Cultura | Dal numero

Adriana Mulassano, vita straordinaria di una giornalista di moda

Le sue recensioni delle sfilate sul Corriere della Sera erano imprescindibili: abbiamo chiesto a una delle poche critiche di moda transitate sui giornali italiani di raccontarci la sua carriera.

di Antonio Mancinelli

Le sue recensioni delle sfilate sul Corriere della Sera erano imprescindibili. È stata una delle poche critiche di moda transitate sui giornali italiani. Prima di lei, il diluvio. Di notizie di bassa lega, destinate alle “pagine rosa” dei quotidiani, dov’erano relegate le donne che osavano fare la giornalista: quest’anno va il giallo, tutte in minigonna, cose così. Poi, secondo l’italica e patriarcale consuetudine per cui, se sei femmina e brava, ci dev’essere l’articolo davanti al cognome, arrivò  “la  Mulassano”. E cambiò tutto. Quello di Adriana non era giornalismo, ma critica di moda fondata su una cultura omnicomprensiva. Se un giorno studieranno la moda tra il 1968 e il 1980, gli anni in cui scrisse per il Corriere della Sera, si noterà che durante le sfilate c’era un’impennata nelle vendite di gastroprotettori. Venivano razziati dagli stilisti che fuori dalle edicole aspettavano mezzanotte, quando usciva il giornale, per leggere il suo verdetto: definitivo, secco, che metteva uno stop ai giudizi degli addetti ai lavori, divisi in fazioni che neanche un convegno del Pd di oggi. È stata la mia maestra. Ritrovarla oggi, a 81 anni nel 2020, più che mai immersa nella contemporaneità, è rasserenante. Ci incontriamo a Roma, città da cui lei, così milanese, si è fatta adottare con felicità. Vive da sola in una casa bellissima e piena di ricordi, ma non di nostalgie. E si racconta e riflette sullo stato dell’industria, con l’ironia e l’acume che da sempre la caratterizza.

ⓢ Sai che quando ti ho conosciuto a inizio carriera, nel 1985, mi incutevi terrore?
Pensavano che me la tirassi, che fossi odiosa. In realtà era una forma di difesa. So di essere un tale pezzo di pane che la gente mi può denudare psichicamente, fisicamente. Ero la seconda giornalista a essere assunta al Corriere dopo Giulia Borgese. Se capivano che ero anche buona, era finita.

ⓢ Sei stata la prima “non cronista” di moda.
In Italia, sì. Trovo che quando prendi sul serio il tuo lavoro, non puoi comportarti come se uscissi con gli amici, perché vieni disarmato dal sistema. Ho un mio detto: «Non è il tubino nero che sta bene a tutte, è il cervello. Indossatelo!».

ⓢ Ti conosco da 35 anni e ho una domanda che voglio farti da sempre. Ma a te, quando hai iniziato, interessava davvero occuparti di moda?
Assolutamente  no. Volevo scrivere, è una cosa diversa. C’è un virus familiare: mio nonno era caporedattore del Corriere, mio zio è stato uno dei fondatori de Il Giorno, mia sorella faceva la giornalista. A 13 anni ho detto ai miei «Voglio scrivere». Ma l’inizio della mia carriera non riguarda la scrittura. Dopo la licenza liceale con la media del 10, mio padre, uomo di intelligenza spaventosa, e mia madre, donna con una testa tanta, mi hanno chiesto: «Che facoltà fai?». Io: «Voglio andare in America». Era il 1957.

Tutte le foto appartengono all’archivio personale di Adriana Mulassano

ⓢ E i tuoi?
Papà ha detto: «Ti pago il viaggio di andata e di ritorno e tre mesi di sostentamento, dopo di che decidi tu». Una volta arrivata, ho deciso che quei soldi non li avrei spesi. E così facevo la cameriera in un bar di Brooklyn. Venivano pressappoco sempre gli stessi clienti, tra cui un signore molto compìto. Dopo quindici giorni, mi ha domandato: «Ma tu perché stai qui?». Gli ho detto la verità. E lui: «La moda non t’interessa?». Io: «What? Fashion?! A me piacerebbe scrivere», e allunga il suo biglietto da visita. C’era scritto Richard Avedon. Sono stata con lui un anno e mezzo, ho imparato l’imparabile. Facevo la fashion buyer, si chiamava così allora. Non ero una stylist. Dovevo cercare i gioielli, gli accessori da abbinare ai vestiti. Però un giorno gli ho detto: «Richard, io voglio scrivere». E lui: «Il giornalismo qui in America è terribile: se vuoi, vai in Francia. Telefono a una mia amica, Madame Lazareff», che all’epoca era la più potente direttrice europea, a capo di Elle.

ⓢ Ti è andata bene…
Che noia, tutti a dire “come sei fortunata!”. Non sapevo neanche chi fosse Madame Lazareff, non sapevo una mazza. Sono partita per Parigi. Ci sono stata un altro anno e mezzo soffrendo le pene dell’inferno perché le mie colleghe, divine sul lavoro, non mi hanno mai nemmeno proposto di bere qualcosa insieme. Via di lì, torno a Milano e il Corriere apriva Amica. Mi presento all’amministratore delegato, si chiamava Coli. Mi disse: «Ma lei cosa vuole?» Avevo l’aria di una sedicenne. E nel ’68 sono approdata al Corriere.

ⓢ Caspita, un anno tosto.
Tostissimo. Quando sono andata al Corriere il direttore era Alfio Russo. Mi ha detto: «Noi la moda la facciamo quattro volte all’anno». Gli ho risposto che ero disponibile a fare tutto. E sono finita alla cultura, quando c’erano Eugenio Montale e Dino Buzzati. Ho detto tutto.

Ma all’approccio critico ci hai pensato o ti è venuto spontaneo?
Ho cominciato semplicemente a scrivere. Nessuno ha mai detto: «Stai attenta, è un inserzionista». Sono venuta via dal Corriere nel 1990, come una cameriera, anzi peggio: non ho dato neanche gli otto giorni di preavviso. Alla quinta telefonata dell’ufficio pubblicità e il cazziatone a mezzanotte e cinque del socio di un famoso stilista, furibondo per una mia recensione, me ne sono andata. Se devo limitare la mia libertà di critica, scrivere non fa più per me. Non ce la faccio. Preferisco fare altro. E infatti ho fatto altro: dal 1992 al 2000 ho diretto la comunicazione di Giorgio Armani.

Dall’archivio personale di Adriana Mulassano

ⓢ Non pensi che ci sarebbe bisogno di tornare a un tipo di lettura critica, anche a rischio di non compiacere chi paga per la pubblicità?
Sono sicura che ci torneremo. Magari io non lo vedrò. Quel che non riesco ancora a spiegarmi è perché si possa criticare un film, uno spettacolo, un’automobile, una canzone, un ristorante, ma non una sfilata. Paolo Isotta ha fatto stragi di prime alla Scala, passavo io i suoi pezzi, e nessuno minacciava ritorsioni economiche. Ma perché, solo gli stilisti pagano? Tutti gli altri? La Fiat non paga? La Mercedes, la Chrysler… Pagano tutti. Del resto, se una maison tonfa per una volta, non c’è niente di male. Anzi: dovrebbe accettare le critiche perché le si fanno ai bravi, non alle mezzeseghe. Di quelle non parlavo neanche.

ⓢ Lo so, però la moda è un po’ come il calcio: tutti allenatori, tutti stilisti.
La qualità di un giornalista – è inutile lo dica a te – è di essere permeabili. Devi captare cose, oltre che studiarle. Non basta leggere un libro per imparare la storia della moda. Bisogna conoscere persone che possano insegnarti qualcosa di nuovo. E avere l’umiltà di sapere che c’è sempre qualcosa da imparare.

ⓢ Oggi, però, oltre alla pubblicità, ci sono anche nuovi personaggi sulla scena: blogger, influencer, TikToker…
È tutto cambiato. Però il 98 per cento di loro è impreparato. Quel che mi colpisce è che vengano ormai trattati alla pari di una che scrive, quando sono personaggi inventati. E poi, sai: se io o te scriviamo un blog è perché battiamo i marciapiedi della moda da quarant’anni. Se lo fa una che non sa niente è inutile e fa il gioco del marketing.

ⓢ Però ci sono fior di giornalisti professionisti che si comportano da influencer, con tanto di selfie e didascalie con i nomi dei vestiti. Ricordo che la prima cosa che mi dissero, arrivato a Milano: «Alle sfilate si va composti, mai un segno visibile di chi siano i vostri abiti».
Certo, anch’io avevo le “divisine da Mulassano”. Giacche decorose, ma non riconoscibili. Pantaloni scuri. Scarpe basse. Del resto il mio stile è da sempre lo stesso.

Dall’archivio personale di Adriana Mulassano

ⓢ Quando hai fatto il salto dall’altra parte, ti sei mai pentita?
Assolutamente no.

ⓢ Non ti mancava?
Ho avuto due grandi privilegi: fare un lavoro che mi è piaciuto moltissimo ed averlo lasciato quando si era già un po’ chetato. L’ultima rivelazione italiana è stata Miuccia. Prima di lei, Romeo Gigli e Dolce & Gabbana. Fino ad Alessandro Michele, che però fa un’operazione di abilissimo styling, un “put together” di grande personalità. Non si lavora più sulla struttura degli abiti. Il punto è un altro: non c’è più creatività in Occidente. La parola stessa “creare” sottintende fare qualcosa che prima non c’era. I link con la pittura, con la musica, con la politica, con tutto: come fai a ignorarli? Cosa me ne frega a me di contare le pieghe di una sottana, se non sei capace di capire da cosa viene fuori?

ⓢ Ci sarà qualcosa di cui provi rimpianto…
La dimensione umana. Potevamo parlare direttamente con gli stilisti, gli imprenditori, i tessutai. Dicevano cose interessantissime e noi giornalisti funzionavamo come cinghie di trasmissione. Era una dimensione diciamo un po’ casalinga, ma ci si deve tornare.

ⓢ Oggi chi ti piace?
Raf Simons. Per me lui è il massimo. Anche Dior lo ha fatto al massimo. L’hai visto Dior and I, il film? Fantastico, no? È geniale. Mi è piaciuto quando ha lavorato per Dior perché è l’unico che ha studiato davvero come aggiornare lo spirito di Dior.

ⓢ Perché non scrivi un memoir?
Jamais dans la vie. Se dovessi fare un libro lo dovrei fare sulla mia esperienza. Non voglio parlare di me. Tornerei a dare giudizi che a questo punto sono diventati ancora più aspri. Più definiti diciamo.

ⓢ A proposito, hai visto Made in Italy?
E come non l’ho visto? Più che visto, l’ho fatto. Ho conosciuto Ago Panini e Luca Lucini, i registi. Dico: «Ragazzi, guardate che bisogna stare molto coi piedi per terra, perché non si possono fare cose fiction tipo quella delle sorelle Fontana». «No, mica vogliamo fare quella roba lì. Dovresti farci da consulente». Io gli ho fatto tutta la parte storica e i personaggi da tirar fuori, dopo di che loro hanno lavorato sulla trama, di cui a me non fregava niente. Mi hanno adoperato come ispirazione per il personaggio della Buy. Adesso stiamo scrivendo gli anni ’80. A giorni dovrebbero mandarmi la sceneggiatura delle prime tre puntate della seconda stagione.

ⓢ Io l’ho trovato cronologicamente corretto, ma la realizzazione è un po’ così così…
Non m’interessava. Certo, quando mi hanno detto «Andrà sulle reti Mediaset», gli ho risposto: «Se me lo aveste detto cinque mesi fa, non mi sarei messa neanche a lavorare».

ⓢ Le guardi ancora le sfilate?
Sì, se mi capita. C’è un’ultima cosa che bisognerebbe dire in merito a come va la moda oggi. Quota 100 andrebbe applicata anche ai designer. Perché adesso, negli uffici di quelli importanti ci sono persone bravissime, tenute in stato di schiavitù. E questo non va bene