Cultura | Letteratura

Alice Munro, una grande scrittrice che assomigliava a una zia

È morta il 13 maggio a 92 anni, dopo una vita passata tutta a leggere e scrivere, a unire il familiare con il meraviglioso, diventando una maestra del racconto.

di Antonio Pascale

Una volta Domenico Starnone mi disse che aveva appena letto un racconto bellissimo ma impossibile da scrivere. Aggiunse: da scrivere per chiunque, a meno che non ti chiami Alice Munro. Il racconto si chiamava “Il percorso dell’amore”, una trentina di pagine. In quel racconto impossibile, la scrittrice canadese, morta il 13 maggio a 92 anni, riusciva a raccontare le vite e le svolte sentimentali di tre generazioni femminili, nonna, madre e figlia, concentrandole in un unico episodio. Il racconto ha come tema l’eredità, intesa sia come soldi che ricevi in eredità (e che bruci come accade nel momento clou del racconto) sia come influenze varie, sentimentali, antropologiche, sociologiche che le generazioni si passano. Influenze che ci condannano o che ci spingono in direzioni non scontate, nemmeno programmate.

Lo spirito del tempo insiste sul mantra: segui i tuoi sogni, indubbiamente un buon lascito del romanticismo, ma con qualche strascico non da poco, visto che a forza di insistere sui sogni, a forza di calcare con enfasi la mano sulla tua volontà, grazie alla quale, e contro il parere della società, puoi intonare dream come true, per colpa di questa enfasi – dicevamo – finisci che ti attribuisci meriti che non hai. Ma non solo, a forza di considerare i tuoi sogni l’unica ragione di vita, finisci anche per non analizzare la consistenza dei tuoi stessi sogni, se son degni di essere vissuti o meno. Per non parlare della comunione dei sogni, per cui ogni sogno è meritevole di realizzazione, anche se sogni di invadere la Polonia. E non finisce qua, per seguire i tuoi sogni, segui una narrazione egoriferita, tutta concentrata sul tuo agire e perdi per strada molti elementi narrativi importanti, quindi i racconti disegnano una struttura classica, cronologica: ero in una buca, sono salito, sono caduto, ho riflettuto, ho infine trionfato (tanto cara anche allo storytelling televisivo, pubblicitario o politico). Oppure ho intrapreso un viaggio, sono stato attento alle sirene, ho ascoltato i consigli giusti, sono tornato a casa pieno di doni.

Ecco, mentre lo spirito del tempo si concentra sempre di più su questo mantra, formando strutture narrative ordinarie (molto noiose) e tanto funzionali allo scopo, Alice Munro andava in direzione ostinata e contraria, ma non per ideologia, nemmeno per spirito futurista, semplicemente (così mi pare) per accumulo di esperienza e seria riflessione sulla vita: la vita non la controlliamo noi, non completamente, altri elementi entrano in gioco, a parte l’eredità che riceviamo e non chiediamo, ci sono due divinità, il Tempo e il Caos (per dirla alla Cechov). Il Tempo e il Caos destrutturano la trama dei nostri sogni, quella che ci piace raccontare, insomma il solito percorso, il solito andazzo. Il Tempo e il Caos governando la nostra vita, abbattono anche l’onnipresenza del volere è potere, quell’ordine cronologico e consequenziale ex post, creano, al contrario, digressioni, buchi, spostamenti, così che la trama diventa simile a puzzle che devi ricostruire.

I racconti di Alice Munro richiedono digressioni, riflessioni, delle buche, un attenzione costante e riletture perenni, ma sono tuttavia popolari e sofisticati. Popolari perché raccontano in gran parte storie di emancipazioni sofferte e non sempre riuscite di donne che venivano dalla campagna rurale con usi e costumi del tempo che fu. Donne simili alle nostre nonne e alle nostre mamme. Sofisticati perché la Munro non ha mai avuto voglia di spiegare, orientare, fare la morale. Ecco i pezzi del puzzle – diceva la Munro – ognuno è descritto benissimo, i contorni netti, i colori scintillanti, ora uniscili tu. Questi racconti popolari e sofisticati ti lasciano una sensazione di sospensione, ti portano in uno stato di spleen che ad averceli.

«Solo alle donne era concesso scivolare, durante le ore del giorno – e sempre tenendo conto delle strepitose responsabilità scaricate sulle loro spalle dalla presenza di bambini – in una sorta di seconda adolescenza. Una leggerezza dell’anima quando i mariti se ne andavano. Sognanti ribellioni, raduni sovversivi, accessi di ilarità che riportavano ai tempi del liceo, muffe che fiorivano a spese dei mariti nelle ore in cui loro erano fuori». Così dice la protagonista del racconto “Quello che si ricorda”. Questa descrizione racconta anche la vita di Alice Munro, che più volte ha detto di aver iniziato a fare la scrittrice perché leggere e scrivere nel profondo rurale Ontario era un’attività concessa alla donne, visto i che i maschi lavoravano in campagna. Da questa attività sono nati racconti bellissimi.

La bellezza non salverà il modo, ci mancherebbe, questo è il solito antropocentrismo. La bellezza risponde forse a una formula: familiarità più meraviglia. Sei attratto da ciò che è familiare e per costruire una storia ci devono essere elementi riconoscibili. Ma se sono solo familiari non c’è bellezza, ci sono solo emozioni facili facili. Il poeta, l’artista, quando si mettono, riescono a trasformare tratti di elementi familiari in meravigliosi, intesi come situazioni nuove, che sorprendono e che ti costringono a riordinare pensieri, a riflettere più del dovuto su una scena, di scivolare, appunto, in quella sensazione di spleen. Alice Munro riusciva sempre nei suoi racconti (rompendo la cronologia, inserendo digressioni sensate e raccontando percorsi strani) a trattare temi familiari trasformandoli in sensazioni meravigliose (i romanzi non facevano per lei, in più occasioni nel corso della propria carriera Munro disse di voler provare a scrivere un romanzo, mentre in altri momenti disse che non lo avrebbe mai fatto).

Per questa sua capacità rara ha vinto il Nobel nel 2013, ma prima di allora un gruppo di appassionati aveva già cominciato a leggerla, studiarla, amarla, imitarla (in Italia le sue raccolte di racconti sono state pubblicate a partire dagli anni Novanta da piccoli editor, Serra e Riva, la Tartaruga, E/O, poi a partire dal 2000, Einaudi ha pubblicato e ripubblicato tutto, tradotto da Susanna Basso). Una volta Francesco Piccolo mi disse: «Se non leggi subito “Ortiche” possiamo anche smetterci di salutarci». Valeria Parrella mi disse, sempre a proposito di “Ortiche”: «Quella sta 20 anni avanti a noi, e quando la prendiamo». Durante i corsi di scrittura e non solo, anche nei seminari di psicologia, narrativa, fisica, biologia, insomma dovunque ero invitato, avrò letto ossessivamente almeno quattro racconti di Alice Munro: “Quello che si ricorda”, “Ortiche”, “Miles City Mentana”, “Il percorso dell’amore”. Lo ammetto, un po’ per selezionare gli astanti in base alle loro  riflessioni in proposito, un po’ per il piacere che la lettura ogni volta mi forniva. Ogni volta, leggendo alcune cose di Alice Munro, ho ricordato alcune cose mie, e sono entrato in una stato di spleen.

Ho conosciuto Susanna Basso al Premio Elsa Morante, nel 2001. Mi disse che stava traducendo una scrittrice canadese, allora non molto nota, Alice Munro, non la conoscevo. Dalla foto sembrava una delle mie zie inglesi, una signora perbene che prende il tè, quindi non che mi aspettassi molto da quella familiarità.  Mi fece leggere una racconto: “Quello che si ricorda”. Di quel momento, di quella lettura, ricordo tutto, dove l’ho letto, il tempo che faceva, il colore di alcuni fiori. Ho stampato quei ricordi bene in testa perché quel racconto era così particolare che il mio cervello, prestando attenzione all’andamento della storia (non cronologico, seguiva l’associazione dei pensieri della protagonista) ha assorbito tutto quello che mi circondava: una sensazione meravigliosa che veniva fuori da una scrittrice che assomigliava a mia zia. Il senso del racconto è: noi indossiamo simbolicamente guanti bianchi, cioè viviamo senza farci le giuste domande, senza perdere tempo in riflessioni, anzi spesso ci raccontiamo una storia di copertura, utile solo a nascondere quello che vale la pena ricordare. E non vogliamo ricordare perché ricordare significa rispondere  a domande dolorose. Quindi inventiamo storie raccontandoci che è tutto merito nostro o demerito degli altri. Alice Munro ci porta via da questo equivoco, il Tempo e il Caos sono i principali protagonisti delle trame della nostra vita, ci consegnano un’eredità, un fardello: ammetterlo è è un piccolo progresso per noi ma un grande passo per la narrativa.