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Il ministero del Turismo l’ha fatto di nuovo e si è inventato la «Venere di Botticelli in carne e ossa» come protagonista della sua nuova campagna Dopo VeryBello!, dopo Open to Meraviglia, dopo Itsart, l'ultima trovata ministeriale è Francesca Faccini, 23 anni, in tour per l'Italia turistica.
LinkedIn ha lanciato una sua versione del Wrapped dedicata al lavoro ma non è stata accolta benissimo dagli utenti «Un rituale d'umiliazione», questo uno dei commenti di coloro che hanno ricevuto il LinkedIn Year in Review. E non è neanche uno dei peggiori.
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Dire a una persona che quello che ha scritto sembra scritto dall’AI adesso è un’offesa e si chiama AI shaming

Ed è anche un insulto classista, come si legge in un paper appena pubblicato e dedicato a questa delicata questione.

24 Luglio 2025

Scrivere male, con un tono privo di carattere e comunicando in modo prevedibile, o chiedere all’AI di farlo al posto vostro per una questione di pigrizia o ansia da prestazione, non è più un limite letterario ma il risultato dell’ingiustizia sociale. La curiosa posizione è stata dibattuta in un serissimo paper che fotograferebbe nientemeno che la nascita di un nuovo slur, un’espressione o un termine spregevole e discriminante, di stampo classista. 

La colpa di cui non bisogna macchiarsi? Dire a un collega o a un amico che scrive in maniera così noiosa e poco incisiva che i suoi testi sembrano generati dall’intelligenza artificiale o di averla usata per scrivere una mail dal tono robotico e impersonale. Accademici, ricercatori, professori e studiosi hanno cominciato a tirarsi frecciatine l’uno l’altro, accusandosi di usare l’intelligenza artificiale a mo’ di sfotto. Un modo abbastanza discreto e molto anglosassone per suggerire che lo stile di scrittura dell’altro lascia molto a desiderare: d’altronde chi vorrebbe sentirsi dire che scrive in quel modo così rigido, ripetitivo e un po’ servile che rende immediatamente riconoscibile il tono da AI? 

Sarebbe una canzonatura di poco conto, non fosse che alcuni si sono offesi sul serio. La loro indignazione ha generato i primi dibattiti e paper accademici sul tema. L’ipotesi è questa: sottolineare che lo stile di qualcuno ricorda quello dell’AI o, peggio, che l’AI è stata utilizzata per incapacità, sarebbe un insulto classista. Chi sottolinea che gli altri utilizzano l’AI anche laddove non necessario si macchierebbe dell’odioso crimine di AI shaming. Le classi medio-alte, insomma, farebbero della capacità di esprimersi in maniera chiara, corretta e magari anche gradevole nella lingua scritta una questione di privilegio, esponendo a canzonature e imbarazzi chi, per svantaggio sociale, non ha una scrittura altrettanto incisiva e piacevole. 

Insinuare dunque che una mail o un paper sembrano scritti da un’AI sarebbe, insomma, un modo per limitare l’accesso al mondo della cultura e della conoscenza solo a chi ha avuto la fortuna, il privilegio, di nascere con un certo talento per la scrittura e di avere avuto tutti gli strumenti e le occasioni per coltivarlo, questo talento. Una posizione curiosa e che sicuramente farà discutere, considerando quanto è recente l’avvento delle l’intelligenza artificiale: sembrava un po’ presto per imputare a loro le nostre carenze espositive e sintattiche, ma a quanto pare non è così. 

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