Dal 2014 è conduttore e protagonista di E Poi C'è Cattelan, il talk show in onda in seconda serata su Sky Uno (tutti i ritratti che accompagnano questo articolo sono di Luca Grottoli).
Cultura | Dal numero
Alessandro Cattelan, l’arte del pop fai da te
L’eredità dei grandi presentatori, la tecnologia che cambia la tv, la via italiana al late night show: incontro con uno dei volti più noti dell’intrattenimento nazionale.
Alessandro Cattelan ci pensa per parecchi secondi e poi risponde: «A dire il vero, non mi ci sento molto». La domanda era: «Quanto c’è in te del conduttore classico?». Nelle foto che scatta subito dopo la nostra chiacchierata e che vedete in queste pagine, l’abito che indossa, in senso lato e letterale, è invece quello del presentatore di una volta. In sottofondo c’è una playlist coi successi del momento. Dice di toglierla, di mettere qualcosa «degli anni Cinquanta, Sessanta, roba così». Parte “Il tuo bacio è come un rock” di Adriano Celentano. “Il mondo” di Jimmy Fontana. Lui non sta fermo. Balla, canta. È classico e nello stesso tempo no, non lo è. Ha ragione lui. A trentotto anni, Cattelan è il volto televisivo più pop della nicchia, o il volto più di nicchia del pop. Bisogna solo decidersi su cosa sia l’una e cosa l’altro. «Oggi tutto è potenzialmente pop, perché l’accessibilità alle cose è diventata universale», attacca lui. «Pop è una definizione che vale per tutto. Prendi la musica: siamo sicuri che quello che definiamo indie lo sia per davvero? Per me il cambiamento reale degli ultimi anni sta nel fatto che, per essere pop, non devi più fare un certo tipo di percorso, non ti serve porre tanti paletti in anticipo. Con EPCC faccio un programma tecnicamente indie che però, a conti fatti, è pop. Molto pop».
«Oggi tutto è potenzialmente pop, perché l’accessibilità alle cose è diventata universale», attacca lui. «Pop è una definizione che vale per tutto. Prendi la musica: siamo sicuri che quello che definiamo indie lo sia per davvero?»
EPCC è l’acronimo di E Poi C’è Cattelan, la seconda serata settimanale di Sky Uno che tornerà l’anno prossimo con una nuova stagione. Nel frattempo, dal 25 settembre, sono arrivati – sempre su Sky Uno – sei speciali in prima serata registrati al Franco Parenti di Milano, con interviste a personaggi come Roberto Saviano, Andrea Bocelli, Valerio Mastandrea, Daria Bignardi, Roberto Mancini, Thegiornalisti, Andrea Dovizioso, Alex Del Piero, Monica Cirinnà, Emily Ratajkowski. Titolo: EPCC a teatro. Ancora prima, all’inizio di settembre, Cattelan è tornato alla guida di X Factor (dodicesima edizione per il programma, ottava per lui), che della pay-tv di casa nostra non è di certo la nicchia ma lo show, appunto, più pop in assoluto. E, a suo modo, un piccolo grande classico. «Ecco, a X Factor un po’ conduttore classico mi ci posso sentire, a EPCC no di certo. È che sono nato in un periodo in cui provare a fare altro era molto difficile. Perciò ho sempre fatto il mio lavoro aspettando il momento in cui avrei potuto proporre una cosa davvero mia, che poi sarebbe EPCC. Trovare lo spazio e il modo giusto non è stato semplice. Ho sempre fatto tv senza essere mai pienamente soddisfatto di dove stavo, di come stavo. Per carattere, quando sono in quella situazione, tendo a togliere. Divento classico nell’istante in cui penso: “Questa cosa mi può venire bene solo se resto il più pulito possibile”. Dove posso fare quello che voglio, invece, aggiungo finché ce ne sta».
Dell’aggiungere fanno parte il cazzeggio, i giochini, le gag, seguendo modelli che sono dichiaratamente stranieri, da Jimmy Fallon a James Corden a – si direbbe guardando anche solo sulla carta il nuovo EPCC a teatro – quello che sta facendo David Letterman su Netflix con Non c’è bisogno di presentazioni, sessanta minuti a ruota libera con gente come Barack Obama o George Clooney. «Per me questo modello conta tanto, sì. Negli Stati Uniti i “late show” sono programmi radicati e codificati, ogni sera ce ne sono tre pressoché identici che vanno in onda contemporaneamente, e quando finiscono ne iniziano altri tre altrettanto uguali tra loro. Gli ingredienti sono sempre gli stessi, cambia solo il modo di metterli insieme. Il problema è che, quando da noi si dice “Cattelan copia Letterman”, lo si fa perché non si conosce davvero quel genere. Io l’ho studiato e cerco di imitarlo, è vero. Ma bisogna anche considerare che quello che da noi arriva a tutti è spesso un singolo video su YouTube, quello con l’ospite che tutti conoscono, il jolly grosso da spendere per il network. Magari ce n’è uno così una volta alla settimana, o pure meno, ma in tanti si illudono che ogni giorno ci sia quel ritmo lì, inarrestabile. È un problema nostro».
Il ritmo è cambiato perché il pop è cambiato. La storia del video di Letterman (o di Fallon, o di Corden) che finisce su YouTube e fa migliaia di visualizzazioni anche da noi ci riporta alla parola che Cattelan ha pronunciato all’inizio: accessibilità. «I mezzi di comunicazione come la televisione devono fare i conti con questo scenario. EPCC non è nato con l’interesse di seguire i nuovi media, ma ora io per primo sento di dovermi mettere al pari con i più giovani, e inevitabilmente è lì che bisogna andare. Oggi ragioniamo il più possibile per far vivere il programma fuori dalla televisione. La clip con Ghali, per dire, online ha fatto sei milioni di visualizzazioni». È una tv destrutturata, si direbbe nella lingua dei masterchef. Una tv moltiplicata, sempre più difficile da far stare in una forma sola. «La mia è l’ultima generazione che ancora comprende il linguaggio televisivo tradizionale e che allo stesso tempo guarda fuori. Siamo capaci di usare le tecnologie, quindi la televisione di oggi ci sembra una cosa piuttosto superata. Però con la tv ci siamo cresciuti, è stata la nostra formazione, perciò c’è una spinta che ci riporta eternamente lì. Bisogna capire cosa succederà domani. Ora un certo tipo di tv più tradizionale sta bene per il semplice fatto, lo dico in estrema sintesi, che mia nonna è ancora viva. C’è una grossa fetta di pubblico anziano che schiaccia un tasto sul telecomando e lì si ferma, indipendentemente da quello che viene trasmesso sul canale che si trova di fronte. I ventenni, e quelli ancora più piccoli di loro, sono lontanissimi da questa modalità di fruizione dei contenuti. C’è tutto un mondo di persone che fa dei numeri incredibili su app come musical.ly: per queste persone già io sono un anziano. E questo mondo a quelli della mia età è completamente sconosciuto, non ci sfiora nemmeno. Prima, se qualcuno era famoso, sapevi della sua esistenza anche se non guardavi la Tv. Adesso siamo noi che dobbiamo andare verso questi fenomeni, per sapere che esistono».
Diventa un dialogo tra vecchi sulla panchina del parchetto. La tv di una volta, con cui abbiamo passato i pomeriggi, contro i clic e i like che riempiono le giornate degli adolescenti di oggi. L’ironia è che, da trenta-quarantenni, siamo entrambi nostalgicamente portati più verso il revival che verso la contemporaneità confinata negli smartphone. Il palinsesto Rai della nuova stagione, per dire, prevede il ritorno della Corrida, andata da Corrado (e Gerry Scotti, e Flavio Insinna) a Carlo Conti, e di Portobello, da Enzo Tortora ad Antonella Clerici. «Alla fine mi piacciono di più i programmi che sono onestamente orientati al passato rispetto a quelli che cercano di inseguire i giovani a tutti i costi. Quando ci provano, quasi mai ce la fanno: ti mettono in imbarazzo, fanno l’effetto di tuo padre che vuole raccontare le barzellette quando sei con un amico. Annunciano “Vediamo cosa scrivono di noi sui social”, ma non li sanno nemmeno usare. Il ragazzino sente l’odore di vecchio da lontano. Le trasmissioni-nostalgia invece funzionano, perché c’è gente che le sa fare bene. E alla fine, paradossalmente, possono beccare con più facilità qualcuno che non conosceva l’originale, e che la nuova versione rimane a guardarla».
Il programma più passatista d’Italia, e anche il più amato nonostante tutto, è il Festival di Sanremo. Chiunque ha chiesto ad Alessandro Cattelan: «Lo vorresti condurre, un giorno?». Non glielo domando direttamente, lui in ogni caso la prende da lontano. «Ecco, Sanremo sta vivendo una nuova età dell’oro anche grazie ai social network. Il fatto di poterlo commentare tutti insieme come in un grande gruppo d’ascolto collettivo ha riacceso l’attenzione sull’Ariston». La domanda che tutti gli fanno poi arriva, lui resta ancora in silenzio per parecchi secondi. «Per me non è un obiettivo. È una cosa che mi piacerebbe fare, certamente. Sarebbe una soddisfazione. Ma forse sentirei che sto uscendo dal mio. Vorrei andare in un’altra direzione. Prima si diceva della nicchia. Ecco, forse si chiama nicchia, in realtà non so come si chiama. Finché è una dimensione a cui tutti possono accedere, a me va bene».
Torniamo al punto di partenza. Indie contro pop. Bolla contro massa, oggi si dice anche: Paese reale. «Io di natura sono pop. Sono cresciuto negli anni Novanta, quando il pop era la cifra di qualsiasi cosa. E anch’io lo ero per gusti musicali, cinematografici, per quella cultura spiccia che ti si attacca addosso. Il pop mi ha sempre attratto, è dentro di me, me lo porterò dietro a vita. Se la seconda serata è da considerarsi “nicchia”, lo posso capire. Ma il mio atteggiamento è sempre più di apertura che di chiusura. Quello che propongo può andare bene per le persone più diverse. Tanto che, se uno non mi conosce e mi vede solo attraverso quello che faccio in tv, gli sarà difficile capire quali sono i miei gusti specifici nella vita. Non voglio circoscrivere gli argomenti, parlare solo a un certo tipo di pubblico che vuole riconoscersi in un certo tipo di cose». È l’anti-fabiofazismo, mi viene da dire. «Non ho problemi a trattare l’alto come il basso. Sempre con i miei mezzi, sia chiaro».
Gli chiedo degli esempi di riferimenti pop. «Mai dire gol e il Pippo Chennedy Show restano i miei capisaldi. Drive In. I programmi di Paolo Bonolis al pomeriggio. Friends. Tutta roba dove si poteva ridere. E tutta roba veramente pop, vedi? Ah, il Festivalbar. Oggi sarebbe assurdo rifarlo. Cioè, ci provano, ma a nessuno interessa più vedere la musica in televisione. Io, quand’ero ragazzino, partivo da Tortona col treno per venire a Milano a comprare i dischi. Oggi, anche grazie a tutti i nuovi mezzi di cui abbiamo parlato, la provincia è cambiata. Le cose non le vivi più in differita. Ai miei tempi, per dirti, il Barbour era arrivato due anni dopo».
Oggi la provincia, e non solo quella, sembra più populista che pop. «È la deriva che sta vivendo il Paese. Mi fa paura». Facciamo un gioco stupido: se il governo attuale è populista, in politica che cosa è pop? Nei giorni in cui facciamo questa chiacchierata, Matteo Renzi sta cercando di vendere il suo format televisivo (una guida alle bellezze italiane che parte da Firenze) a un canale disposto ad acquistarlo. «Di questo sinceramente non so molto. Rimarrei sull’aggettivo “populista”. La voglia di intercettare il consenso popolare a tutti i costi è una deriva che mi spaventa. E mi spaventa l’idea di una classe dirigente così aderente alle persone comuni. Non sono mai stato dalla parte dei politici amici, non mi piace che il Parlamento sia fatto da gente al mio livello. Vorrei che un politico mi mettesse persino un po’ in imbarazzo per quanto è migliore di me. Se no si finisce per ragionare per simpatia e antipatia, esattamente com’è successo con Renzi».
Resta da sbrogliare la domanda di partenza, che provo a porre in un altro modo. Non più «Quanto c’è in te del conduttore classico?» ma, più semplicemente, «Che cos’è oggi il conduttore classico?». Cattelan stavolta non ci pensa troppo. «È una figura che ha un sacco di campo aperto. E che deve mettere insieme sempre più pezzi, e sempre più diversi. La possibilità di successo, almeno per quanto mi riguarda, è riuscire a fare tutto abbastanza bene per poi poter fare più o meno bene tutto». E dopo? «Nel futuro non vedo tanto la conduzione, ma una forma di intrattenimento ampia, spalmata. Questo esperimento a teatro va in quella direzione: fare l’entertainer, che non è il presentatore, è un’altra cosa. Vedo più concessioni alla comicità, ma anche la possibilità di sviluppare autorevolezza nell’esprimere il mio punto di vista. Spero che EPCC diventi un riferimento, una certezza. Gli auguro una lunga vita, così da diventare un appuntamento a cui non devi neanche più pensare. Sai che c’è quella mezz’oretta a tarda sera e magari ti ci fermi un attimo per ascoltare un’opinione, per capire di cosa si discute in quel momento, per avere il senso dello Zeitgeist». Alessandro Cattelan, il ragazzo pop, ha detto Zeitgeist. Allora forse è di nicchia per davvero.