scorso luglio, durante i Rencontres d’Arles, in una ventosa e indimenticabile serata, nellanfiteatro romano duemila persone hanno assistito alla premiazione di Nan Goldin per il “Prix Women In Motion”, un riconoscimento assegnato alla fotografa dal gruppo Kering. Nan Goldin, quando sembrava che la cerimonia fosse finita, ha detto solo «adesso ho una sorpresa per voi» e così, nel silenzio più totale di duemila persone, per venti minuti sono state proiettate immagini di Gaza, orizzontali e verticali, prese con il telefonino o qualsiasi altro mezzo, un gesto di una forza incredibile. Finito il video, qualcuno ha alzato la voce ricordando anche il 7 ottobre, ne è seguito qualche scambio di battute e Nan Goldin ha ripetuto solo «Fight! Boycott! Don’t clap, fight!».  Gli applausi sono partiti lo stesso.

Ma  la mattina successiva, nella pace dei coloratissimi cortili degli hotel dove un tempo c’erano i pesci rossi, si discuteva dell’evento. «Me ne sono andata! Non puoi prendere i soldi da Kering e incitare al boicottaggio di Israele. È imbarazzante che glielo abbiano permesso». A parlare era una persona nel CdA di un fondo di investimento con quota di maggioranza in un marchio di macchine fotografiche, a sua volta impegnata in premi che mirano a documentare il mondo che combatte tutte le sue contraddizioni. Ma, d’altra parte, dal premio Pictet al Carmignac, tutta l’alta finanza è impegnata in premi per difendere il loro “fight!”, sarà uno stupido fight, ma il nostro stupido fight.

Noi, nel nostro piccolo, abituati a storcere il naso di fronte all’overtourism, un po’ preoccupati per tutte quelle keybox con le chiavi della casa di nonna per le strade, abbiamo l’impressione di non capire più nulla di questi sistemi culturali impazziti. Arles è una città-laboratorio che, negli ultimi quindici anni, sembra essere diventata il territorio dove la cultura mangia altra cultura, dove il lusso scende nell’arena per combattere l’altro lusso, finché non sarà abbastanza. Quando sarà abbastanza?

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